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Biden firma gli aiuti, i missili Atacms sono già a Kiev

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Un nuovo maxi invio di armi all’Ucraina per rendere gli Stati Uniti e il mondo “più sicuri” di fronti ai pericoli della tirannia. Dopo mesi di stallo a Capitol Hill, Joe Biden mette a segno un’importante vittoria sia in chiave elettorale che sul fronte della politica estera con l’approvazione definitiva della sua legge di spesa da 95 miliardi, di cui una prima tranche da un miliardo destinata alle forze di Volodymyr Zelensky nell’ambito di un totale di 60,8 per l’Ucraina che comprende anche aiuti umanitari ed economici. Ma la notizia è anche che Washington un mese fa ha segretamente inviato i missili a lungo raggio Atacms, che Kiev chiede da quasi due anni. Gli aiuti, ha assicurato il commander-in-chief subito dopo aver firmato il provvedimento, partiranno “nei prossimi giorni” ed arriveranno in Ucraina entro la fine di questa settimana.

Nella lista ufficiale diffusa dal Pentagono sulla prima tranche da un miliardo ci sono sistemi di difesa aerea, proiettili di artiglieria, veicoli corazzati e armi anticarro che si trovano già nei depositi americani in Europa. Tuttavia, secondo indiscrezioni di Politico, un mese fa gli americani avrebbero già spedito a Kiev gli agognati Atacms, che Washington ha sempre negato a Zelensky per il timore di un’escalation con la Russia. E anche se lo scorso ottobre il dipartimento della Difesa aveva mandato in Ucraina, senza troppa pubblicità, quelli a medio raggio, il leader di Kiev aveva continuato a premere per un’arma che potesse colpire oltre le linee di Mosca. I circa 200 missili a lungo raggio sarebbero arrivati a marzo, all’interno di un pacchetto da 300 milioni di dollari, e sarebbero già stati utilizzati due volte dall’esercito ucraino per colpire un aeroporto militare russo in Crimea mercoledì scorso e le truppe russe nel sud-est del Paese durante la notte di martedì.

All’epoca membri chiave del Congresso erano stati informati della spedizione segreta di Atacms ma l’amministrazione Biden non aveva fatto nessun annuncio pubblico. Stando a quanto ha rivelato un alto funzionario dell’amministrazione americana, inoltre, anche in questo nuovo pacchetto ci saranno i potenti missili, capaci di colpire fino a 300 km. Per Biden, che ha ringraziato lo speaker repubblicano Mike Johnson per aver sbloccato la legge alla Camera sfidando gli estremisti trumpiani, si tratta di “un investimento” nella sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. “L’America non si piega a nessuno, men che meno a Vladimir Putin”, ha avvertito il presidente americano assicurando che gli Stati Uniti “sconfiggeranno i dittatori nel mondo”. “Se i nostri partner sono più forti lo siamo anche noi”, ha sottolineato promettendo, ancora una volta, di non “lasciare da soli” i Paesi amici. Zelensky da parte sua ha ringraziato il Senato americano per aver approvato la legge definendo il prossimo invio di armi un “aiuto vitale” per le sue forze.

“Le armi a lungo raggio, l’artiglieria e la difesa aerea sono strumenti fondamentali per ripristinare la pace il prima possibile”, ha dichiarato il leader ucraino che non ha menzionato esplicitamente gli Atacms. Con questo tipo di armi comunque gli ucraini sono stati in grado di infliggere gravi danni alle forze del Cremlino, come dimostrano i video pubblicati dagli abitanti delle zone colpite mercoledì scorso, dove si vedevano incendi devastanti e le finestre delle case vicino all’aeroporto distrutte dall’esplosione. “La chiave ora è la velocità. La velocità di attuazione degli accordi con i partner sulla fornitura di armi per i nostri guerrieri. La velocità con cui si eliminano tutti i piani russi per eludere le sanzioni. La velocità nel trovare soluzioni politiche per proteggere le vite dal terrorismo russo”, ha sottolineato ancora il presidente ucraino. “Ogni leader che non perde tempo è un salvavita. Ogni Stato che sa agire rapidamente salvaguarda l’ordine mondiale basato su regole. Ringrazio tutti coloro – ha detto Zelensky – che nel mondo aiutano il nostro popolo a ripristinare una vita normale dopo gli attacchi russi. Ringrazio tutti coloro che aiutano i nostri guerrieri a difendere le città e i villaggi dell’Ucraina dal male russo”.

