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Il mondo senza Trump e il trumpismo in America

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 Attendiamo lo spoglio delle urne negli ultimi Stati: Pennsylvania, Carolina del Nord, Alaska, Georgia, Nevada. Quel che possiamo dire è che Joe Biden è a un soffio dalla Presidenza degli Stati Uniti. Il suo destino si gioca probabilmente in Nevada, dove sta vincendo, con un vantaggio esiguo: 7.647 voti in questo momento.

Ciò induce una riflessione inquietante, la prima di una serie che faremo su questo giornale nei prossimi giorni, quando analizzeremo il voto nel dettaglio: i destini dell’America e, se possiamo dire, del mondo, appesi al filo di un pugno di elettori di un piccolo Stato che la più parte della gente conosce per i film western, e, in Italia, per i fumetti di Capitan Miki e di Tex Willer.

         Gli altri Stati in bilico, infatti, sono tutti a trazione repubblicana e di tradizione repubblicana. Ma non sfugge il fatto che in Georgia, il Sud profondo, la differenza tra i due candidati si gioca sul filo di 20.000 voti. Questo dice che alla ripresa dei conteggi, considerando i voti per posta –presuntivamente più blu che rossi– la tendenza può essere ribaltata e il risultato clamorosamente capovolto.

         In attesa di risultati certi e definitivi, val la pena insistere sulla complessità del processo elettorale americano. Per dire la diversità che vi si esprime, l’imprevedibilità che guizza in giro nelle grandi pianure e nelle rocciose montagne, nelle metropoli a cavallo degli Oceani, lungo i fiumi solenni, nelle passioni dei freddi artici e delle spiagge tropicali, nelle convenzioni, negli stordimenti, negli elusivi proclami dell’ottimismo di cui tutti sembrano aver bisogno quando si tratta degli Stati Uniti. Anche noi.

         We know we are beautiful. And ugly too.” E’ il verso di Langton Hughes che parla degli afroamericani ma che si puòestendere a tutti gli USA.

E quindi il primo a imporsi nell’inclusione americana, attorno al grande tavolo dove tutti trovano posto, è lui, The Donald, che in piena notte di martedi, twitta: “Vinciamo. Anche se stanno tentando di rubarci la vittoria”. Parla come un qualunque presidentello da IV Mondo che si autoproclama magistrato supremo a qualche ora dalla chiusura delle urne e a spoglio ancora largamente in corso, con l’aggravante di un complotto annunciato da tempo che diventa una teoria politica da brivido. “Persiste et signe” come dicono i francesi: si appresta a contestare i risultati eventualmente ribaltati dal voto per posta, particolarmente importante in questo frangente.

         Del resto, non è stata forse eletta al Congresso Marjorie Taylor Greene, imprenditrice 46enne, attivista di QAnon? Come cos’è QAnon! Fatevelo venire in mente: è il movimento cospirazionista convinto che Trump conduca una lotta segreta e senza quartiere contro una setta di pedofili e satanisti di cui farebbero parte Obama, Clinton (Hillary) e l’immancabile Soros.

         Ma è stata eletta anche Sarah Mc Bride, la prima transgender a diventare senatrice. Ed è il partito conservatore, non quello progressista, che ha eletto il più giovane membro del Congresso: Madison Cawthorn, 25 anni.

 

         Nulla si può aggiungere a quanto ha detto Joe Biden, in quella stessa notte, dopo che i risultati che annunciavano la vittoria democratica in Arizona ha scalfito il “red wall” del conservatorismo repubblicano. “La strada che alla luce dei risultati stiamo percorrendo è quella giusta. Ma dobbiamo avere pazienza, perché per sapere chi è il 46° Presidente degli Stati Uniti ci vorrà tempo”.

Joe Biden ha raccolto 71,6 milioni di voti popolari, un consenso mai visto prima nella storia elettorale democratica: ben 3, 5 milioni in più del Presidente uscente. Un’investitura netta, che tuttavia il sistema dei voti elettorali, attribuiti per Stati, rende in qualche modo nullo. Come che sia, il mondo prova a pensarsi senza Trump. Le borse asiatiche stamani in anticipo col fuso orario, sono al rialzo: Tokyo, Hong Kong. La Cina, pur favorevole a Trump nelle scorse elezioni, oggi sembra tirare un sospiro di sollievo per le possibilità si condurre su base negoziale una guerra commerciale durissima che comunque gli USA difficilmente abbandoneranno.

