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Boy Scout cambiano nome in Usa per includere le ragazze

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Rivoluzione nei Boy Scouts americani. L’organizzazione fondata in Texas 114 anni fa ha deciso di cambiare nome per essere più inclusiva e accogliente nei confronti delle ragazze. Dall’8 febbraio del prossimo anno, giorno del suo 115esimo avversario, l’associazione dei piccoli esploratori diventerà ‘Scouting America’ “un’evoluzione naturale volta a garantire che tutti i giovani americani si sentano riconosciuti”, ha dichiarato Roger A. Krone, presidente e amministratore delegato dell’associazione centenaria. In realtà, si tratta anche di una mossa strategica dopo che negli ultimi tempi l’organizzazione, da sempre roccaforte del conservatorismo del sud degli Stati Uniti, è stata travolta da oltre da migliaia di denunce di abusi sessuali che l’hanno portata, nel 2020, a dichiarare bancarotta e accettare un piano di ristrutturazione per 2,4 miliardi.

E solo l’anno scorso, gli Scouts hanno iniziato a risarcire migliaia di vittime attraverso il Victims Compensation Trust che, si prevede, pagherà 2,4 miliardi di dollari a più di 82.000 ragazzi che hanno subito abusi. Da allora l’organizzazione ha imposto una serie di protocolli per evitare che altre persone debbano soffrire per violenze del genere. Tra questi, una formazione obbligatoria sulla protezione dei giovani per volontari e dipendenti, un processo di screening che include controlli dei precedenti penali per i capi e il personale adulto e una politica che richiede che almeno due adulti che abbiano seguito il training siano sempre presenti con i giovani durante le attività. Ma gli scandali hanno comunque dato un grande scossone alla sua fama. Come altre organizzazioni, inoltre, durante la pandemia gli Scouts hanno perso molti membri, un vero e proprio crollo rispetto al picco raggiunto nel 2018 con oltre 2 milioni di iscritti.

Attualmente il numero si è assestato su poco più di un milione di cui 176.000 ragazze. Peraltro alle giovani esploratrici non era permesso accedere ai ranghi più alti dell’associazione fino al 2017, una forma di discriminazione che ha colpito anche i soci gay che non sono stati ammessi fino al 2013. Quando le porte si aprirono per la prima volta per le ragazze, la spiegazione ufficiale fu che era un modo per aiutare le famiglie nell’organizzazione dei figli, ora i vertici dell’associazione sostengono che il cambiamento debba essere rappresentato anche nel nome. “E’ giunto il momento per l’organizzazione di avere un nome che rifletta meglio i giovani attualmente iscritti – ha spiegato Krone – tanto più che quasi il 20% dei membri sono ragazze o giovani donne”. Il rebranding, ha sottolineato il presidente, non cambierà la missione di preparare “i giovani a fare scelte etiche e morali in base ai principi scout.

I valori dell’America sono valori di scouting”. Nello Stato tra i più conservatori d’America c’è tuttavia chi storce già il naso definendolo un cambiamento “non necessario”, mentre le Girl Scouts – un’organizzazione separata dai Boy Scouts of America – hanno contestato che questa apertura in nome della parità di genere potesse creare confusione e danneggiare i loro sforzi di reclutamento. Hanno quindi presentato una denuncia alla Corte federale di Manhattan. Ma alla fine, un giudice ha stabilito che entrambe le associazioni possono usare parole come “scout” e “scouting”.

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Milei accusa la moglie di Sanchez, è crisi diplomatica

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Le insinuazioni di presunta corruzione nei confronti della moglie di Pedro Sanchez non erano nuove, ma questa volta è scoppiata la crisi diplomatica, dopo che il presidente dell’Argentina, Javier Milei, ha rilanciato oggi le invettive dal palco della kermesse del partito dell’ultradestra Vox al Palacio de Vistalegre, prima scagliandosi contro il socialismo, da lui definito “corrotto e cancerogeno”, e poi, senza citare il premier Pedro Sanchez, definendo la sua consorte, Begona Gomez, “corrotta”.

Il riferimento era al caso sul quale la procura ha avviato un’indagine per corruzione, che il marito premier ha attribuito alla “macchina del fango” e che lo aveva indotto a una pausa di riflessione di cinque giorni per meditare sulle sue eventuali dimissioni, che poi non ci sono state. Immediata e durissima la reazione di Madrid, che ha richiamato per consultazioni “sine die” l’ambasciatore spagnolo a Buenos Aires e ha preteso da Milei “pubbliche scuse” nel corso di una dichiarazione istituzionale del ministro degli Affari esteri, José Manuel Albares, per dare maggiore enfasi alla condanna.

“Chiediamo al signor Milei di rispettare le forme dovute tra nazioni, che escludono ingerenze negli affari interni, e anche che sia all’altezza del grande Paese che rappresenta e della posizione che occupa, che non avrebbe mai dovuto abbandonare le forme e il rispetto, tanto meno mentre era nella capitale della Spagna,” ha affermato Albares. Il capo della diplomazia spagnola ha definito “estremamente gravi” le accuse di Milei e ha affermato che in assenza di scuse, la Spagna prenderà “misure adeguate per difendere la sua sovranità e dignità”.

Dichiarazioni “che non non hanno precedenti nella storia delle relazioni internazionali, soprattutto tra due Paesi e due popoli uniti da forti legami di fraternità”, ha detto Albares. “Il signor Milei ha portato le relazioni tra Spagna e Argentina al momento più critico della nostra storia recente”, ha aggiunto il ministro. Sulla dichiarazione istituzionale, l’esponente del governo ha consultato i portavoce parlamentari, ricevendo “un’ampia” adesione di tutte le forze politiche, tranne il conservatore Partito Popolare e Vox, che si sono smarcati.

