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Cinema

Coda, il film sui sordi rompe il tabù e vince l’Oscar

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Una parola, CODA, acronimo di Children of Deaf Adults, figlio udente di genitori sordi, e’ diventata improvvisamente familiare alla notte degli Oscar. E’ il titolo del film che ha fatto la storia, vincendo (era uno dei due favoriti tra i 10 titoli in nomination), la statuetta per il miglior film e anche gli altri due premi per cui era candidato: il migliore attore non protagonista, andato aTroy Kotsu, il primo attore sordo ad aver mai vinto e alla regista Sian Heder per la migliore sceneggiatura non originale. I tre premi e gli altri presi in tanti festival a cominciare dal Sundance che lo ha lanciato un anno fa stanno illuminando una realta’ che riguarda migliaia di persone, con associazioni sparse nel mondo e che un commovente dramma familiare ha portato alla ribalta. Non a caso Troy Kotsu ritirando il premio lo ha dedicato alla sua comunita’ disabile, ai Coda di tutto il mondo e ha detto: “E’ il nostro momento”. Il film racconta di Ruby Rossi (Emilia Jones) che insieme ai suoi genitori sordi (Marlee Matlin e Troy Kotsur) e al fratello sordo (Daniel Durant), aiuta a gestire l’attivita’ di pesca della famiglia sulla costa del Massachusetts ma poi crescendo si ritrova a lottare per decidere tra aiutare la sua famiglia e perseguire il suo sogno di andare alla scuola di musica, e’ il remake americano della commedia francese del 2014 La Famiglia Belier diretta da E’ric Lartigau. Marlee Matlin nel 1986 vinse il premio Oscar per Figli di un dio minore, prima volta nella storia per un’attrice sorda. Al di la’ della bellezza di questo film completamente indipendente, una storia intensa e commovente di formazione incentrata su Ruby , un’adolescente che e’ l’unica udente della sua famiglia, c’e’ un altro segnale da cogliere. Le tematiche sulla disabilita’ stanno facendo un prepotente ingresso nella produzione cinematografica, meno episodico di esempi che pure esistono, rompendo un tabu’, quello della rappresentazione della disabilita’.

E questa notte degli Oscar ne e’ una riconferma. Il film subito dopo il debutto al Sundance 2021 fece impazzire il pubblico, scatenando una guerra di offerte tra Amazon, Netflix e gli altri. Apple Studio se lo aggiudico’ per la cifra record di 25 milioni di dollari. E questa notte ha portato a casa la soddisfazione del suo primo Oscar per il miglior film. Al festival fondato da Robert Redford tra le montagne dello Utah, vinse i quattro premi principali del concorso Drama e da li’ e’ cominciata la sua ascesa, proseguita ai Bafta e ai Sag. In Italia e’ stato trasmesso da Sky lunedi’ 21 marzo ed e’ in streaming su NOW. Sull’onda dei tre Oscar arriva anche in sala, distribuito da Eagle, da giovedi’ 31 marzo. Il trio di personaggi sordi al centro della storia e’ interpretato da attori sordi, che sono cosi’ eloquenti nella loro espressione che abbiamo a malapena bisogno di sottotitoli o altri caratteri per tradurre. “Il vero problema che abbiamo e’ che queste storie vengono raccontate cosi’ di rado, che quando lo sono, c’e’ questa pressione ad essere la rappresentazione di tutti. La mia speranza invece e’ che raccontando questa storia si raccontino altre storie “, ha detto la regista Sian Heder. L”esigenza primaria per la cineasta, era evitare nel racconto ogni stereotipo o preconcetto sulle persone sorde: “Per questo mi sono circondata di consulenti mentre scrivevo la sceneggiatura, sia ‘Coda’, sia appartenenti alla comunita’ sorda. Poi due artiste, Alexandria Wailes and Anne Tomasetti, anche loro non udenti, mi hanno affiancato per verificare il corretto uso nelle scene della lingua dei segni e il modo nel quale stavamo rappresentando la comunita’ sorda, che volevo fosse il piu’ realistico possibile – sottolinea Heder -. Ad esempio mostriamo Jacki e Frank Rossi come una coppia appassionata che vive appieno anche la propria sessualita’ . Volevo che oltre allo humour e alla complessita’ del racconto, ogni personaggio risultasse vero e tridimensionale, in pregi e difetti”.

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Oppenheimer sbanca agli Oscar, il film su papà della bomba atomica fa incetta di premi

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‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan sbanca gli Oscar: la pellicola porta a casa 7 statuette su 13 candidature, ma tutte le piu’ importanti – film, regia, attori maschili protagonista e non protagonista – e aggiunge premi prestigiosi a quello gia’ assegnato dal pubblico. Basato sul libro vincitore del premio Pulitzer ‘American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer’ di Kai Bird e Martin J. Sherwin, frutto di due decenni di ricerche, il film di Christopher Nolan parla di una delle figure piu’ geniali e controverse del XX secolo considerato il padre della bomba atomica.