         Nel mondo senza Trump la questione ambientale tornerà in primo piano sulla scena globale: Biden ha promesso addirittura come primo atto eclatante della sua Presidenza un rientro negli accordi di Parigi sul clima. Sarebbe auspicabile che nessuna intesacon la Cina, nelle nuove prospettive aperte da Washington passi sulla pelle della transizione climatica e si esiga, dunque, da Pechino un segnale concreto della sua riconversione green: non troppo lenta, vorremmo, e comunque decisa ed immediatamente significativa.

         La tela dei rapporti con l’Unione Europea andrà riconsiderata, di là dalle relazioni bilaterali, più o meno strumentali al disegno complessivamente divisivo coltivato da Trump. Per il quale la “grandezza dell’America”, perno della sua ideologia politica, è sembrata passare attraverso l’indebolimento degli altri attori globali, e segnatamente, appunto, dell’Europa. Ma politiche “ricostruttive” andranno pensate e pazientemente perseguite un po’ dovunque: in Medio Oriente, in Asia centro-meridionale, in America Latina. La politica africana degli USA, già impoverita dall’afroamericano B. Obama e completamente azzerata da Trump, andrà ri-edificata.

         Quanto al quadro interno, c’è da dire che se Trump esce di scena, non scompare affatto il trumpismo. Il fatto che 68,1 milioni di elettori americani fossero disposti ad avere quest’uomo come Presidente per altri quattro anni dà molto da riflettere. Come ha notato qualche osservatore, il trumpismo si avvia a diventare una cifra permanente dell’anima americana, come per alcuni versi lo è il peronismo per l’Argentina: qualcosa che non si sa bene cos’è, qualcosa di fluttuante, che scompare per lungo tempo a volte, ma che è lì, pronto a riemergere quando le circostanze lo permettano.E, soprattutto, buono per ogni cosa: populismo, suprematismo, protezionismo e tutti gli “ismi” che di volta in volta si possono declinare.

         Come abbiamo già avuto modo di accennare su “juorno.it”, gli ingredienti del trumpismo che minacciano di essere più duraturi sono due. Il primo ha a che fare con la diffusione dello spirito del Settimo Cavalleggeri, con uomini e donne pronti a tirar fuori un’arma per risolvere un problema: qualsiasi problema! Il secondo ha a che fare con la diffusione di uno spirito antiscientifico come tentativo di legittimare una specie di “ignoranza creatrice”: con la quale si può affrontare ogni problema –economico, sociale, politico, sanitario- con la forza dell’intuito e contando sulle risorse del momento.

Possiamo prevedere dunque, nei prossimi giorni e settimane, qualche intemperanza verbale e qualche battaglia legale, scatenate dai “mastini del trumpismo” (Rudolph Giuliani, avvocato personale di Trump, ha dato il primo squillo di tromba del SettimoCavalleggeri). Possiamo augurarci che ciò non si traduca in violenze di strada, con saccheggi, morti e feriti: come pure molti temono, non senza ragione. Ma nell’immediato ci aspettiamo soprattutto una ripresa della politica sanitaria del governo federale in accordo con i governi statali e le autorità locali. Una politica sanitaria che riesca a far fronte alla disseminazione di morte che la pandemia da coronavirus, negata in modo atroce e insieme grottesco da Trump, non ha cessato di fare, approfittando anche dei calcoli politici di una campagna elettorale ora finalmente conclusa.  

 

 

 

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Turbolenza sul volo Londra-Singapore, un morto e feriti

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Una turbolenza fortissima e improvvisa ha colpito un volo Londra-Singapore provocando la morte di un britannico di 73 anni, probabilmente per infarto, e il ferimento di 40 passeggeri, di cui 7 ricoverati in gravi condizioni. Tutto è accaduto a bordo del volo SQ321 della Singapore Airlines. Dopo 11 ore di viaggio, mentre sorvolava il mare delle Andamane, in Birmania, il velivolo, un Boeing 777, in appena 5 minuti è precipitato nel vuoto, perdendo all’improvviso 2.000 metri di quota. Il pilota è riuscito a recuperare il controllo ma è stato comunque costretto ad un atterraggio di emergenza a Bangkok. Difficile a caldo stabilire con certezza le cause di questa turbolenza, definita dai vertici della compagnia aerea “improvvisa ed estrema”. Tuttavia, secondo diversi esperti citati dalla Bbc, questo tipo di fenomeni sarebbero sempre più frequenti, provocati dagli effetti del cambio climatico.

