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Crisi francese e mozioni di censura: Bardella e Aubry uniti contro Ursula von der Leyen

La crisi politica in Francia arriva a Bruxelles: Bardella e Aubry guidano due mozioni di censura contro Ursula von der Leyen. L’Unione Europea teme l’indebolimento di Macron e la spinta dei populismi.

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La tempesta politica che ha travolto la Francia si è spostata a Bruxelles e Strasburgo. Alla Plenaria del Parlamento europeo, Jordan Bardella (foto Imagoeconomica), leader del Rassemblement National, e Manon Aubry, esponente di spicco de La France Insoumise, hanno presentato due mozioni di censura contro la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

Un fronte trasversale e inedito — estrema destra ed estrema sinistra — che riflette la profonda crisi del macronismo e la crescente sfiducia delle opposizioni francesi verso Bruxelles. La coincidenza politica è significativa: entrambi i partiti, rivali sul piano ideologico, condividono l’obiettivo di indebolire tanto Macron quanto l’attuale leadership dell’Unione.


L’Europa osserva con timore il caos politico francese

A Bruxelles cresce la preoccupazione per la paralisi politica di Parigi, considerata da sempre pilastro dell’asse franco-tedesco. La caduta del governo di Sébastien Lecornu, avvenuta a pochi giorni dalla sua formazione, ha lasciato la Francia in un vuoto istituzionale che rischia di minare la stabilità dell’Ue.

Fonti comunitarie parlano di “una Francia in bilico”, sia sul piano politico che economico. Il debito pubblico oltre la soglia di guardia e il recente downgrade di Fitch confermano una situazione finanziaria critica che, secondo gli analisti, potrebbe avere effetti a catena sull’intera eurozona.

A Berlino, il cancelliere Friedrich Merz ha invitato alla prudenza: “Evitiamo di drammatizzare, ma la situazione resta delicata”.


Von der Leyen sotto attacco ma richiama all’unità

Durante il dibattito, Jordan Bardella ha giustificato la mozione definendola “necessaria per salvare l’Europa”, accusando von der Leyen di aver tradito i cittadini europei. Manon Aubry, dal canto suo, ha attaccato la presidente per aver costruito “una maggioranza di potere con la destra estremista e il Ppe di Manfred Weber”.

Von der Leyen ha replicato con fermezza: “L’Europa è in massima allerta. I nostri avversari non solo sfruttano le divisioni, ma le fomentano attivamente”. E ha invitato a difendere la coesione europea: “Dividersi significa cadere nella trappola di Vladimir Putin”.

A sostenerla, come di consueto, sono stati i gruppi del Ppe e di Renew Europe, mentre Socialisti e Verdi hanno mostrato freddezza, segnale di una maggioranza Ursula sempre più fragile.


La crisi francese e il rischio di un effetto domino europeo

Per Bruxelles, la crisi politica francese è molto più di un episodio interno: rappresenta una minaccia strategica per la stabilità del continente. Con Macron indebolito e le opposizioni in crescita, l’Ue teme che dal 2027 all’Eliseo possa sedere un presidente euroscettico, sia esso Jordan Bardella o un esponente della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon.

Un simile scenario si sommerebbe alle difficoltà già in corso in Polonia, dove l’europeista Donald Tusk è in calo nei sondaggi, e alle tensioni nei Paesi Bassi e in Germania, dove avanzano i sovranisti.


Il futuro dell’Europa tra populismi e instabilità

Le due mozioni di censura presentate oggi non dovrebbero avere i numeri per passare, ma rappresentano un segnale politico forte: l’Europa è più divisa che mai.

Nel momento in cui la Commissione deve affrontare dossier cruciali — dalla ricostruzione dell’Ucraina alle riforme economiche sulla competitività — la crisi francese rischia di paralizzare l’intero sistema.

Von der Leyen, sempre più isolata, si affida ora alla tenuta del suo asse politico con Macron. Ma se Parigi continuerà a vacillare, anche l’architettura politica dell’Ue potrebbe presto incrinarsi.

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Due anni dopo il 7 ottobre, Gaza è una distesa di macerie: 67mila morti e una popolazione stremata

Due anni dopo l’attacco di Hamas, Gaza è distrutta: oltre 67mila morti, fame, carestia e 90% delle case rase al suolo. Israele accusato di crimini di guerra, mentre cresce la solidarietà internazionale per la popolazione palestinese.

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Due anni dopo il 7 ottobre 2023, la Striscia di Gaza è una distesa di macerie, fame e disperazione. Gaza City è ormai una città fantasma, mentre due milioni di palestinesi sono stati costretti a sfollare più volte, ammassandosi nel sud in condizioni disumane. Gli aiuti umanitari arrivano con il contagocce e la fine della guerra sembra ancora lontana.