In ‘Oppenheimer’ Nolan racconta in un film di tre ore, per meta’ in bianco e nero che ha incassato quasi un miliardo di dollari (958 milioni), la parabola e i dilemmi morali del grande fisico che fu a capo del Progetto Manhattan, attivato in gran segreto dagli Usa nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, mentre le sorti del conflitto sembravano ancora favorire al Germania nazista. Il governo americano scelse il brillante scienziato, nato nel 1904 da genitori tedeschi di origini ebraiche, a capo del team riunito nei laboratori di Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo.

Nel suo team il regista inglese ha voluto alcuni collaboratori storici che, come lui, tornano a casa con l’Oscar: i produttori Emma Thomas e Charles Roven, il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, con cui gia’ aveva girato ‘Interstellar’, ‘Dunkirk’ e ‘Tenet’. E Jennifer Lame per il montaggio e il compositore Ludwig Goransson (gia’ Oscar per ‘Black Panther’).
Oltre al neo premio Oscar Cillian Murphy, ‘Oppenheimer’ ha un grande cast, a partire da Robert Downey Jr. (anche lui premiato con l’Oscar) nei panni del capo della Atomic Energy Commission, Lewis Strauss.

Poi Emily Blunt nella parte della moglie del fisico, Matt Damon in quelli del generale che diresse il Progetto Manhattan, Leslie Groves, e Florence Pugh nei panni di Jean Tatlock, l’amante dello scienziato, oltre a Gary Oldman nel ruolo del presidente Harry Truman (poco piu’ di un cameo, ma davvero magnifico) e Kenneth Branagh in quello di Niels Bohr, il padre della fisica quantistica.

Nel suo film, Christopher Nolan traccia un ritratto a volte un po’ didascalico e non privo di qualche inesattezza o omissione (il rapporto con Albert Einstein un po’ esagerato e quello con Enrico Fermi troppo sottovalutato) di Robert Oppenheimer, unica persona, il solo scienziato, in grado secondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba di motivare gli scienziati di Los Alamos e di farsi seguire nel progetto forte del suo carisma e della sua tenacia. Oppenheimer colpi’ il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticita’. Piu’ di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare.

Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione. Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

 

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Addio a Paolo Taviani, con Vittorio rigore e impegno civile

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Rigore e impegno civile: questa la cifra dei Taviani, la coppia più affiatata di tutte, quei fratelli toscani che scesero a Roma negli anni ’50 per cambiare il mondo e riuscirono a cambiare il cinema italiano. Dopo la scomparsa di Vittorio, il 15 aprile 2018, se ne va oggi a 92 anni, nella clinica villa Pia di Roma, dopo una breve malattia, anche Paolo. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio, dalle 10 alle 13. Il suo ultimo film, in solitario, “Leonora addio”, presentato in concorso a Berlino nel 2022, segue il rocambolesco viaggio delle ceneri di Pirandello, da Roma ad Agrigento, a quindici anni dalla sua morte: “Siamo cresciuti insieme io e Vittorio e sempre lavorando”, ha raccontato Paolo in quella occasione.

“Sento ancora dietro di me il suo fiato. Anche a lui piaceva molto il set e mi ricordo ci litigavamo le scene, quando toccava a me e avevo finito di girare cercavo la sua approvazione e confesso l’ho fatto anche adesso in questo primo film senza di lui”. Quel suo ultimo film lo ha voluto in bianco e nero, come in un ideale ritorno agli esordi di quel cinema, firmato Paolo & Vittorio Taviani, che fin dagli anni ’50 ha tracciato un’ideale linea di confine tra il magistero del Neorealismo e un nuovo cinema realista, volutamente ideologico e poetico insieme. Nati a San Miniato, vicino a Pisa, da una famiglia borghese, con padre avvocato e antifascista, i Fratelli Taviani arrivano a Roma con un’idea ben chiara nella testa: fare il cinema, suggestionati dalla scoperta di “Paisà” (Rossellini è il maestro dichiarato), emozionati da “Ladri di biciclette”.

“Quando il film uscì – ha raccontato Paolo – fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio”.