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Tragedia in Iran, nessun sopravvissuto nell’elicottero del presidente Raisi precipitato

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In una drammatica sviluppo degli eventi, la Mezzaluna Rossa iraniana ha confermato la morte di tutti i passeggeri a bordo dell’elicottero del presidente Ebrahim Raisi. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, non vi sarebbero sopravvissuti all’incidente che ha coinvolto il leader iraniano.

I dettagli emergenti descrivono una scena desolante: “Non c’è segno di vita nell’elicottero” ha riferito un portavoce della Mezzaluna Rossa, aggiungendo che “la cabina è bruciata”. Le immagini diffuse dai media iraniani mostrano i soccorritori in azione, impegnati in un tentativo disperato di trovare segni di vita tra i resti dell’apparecchio.

L’incidente rappresenta un colpo devastante per l’Iran, gettando il paese in un profondo lutto e sollevando interrogativi urgenti sulla sicurezza dei trasporti e le procedure di emergenza in situazioni di crisi. La perdita del presidente Raisi e dei suoi collaboratori più stretti segna un momento di incertezza politica per la nazione, mentre le autorità continuano a indagare sulle cause esatte dello schianto.

La comunità internazionale ha espresso le proprie condoglianze, e molti leader mondiali hanno inviato messaggi di solidarietà al popolo iraniano in questo momento di dolore. Le implicazioni di questa tragedia per la stabilità regionale sono ancora da valutare, ma è chiaro che l’incidente avrà ripercussioni a lungo termine tanto a livello nazionale quanto internazionale.

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Raisi, delfino di Khamenei e ariete anti-Israele

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Ultraconservatore, ex giudice capo della magistratura iraniana, ayatollah delfino della Guida Suprema Ali Khamenei e in pole position per la successione, il presidente Ebrahim Raisi si è dimostrato un intransigente nemico di Israele, degli Stati Uniti e dell’Occidente ma anche delle rivali monarchie del Golfo in politica estera e un inflessibile tutore del regime islamico in politica interna. E’ stato eletto nel giugno del 2021 a succedere al moderato Hassan Rohan con il 62% dei voti in un’elezione nella quale si è toccata la più bassa affluenza alle urne della storia della Repubblica Islamica. Raisi si è trovato imbrigliato in una crisi economica generata dalle sanzioni occidentali, con elevata disoccupazione e inflazione alle stelle, sulla quale si è innestata la crisi del Covid-19.

Ma molti osservatori notano come la sua priorità quasi ossessiva fosse il mantenimento della sicurezza interna e un incremento delle spese per la difesa piuttosto che i problemi sociali ed economici nei quali la società iraniana si è avvitata. Sotto di lui nel settembre 2022 è dilagò l’ondata di proteste seguite alla morte della giovane Mahsa Amini, alla quale rispose con un ulteriore irrigidimento dell’ordine pubblico, con una serie di condanne a morte. Una tendenza, del resto, perfettamente in linea con il suo passato.

Nato il 14 dicembre del 1960 nella città santa di Mashhad, neanche 19enne, quando la rivoluzione islamica guidata da Ruhollah Khomeini trionfò, quasi subito entrò a far parte delle corti rivoluzionarie, dove fece una rapida carriera, che per i suoi oppositori resta piena di punti oscuri. Da giovane procuratore aggiunto di Teheran fu tra i 4 membri della cosiddetta Commissione della morte che nel 1988 fece impiccare in modo sommario migliaia di dissidenti, soprattutto attivisti di sinistra: almeno 3 mila esecuzioni accertate, per alcuni fino a 30 mila.

“A chi ci parla di compassione islamica e perdono, noi rispondiamo che affronteremo i rivoltosi fino alla fine e sradicheremo la sedizione”, aveva ribadito anche durante la repressione delle proteste del Movimento Verde, che nel 2009 si opponeva alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. Con in capo il turbante nero, simbolo dei discendenti del profeta Maometto (i sayyid), è ritenuto un delfino e possibile successore dell’anziana Guida suprema Ali Khamenei, fu suo allievo di giurisprudenza islamica. Dopo aver fallito quattro anni fa la corsa alla presidenza, Khamenei lo promosse capo dell’apparato giudiziario per i suoi “meriti” nell’aver salvato la Rivoluzione.

Sotto il suo impulso è ripartito il programma di arricchimento dell’uranio, dopo un periodo di stallo seguito all’uscita unilaterale degli Stati Uniti di Trump dall’accordo sul nucleare del 2015, e si è estesa, potenziata e perfezionata la guerra per procura in tutta la regione mediorientale, dall’Iraq alla Siria, da Libano e Gaza allo Yemen. Nel marzo del 2023, a sorpresa, ripristinò le relazioni diplomatiche di Teheran con l’Arabia Saudita, malgrado l’attrito in corso fra la monarchia i ribelli sciiti suoi protegées Houthi nello Yemen. Dando così prova di realismo politico e forse aprendo la strada a mosse di maggior respiro strategico, pochi mesi prima dello scoppio della guerra a Gaza con il sanguinoso attacco di Hamas a Israele, dietro al quale s’intravvede la lunga mano di Teheran. Guerra che ha portato anche al primo scontro diretto con l’arcinemico israeliano, con lo scambio di missili dello scorso aprile.

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