Quel giorno, Hamas lanciò l’operazione Diluvio di Al-Aqsa, attaccando i villaggi israeliani al confine e uccidendo 1.200 persone, tra israeliani e stranieri, oltre a sequestrare 251 ostaggi. Israele rispose con l’operazione Spada di Ferro, bombardando la Striscia e lanciando una controffensiva senza precedenti.


La guerra e lo sfollamento di massa

Dopo i primi raid aerei, il 13 ottobre 2023 l’esercito israeliano ordinò agli abitanti del nord di spostarsi verso sud, dando il via al più grande esodo palestinese della storia recente: oltre un milione di persone costrette a lasciare le proprie case. Il 27 ottobre cominciò l’invasione di terra e la divisione della Striscia in due, con intere città rase al suolo e civili uccisi, affamati o arrestati.

La prima tregua arrivò a novembre 2023, mediata da Egitto, Qatar e Stati Uniti, con il rilascio di alcuni ostaggi e detenuti palestinesi. La seconda, annunciata a Doha nel gennaio 2025, durò poco: Israele riprese i bombardamenti il 18 marzo, provocando nuove stragi e condanne internazionali.


Le accuse di crimini di guerra

Nel frattempo, l’esercito israeliano uccise i capi di Hamas a Gaza, Mohammed Deif e Yahya Sinwar. Ma la Corte penale internazionale, nel novembre 2024, emise mandati di arresto anche contro il premier Benyamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e contro l’umanità, inclusa “l’uso della fame come arma di guerra”.


Fame, carestia e distruzione totale

Israele ha imposto un blocco quasi totale sulla Striscia, impedendo l’arrivo di beni essenziali. Ogni giorno servirebbero 500 camion di aiuti, ma ne entrano solo pochi.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre mezzo milione di palestinesi è intrappolato nella carestia, con una popolazione stremata dalla fame e priva di cure.

Le cifre diffuse dalle autorità locali sono impressionanti: 67.000 morti, 9.500 dispersi, 170.000 feriti, tra cui 4.800 amputati e 1.200 paralizzati. Il 90% delle case è stato distrutto, insieme a 38 ospedali e quasi tutte le scuole. Almeno 12.000 aborti spontanei sono stati causati da malnutrizione e stress, mentre la fame ha ucciso 460 persone, di cui 150 bambini, secondo l’Unicef.


Giornalisti uccisi e silenzio mediatico

Israele ha impedito l’accesso ai reporter internazionali. Più di 200 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’inizio del conflitto, rendendo difficilissimo documentare la tragedia.

Casi emblematici come quello della piccola Hind Rajab, uccisa mentre chiedeva aiuto al telefono insieme ai paramedici che cercavano di soccorrerla, hanno scosso l’opinione pubblica. La sua storia è stata raccontata nel film “The Voice of Hind Rajab”, premiato con il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia.


La solidarietà internazionale e la speranza

Negli ultimi mesi, diversi Paesi europei hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, mentre la Freedom Flotilla Coalition ha organizzato una nuova missione per rompere il blocco israeliano e portare aiuti umanitari.

Da due anni di guerra, Gaza emerge come una ferita aperta nel cuore del mondo, simbolo di un’umanità che chiede giustizia, pace e dignità.

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Cardinale Parolin: “Qualunque piano che coinvolga i palestinesi e ponga fine alla strage è da sostenere”

Il cardinale Pietro Parolin sostiene ogni piano che coinvolga i palestinesi e metta fine alla guerra di Gaza. Il segretario di Stato vaticano chiede la liberazione degli ostaggi e denuncia l’immobilismo della comunità internazionale.

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«Qualunque piano che coinvolga il popolo palestinese nelle decisioni sul proprio futuro e permetta di finire questa strage, liberando gli ostaggi e fermando l’uccisione quotidiana di centinaia di persone, è da accogliere e sostenere».
Così il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, in un’intervista ai media vaticani alla vigilia del secondo anniversario del 7 ottobre, data che segnò l’attacco di Hamas a Israele e l’inizio dell’attuale guerra a Gaza.

Parolin ha ribadito la posizione della Santa Sede, che fin dal primo momento ha condannato il pogrom di Hamas come «disumano» e «ingiustificabile», chiedendo la liberazione immediata degli ostaggi e la fine della spirale di violenzache da due anni insanguina il Medio Oriente.


Il monito alla comunità internazionale

Nell’intervista, il cardinale ha denunciato la passività della comunità internazionale, accusandola di «non fare abbastanza per fermare la guerra».

«Non basta dire che è inaccettabile quanto avviene e poi continuare a permettere che avvenga. Ci sono serie domande da porsi sulla liceità del continuare a fornire armi che vengono usate contro la popolazione civile», ha dichiarato Parolin.