Ma sono modelli che poi si sono trasformati in consapevolezza interiore, tanto che i due fratelli hanno sempre negato di avere un solo riferimento e di amare soprattutto il confronto con la letteratura; anche la collaborazione con Valentino Orsini (al loro fianco all’esordio) e con il produttore più fedele (l’ex partigiano Giuliani De Negri) è sempre stato più un confronto ideologico che una guida estetica. Dal sodalizio sono nati film che hanno segnato la storia del cinema come il profetico “Sovversivi” sulla fine della fiducia cieca nel comunismo reale e il visionario “Sotto il segno dello scorpione” a cavallo con la repressione in Cecoslovacchia; hanno anticipato il fallimento dell’utopia rivoluzionaria attingendo alla storia del Risorgimento con “San Michele aveva un gallo” e “Allosanfan”. Nel 1977 hanno vinto la Palma d’oro con “Padre padrone” e otto anni dopo trionfano ancora a Cannes con il loro più grande successo, “La notte di San Lorenzo” (Premio speciale della giuria). È dell’84 il loro incontro con Pirandello e le novelle di “Kaos” seguito nel ’98 da “Tu ridi”; nel 2012 dopo una lunga parentesi che li ha visti confrontarsi con il racconto televisivo, hanno vinto il Festival di Berlino con “Cesare deve morire”.

L’ultima collaborazione è del 2017 con “Una questione privata” che Paolo dirige da solo, mentre il fratello Vittorio è costretto a rimanere a casa per la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi dopo. Da allora Paolo Taviani si è definito “un mezzo regista” perché metà di lui non c’era più sul set, si sentiva “un impiegato del cinema perché in fondo – spiegava – Vittorio ed io lavoriamo da sempre con certe regole e un certo ritmo, magari nel tempo rallentato dall’età che avanza ma sempre guidato da un rigore di fondo come quello degli impiegati di una volta. I film cambiano, io molto meno e continuo a pensare che facciamo questo mestiere perché se il cinema ha questa forza, di rivelare a noi stessi una nostra stessa verità, allora vale la pena di metterci alla prova”. Con oltre venti film alle spalle (senza contare documentari, pubblicità e qualche corto disperso come l’ultimo episodio di “Tu ridi”) altrettanti premi maggiori e un Leone d’oro alla carriera (nel 1986), i due fratelli hanno dimostrato che passione, costanza, rigore e fedeltà al reale possono essere premiati.

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Alessandro Magno è gay? La Grecia contro Netflix

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La Grecia è scesa in campo contro Netflix per un docudrama britannico su Alessandro Magno che suscita controversie sulla rappresentazione della relazione tra il grande condottiero macedone e il suo generale Efestione come un amore omosessuale. Lina Mendoni, ministra della Cultura del governo di Atene, ha bollato la serie televisiva “Alexander, the making of a god” (Alessandro, la creazione di un dio) come “una fiction di qualità estremamente bassa e pessimo contenuto, piena di inesattezze storiche”. Riguardo alla descrizione dei due protagonisti come gay, Mendoni ha sottolineato che “non c’è alcuna menzione nelle fonti dell’epoca di un rapporto che vada oltre l’amicizia”.

La questione è giunta al dibattito in Parlamento, dove Dimitris Natsiou, presidente di Niki, un partito cristiano ortodosso greco di estrema destra, ha condannato il serial come “deplorevole, inaccettabile, antistorico”, sostenendo che “l’obiettivo subliminale è dare un’idea dell’omosessualità come perfettamente accettabile nei tempi antichi, una tesi priva di basi”.

Sulle questioni sollevate dalle rappresentazioni storiche e sessuali della serie, gli specialisti offrono opinioni divergenti. Il professor Lloyd Llewellyn-Jones, docente di storia antica all’università di Cardiff, sostiene che “le relazioni fra persone dello stesso sesso erano decisamente la norma attraverso tutto il mondo greco”. Viceversa, Thomas Martin, docente di storia greco-romana al College of the Holy Cross, Massachusetts, nota che Omero non ha mai identificato Alessandro ed Efestione come amanti nell’Iliade, benché tale interpretazione sia stata avanzata successivamente.

Mentre alcuni esperti, come Martin e Christopher Blackwell della Furman University, ritengono che i rapporti omosessuali non fossero diffusi al tempo di Alessandro il Macedone, altri come Robin Lane Fox di Oxford sostengono che l’amore tra uomini non fosse fuori dalla norma. Tuttavia, tutti concordano sul forte legame tra Alessandro e il generale, testimoniato dalla testimonianza dei contemporanei.

La ministra Mendoni riconosce la complessità del concetto di amore nell’antichità ma respinge l’idea di intraprendere azioni contro Netflix, affermando che “non è compito del governo censurare, sull’arte ognuno può avere diverse opinioni”.

Questa controversia non è isolata: l’anno scorso, il ministro delle antichità egiziano criticò Netflix per la scelta di far interpretare Cleopatra da un’attrice nera nella serie “Queen Cleopatra”. Inoltre, la serie “The Crown” è stata oggetto di polemiche per presunte distorsioni storiche nella rappresentazione della famiglia reale inglese.

La discussione su come rappresentare accuratamente la storia attraverso i mezzi di intrattenimento continua a sollevare domande complesse sulla verità storica, l’interpretazione artistica e le sensibilità moderne.

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