La cronaca degli ultimi tempi pare confermare questa tendenza: nel marzo 2023 una grave turbolenza su un jet privato ha provocato la morte di un ex funzionario della Casa Bianca. Nel luglio dello stesso anno, sette persone sono rimaste ferite su un volo della Hawaiian Airlines per Sydney, in Australia, anche in quel caso per una forte turbolenza. Secondo uno studio del 2022 le turbolenze “in aria limpida” aumenteranno in modo significativo in tutto il mondo nei prossimi decenni. Intanto in rete circolano le immagini drammatiche dei momenti di panico vissuti dai 211 passeggeri e dai 18 componenti dell’equipaggio a bordo, decollati dall’aeroporto londinese di Heathrow alle 22.30 di ieri (ora di Londra, le 23.30 italiane). Pare che il velivolo – riferiscono alcuni testimoni – abbia iniziato a puntare verso l’alto, quindi sono iniziate delle oscillazioni sempre più forti e infine la drastica caduta.

“I passeggeri che erano seduti senza cintura di sicurezza allacciata, si sono ritrovati scaraventati lontani dai loro posti”, ha raccontato all’agenzia Reuters il 28enne Dzafran Azmir. Altre immagini mostrano cappelliere ammaccate, oggetti vari sparsi sul pavimento e mascherine d’ossigeno d’emergenza pendere sopra i sedili. Singapore ha inviato subito una squadra di suoi investigatori per indagare meglio sull’accaduto, mentre Boeing, dal suo quartier generale di New York, ha immediatamente espresso le sue condoglianze ai parenti della vittima e la sua vicinanza ai passeggeri rimasti feriti, compresi i 9 componenti dell’equipaggio. Condoglianze anche dal presidente di Singapore Tharman Shanmugaratnam: “Non abbiamo i dettagli delle persone colpite, ma sappiamo – ha detto in una nota – che tutti stanno facendo del loro meglio per aiutare le persone colpite e collaborando con le autorità di Bangkok, dove l’aereo è atterrato”. Ancora nessuna indicazione sull’identità della vittima e dei feriti. La compagnia aerea ha solo diffuso le nazionalità dei passeggeri, confermando che non c’erano italiani a bordo ma 56 australiani, 47 del Regno Unito, 41 di Singapore, 23 dalla Nuova Zelanda, 16 dalla Malesia, cinque dalle Filippine, quattro dall’Irlanda e dagli Usa, tre dall’India, due dall’Indonesia, dal Myanmar, dalla Spagna, dal Canada, uno dalla Germania, da Israele, dall’Islanda e dalla Corea del Sud.

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La Corte dell’Aia chiede arresto Netanyahu e Sinwar: hanno commessi crimini di guerra

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È arrivata dalla Corte penale internazionale (Cpi) con sede all’Aia la richiesta che venga emesso un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ministro della Difesa Yoav Gallant e 3 leader di Hamas: Yahya Sinwar, Mohammad Deif e Ismail Haniyeh. I cinque sono accusati di crimini di guerra. Il procuratore Karim Khan ha specificato che i due ministri israeliani sono sospettati di “aver causato lo sterminio, usato la fame come metodo di guerra, compresa la negazione di forniture di aiuti umanitari, e di aver deliberatamente preso di mira i civili durante il conflitto”, mentre i vertici del gruppo palestinese sono accusati di sterminio, omicidio, presa di ostaggi, stupro e violenza sessuale durante la detenzione.Immediata la reazione delle due parti che hanno respinto con forza la richiesta del procuratore Khan, definita “uno scandalo” da Netanyahu che, ha precisato, “non fermerà né me, né noi”.

Compatta la leadership di Tel Aviv nel condannare la posizione del pubblico ministero, considerata “un crimine storico” dal ministro Benny Gantz. Il ministro degli Esteri, Israel Katz, ha visto nella decisione “un attacco frontale contro le vittime del 7 ottobre e contro i nostri ostaggi ancora a Gaza”. Israele non riconosce la giurisdizione della Cpi, così come non ne sono membri Stati Uniti, Cina e Russia.Proteste si sono levate anche tra le fila di Hamas che ha fatto domanda per l’annullamento della richiesta dei mandati di arresto, accusando la Corte dell’Aia di “equiparare la vittima al carnefice” e “di incoraggiare la continuazione della guerra di sterminio”. Secondo il gruppo palestinese, anche le misure contro Netanyahu e Gallant sono arrivate “sette mesi troppo tardi” e sono poco significative, visto che non includono “tutti i funzionari israeliani che hanno dato ordini e i soldati che hanno commesso crimini”.