Il porporato ha poi sottolineato la paralisi delle Nazioni Unite, incapaci finora di porre fine al conflitto, e ha invocato un rafforzamento del loro ruolo nel mantenimento della pace mondiale:

«Ci sono attori internazionali che possono influire per porre fine a questa tragedia. Serve una strada per dare all’Onu un ruolo più efficace nelle tante guerre fratricide in corso».


Giovani e manifestazioni: “Un segno di speranza”

Parolin ha espresso un giudizio positivo sulle manifestazioni di piazza a sostegno di Gaza, pur riconoscendo che alcune degenerazioni violente rischiano di distorcerne il messaggio.

«Mi colpisce positivamente la partecipazione di tanti giovani. È il segno che non siamo condannati all’indifferenza. Dobbiamo prendere sul serio il loro desiderio di pace e di impegno: ne va del futuro del mondo».


“La preghiera non basta senza l’impegno concreto”

Il segretario di Stato vaticano ha poi risposto a chi critica la Chiesa per il suo ruolo nel conflitto, sostenendo che la fede non può essere disincarnata.

«Sono un prete e credo nella preghiera incessante perché Dio ci assista e sostenga gli sforzi degli uomini di buona volontà. Ma la fede cristiana o è incarnata o non è: non possiamo restare indifferenti di fronte a ciò che accade intorno a noi».

Parolin ha ricordato l’invito di Papa Francesco a recitare il Rosario per la pace l’11 ottobre, ma ha ribadito che accanto alla preghiera serve un impegno concreto:

«La preghiera non sarà mai abbastanza, ma non lo sarà nemmeno l’azione. Servono mobilitazione delle coscienze e iniziative di pace».

Un messaggio chiaro, nel segno della diplomazia umana e spirituale che il Vaticano continua a esercitare nel cuore del conflitto mediorientale.

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Netanyahu tra falchi e colombe: la destra minaccia la crisi di governo sul piano Trump per Gaza

Netanyahu sotto pressione tra falchi e moderati: Ben Gvir e Smotrich minacciano la crisi di governo sul piano Trump per Gaza, mentre la Knesset e la maggioranza degli israeliani sostengono l’accordo per la liberazione degli ostaggi.

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Da venerdì sera, dopo l’annuncio di Hamas pronto a liberare gli ostaggi “con condizioni”, il premier Benyamin Netanyahu si trova nel pieno di un delicato equilibrio politico.
Il leader israeliano è costantemente in contatto con i ministri dell’ultradestra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, contrari alla fine della guerra nella Striscia di Gaza e ostili al piano Trump, che prevede una tregua e la ricostruzione postbellica.

Subito dopo lo Shabbat, Netanyahu ha incontrato i due leader per oltre due ore, aggiornandoli poi nei giorni successivi sugli sviluppi.


Le minacce di Ben Gvir e le critiche di Smotrich

Il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, capo del partito Otzma Yehudit (Forza Ebraica), ha minacciato di lasciare il governo se Hamas “continuerà a esistere” dopo la liberazione degli ostaggi.
Ha definito la possibile amnistia per i miliziani disarmati, prevista dal documento americano, una “sconfitta nazionale”.

Più sfumato ma altrettanto critico, il ministro delle Finanze Smotrich ha accusato Netanyahu di cedere alle pressioni di Washington, contestando la sospensione delle operazioni militari dell’Idf nella Striscia, richiesta direttamente dal presidente statunitense.

Entrambi, da sempre contrari a ogni cessate il fuoco, rappresentano la frangia più radicale del governo, e la loro opposizione rischia di incrinare la tenuta della coalizione.


L’appoggio di Lapid e Gantz al premier

Sul fronte opposto, i leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz hanno garantito a Netanyahu una “rete di sicurezza parlamentare” per approvare l’accordo.
Lapid, che ha già comunicato agli Stati Uniti il sostegno del suo partito Yesh Atid, ha avvertito Ben Gvir e Smotrich di non sabotare un’intesa che “può salvare vite umane”.
Gantz ha ribadito che “il percorso sarà lungo e complesso finché tutti gli ostaggi non saranno liberati e Hamas non sarà sostituito”.


L’opinione pubblica e la pressione delle famiglie

Al di là delle tensioni politiche, la maggioranza della Knesset e dell’opinione pubblica israeliana sostiene l’accordo.
Le famiglie degli ostaggi hanno inviato una lettera al comitato di Oslo, chiedendo che il Premio Nobel per la Pace 2025 venga assegnato a Donald Trump per il suo ruolo nel negoziato.

La società israeliana, stremata da mesi di guerra, chiede una soluzione immediata per riportare a casa i rapiti.
E neppure due “teste calde” come Ben Gvir e Smotrich sembrano pronte ad assumersi la responsabilità di far cadere il governo nel momento più delicato dalla tragedia del 7 ottobre.

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