Tutto sembra concentrarsi ormai sul vaccino: attenzione mediatica, ricerca scientifica, strategia politica. Le tendenze sono chiare:
I. l’infezione cresce: 26 milioni di contagiati nel mondo; 1/4 negli USA, la metà tra USA, Brasile e India;
II. gli atteggiamenti oscillano tra lo spregio nei confronti della pericolosità del virus da parte specialmente dei più giovani ma, come s’è visto con le vacanze estive, senza escludere nessuna fascia d’età, con la sola eccezione, forse, degli over ’70.
Di fronte a tutto ciò, i protocolli di prevenzione e di contenimento affidati alla sanità pubblica (tamponi, cluster) sono praticamente stabili, senza che nessun progresso si possa registrare, ad esempio grazie all’app di tracciamento “Immuni”. Dal loro canto, i percorsi terapeutici sono al palo. Dopo che qualche medico che sta ancora al suo posto –ahimé- e si trova ad avere in cura contagiati illustri ci aveva raccontato che il COVID 19 era clinicamente allo stremo (con tutta una serie di infiorescenze sul tema, tipo l’attenuazione dell’aggressività del virus). Dopo che i vari negazionismi sparsi per il mondo hanno disseminato dubbi e false speranze, incrociando ragion di Stato -come nei regimi autoritari- e inettitudine politica -come nelle democrazie americane vulnerate dalle leadership di Trump e Bolsonaro.Ecco: qualche mio amico medico ospedaliero di Milano -dottori come tanti, mica star della TV- mi dicono che i protocolli di cura sono esattamente quelli di giugno. Tre mesi di stallo.
Jair Bolsonaro e Donald Trump. Sono da capo dei Paese con massimo dei contagi e dei decessi da Covid 19
Per parte mia, posso dire che se avessi qualche sintomo, qui in Campania dove sto attualmente, come in Lombardia, dove vivo abitualmente, non saprei che pesci pigliare. Sì insomma non saprei come comportarmi, nonostante abbia chiesto anche attraverso i social di darmi un numero di telefono per chiamare in caso di necessità. Apertis verbis, si ha l’impressione che il “famoso” argine della pur suggestiva “medicina territoriale” che dovrebbe impedire l’assalto alla diligenza ospedaliera e l’intasamento delle terapie intensive, in caso di una temuta recrudescenza dell’epidemia, ebbene, semplicemente, non c’è.
Intendiamoci: il vaccino è l’arma elettiva contro l’epidemia, e la concentrazione degli sforzi sulla sua messa a punto è un fatto positivo. Ma il modo in cui questi sforzi si stanno dispiegando è deleterio. Intanto, perché la spasmodica pressione sul vaccino induce non solo a trascurare le terapie, ma porta ad accelerare le fasi di sperimentazione. E quindi, non parliamo della Russia e della Cina, che annunciano tempi iper-rapidi per i loro miracolosi vaccini. Ma parliamo degli USA, dove sembra esserci una propensione Federale ad avviare la distribuzione del farmaco addirittura prima che si sia conclusa la “fase 3”: il che significa che noi non saremo certi né della sicurezza né dell’efficacia del vaccino. Insomma, un approccio di stile trumpista, nel quale è impossibile avere qualche ancoraggio conoscitivo solido.
Assemblea Oms. L’organizzazione chiede massima cautela in tema di vaccini
Inoltre, il “vaccine nationalism” denunciato ieri dal Washington Post non solo trasforma una sana competizione scientifica in una agghiacciante competizione politica, ma richiama in battaglia gli “animal spirits” del capitalismo farmacologico per cui il vaccino, che sembrava fino a qualche settimana fa un “bene comune” dell’umanità in sofferenza, è diventato un business, un prodotto attorno a cui si costruiscono macchine per fare soldi. E’ notizia di questi giorni, per dire, che gli USA non partecipano alla Covax Facility, il massimo sforzo mondiale patrocinato dalla World Health Organization per mettere un vaccino sicuro ed efficace a disposizione di tutti, eliminando le diseguaglianze umane di fronte alla malattia e alla morte causate dalla povertà. Ben 170 Paesi si accingono ad entrare in questo progetto, tra cui Giappone ed Unione Europea. Non così gli Usa, che vedono la WHO come il fumo negli occhi. E dunque sì, avete capito bene: gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di immettere sul mercato uno o più vaccini anche di dubbia sicurezza ed efficacia, a prezzi di mercato e secondo le tecniche pubblicitarie del mercato. A quanto pare la pandemia, il più grande spettacolo del mondo da 6 mesi a questa parte, continua ad andare in scena e reggerà il cartellone per qualche tempo.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.