“Scandalosa” è stato l’aggettivo utilizzato anche dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha sottolineato: “Non esiste alcuna equivalenza – nessuna – tra Israele e Hamas”. Visione condivisa anche dal Regno Unito che, attraverso una nota del ministero degli Esteri, ha affermato: “Non crediamo che la richiesta di mandati aiuterà a liberare gli ostaggi, a ottenere aiuti o a garantire un cessate il fuoco sostenibile. Come abbiamo detto fin dall’inizio, non riteniamo che la Cpi abbia giurisdizione in questo caso”. Favorevole, invece, la vicepresidente spagnola, Yolanda Diaz: “Buone notizie. Il diritto internazionale deve valere per tutti”. Intanto a Gerusalemme sono scoppiate nuove proteste davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, per chiedere le dimissioni di Netanyahu, mentre Gallant, incontrando il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan, ha assicurato che l’operazione a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, si espanderà. L’esercito israeliano ha stimato che 950mila palestinesi hanno già evacuato la città, mentre tra i 300.000 e i 400.000 civili restano ancora nella zona costiera e in alcune parti del centro cittadino.

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La sfida iraniana nel Grande gioco mediorientale

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La sfida dell’Iran nel ‘Grande gioco’ mediorientale rimane lì sul tavolo, anche dopo la morte del presidente Raisi, ma, nel medio termine, qualcosa potrebbe cominciare a cambiare. La strategia di politica estera dei mullah negli ultimi anni è stata centrata su tre punti molto chiari: isolamento di Israele e aumento contenuto della tensione con lo Stato ebraico, alleanze strategiche con altre autocrazie, a cominciare della Russia, e cauto avvicinamento al mondo sunnita, cominciando con l’Arabia Saudita. La guerra in Ucraina e quella a Gaza, dove l’Iran ha svolto e svolge un ruolo importante, hanno da un lato reso evidenti e spinto i primi due punti, ma hanno anche fermato il percorso del terzo punto, quello che avrebbe potuto potenzialmente disegnare un nuovo Medio Oriente.

La guerra in Ucraina ha portato ad una stretta alleanza militare con la Russia, alla quale l’Iran ha fornito, tra l’altro, i droni che sono stati uno dei punti di forza della controffensiva in Ucraina. La guerra a Gaza ha portato la tensione con Israele a livelli altissimi culminati con il primo attacco iraniano in territorio israeliano e alla risposta di Tel Aviv. In entrambi i casi, per fortuna, i due contendenti hanno tenuto ben saldo il piede sul freno limitandosi ad attacchi più simbolici che altro, nella consapevolezza che si era arrivati sull’orlo del burrone di una devastante guerra regionale. Ma la guerra di Gaza ha avuto l’effetto di bloccare il dialogo avviato tra Arabia saudita e Israele per un accordo simile a quelli di Abramo che avevano già legato lo Stato ebraico a Bahrein, Emirati Arabi, Marocco e Sudan.

Questo è stato uno degli effetti collaterali più importanti nel nuovo disegno geopolitico del Medio Oriente allargato. L’Iran è lo sponsor di movimenti come Hezbollah, Houthi e Hamas che da Teheran vengono finanziati e appoggiati politicamente oltre a ricevere rifornimenti bellici, know how e addestramento. L’attacco del 7 ottobre ha avuto una valenza politica importante proprio nel bloccare il nuovo dialogo tra Tel Aviv e Riad. Ma, allo stesso tempo, ha fermato anche il disgelo tra Teheran e Riad che da poco avevano riallacciato le relazioni diplomatiche dopo anni di gelo e tensioni.

È interessante sottolineare che l’artefice di questo riavvicinamento è stata quella Cina cha da tempo sta aumentando la sua influenza in Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa. In questa fase è invece ripartito, in maniera sotterranea, il dialogo fra Israele e Arabia saudita. La morte improvvisa di Raisi non cambierà la postura di Teheran in tempi brevi, ma le elezioni anticipate costringeranno probabilmente i vertici di Teheran ad affrontare in anticipo il tema della successione di Khamenei, 84enne e, secondo voci ricorrenti, gravemente malato. Non è un mistero che Raisi, uomo durissimo nel combattere gli oppositori e nel reprimere ferocemente le proteste di piazza, era in pole position per una naturale successione a Khamenei.

A questo va aggiunto che i Pasdaran stanno diventando progressivamente più potenti e che il ruolo dell’esercito sta crescendo molto. Gli equilibri interni del regime stanno insomma mutando, per quanto possano mutare all’interno di un sistema rigido ed autocratico. Da questa situazione potrebbero arrivare cambiamenti all’interno degli equilibri del regime, anche in direzione di un’ulteriore maggiore durezza nella proiezione internazionale di Teheran.

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