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Nasce il centro per l’Ia, si parte da auto e aerospazio: investimento miliardario a Torino

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E’ finalmente operativa, dopo una lunga attesa, la Fondazione Ai4Industry. Il centro nazionale presidierà da Torino le applicazioni dell’intelligenza artificiale ai settori industriali: si partirà da aerospazio e automotive, ma l’obiettivo è andare oltre. A battezzarla – nella cornice storica del Museo del Risorgimento di Torino – sono stati tre ministri: Giancarlo Giorgetti dell’Economia, Adolfo Urso delle Imprese e del Made in Italy e Anna Maria Bernini dell’Università.

Con loro il sindaco Stefano Lo Russo e il governatore del Piemonte Alberto Cirio, ma anche molti manager di grandi gruppi. “Lo Stato spenderà nei prossimi cinque anni 1,7 miliardi nell’intelligenza artificiale, ma non conta il dispiegamento di risorse, quanto la capacità di spenderle efficacemente” spiega Giorgetti. “E’ la sommatoria degli stanziamenti in diversi ambiti dell’intelligenza artificiale. Ci rendiamo conto che rispetto all’ammontare degli investimenti dei colossi americani e cinesi magari è poca cosa. L’importante è focalizzarsi su un aspetto forte della nostra economia che è la manifattura. Se ci concentriamo sull’intelligenza artificiale applicata alla manifattura possiamo dire la nostra”, aggiunge il ministro dell’Economia.

“E’ un evento importante per Torino, per il Paese e per il sistema industriale. Non poteva che nascere qui, dove è partita la rivoluzione industriale. La persona deve essere sempre al centro” dice Urso che sottolinea il collegamento con i centri di Genova, Bologna e Pavia. “Non dobbiamo subire l’intelligenza artificiale, ma governarla. L’azione del governo è finalizzata a incardinare nel Paese infrastrutture strategiche di ricerca” afferma Bernini. La sede di partenza sarà nella cosiddetta “farfalla”, lo stabile accanto al grattacielo della Regione Piemonte nato per ospitare i convegni e gli eventi. Sarà presieduta da Fabio Pammoli, docente di Economia al Politecnico di Milano.

Giorgetti ha indicato “target sfidanti”: entro 3 anni le entrate da risorse esterne devono essere pari al fondo di dotazione dello Stato di 20 milioni, entro 5 anni i proventi da collaborazione industriale dovranno superare la dotazione del fondo statale. “Apprezziamo l’iniziativa del governo di istituire una Fondazione dedicata che potrà mettere a sistema e dare impulso al mondo della ricerca, dell’industria e degli investimenti finanziari. Come Cdp Vc collaboreremo attivamente per contribuire alla riuscita dell’iniziativa” afferma l’amministratore delegato di Cdp Venture Capital, Agostino Scornajenchi. “È un progetto a cui lavoriamo dal 2020, avevamo iniziato con l’ex sindaca Appendino e siamo andati avanti con Lo Russo.

Il Covid lo ha rallentato senza mai metterlo in discussione. È un fatto storico per l’Italia e per il Piemonte” sottolinea Cirio. “Un nuovo salto epocale come la rivoluzione industriale e quella digitale. Il fatto che il governo abbia scelto Torino punto di partenza. Torino è una delle capitali industriali d’Europa, l’ambizione che dobbiamo avere è continuare a fare squadra”, aggiunge Lo Russo.

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De Luca, eliminare decontribuzione sarebbe l’attacco più pesante

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“A me non è chiaro nulla di quello che dice Fitto. Se a voi è chiaro, vi chiedo di spiegarmi. Sono stati i media a raccontarci delle decisioni sulla Decontribuzione Sud, sentivamo le voci sulla decontribuzione che verrebbe eliminata. Non sappiamo niente, non conosciamo i testi scritti, non conosciamo i decreti, non conosciamo le carte del Pnrr, non conosciamo niente”. Lo ha detto il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca commentando, a margine di un incontro sui trasporti a Napoli, le parole del ministro della coesione e del Sud Fitto sulla Decontribuzione Sud.

“Questo sarebbe – ha detto De Luca – l’attacco più pesante al Sud. La decontribuzione era una misura strutturale e generale, non distingueva le categorie, i giovani, gli anziani, le donne, valeva per tutti gli assunti del sud. Questa sì che era una misura strutturale, quindi dal mio punto di vista bisogna fare una trattativa con l’Europa per renderla permanente questa misura, non per eliminarla. Altrimenti davvero qui al Sud non c’è nessun motivo per venire ad investire per un imprenditore. Guardate l’esperienza della Zes, in cui si è fermato tutto dopo la riforma. Quello che si è messo nel momento sono le zone logistiche semplificate, che sono previste per il nord e vanno avanti”.

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Mattarella a New York, salta la visita alla Columbia

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La visita di Sergio Mattarella alla Columbia University, all’interno del suo viaggio a New York essenzialmente dedicato alle Nazioni Unite, è stata cancellata. La Columbia University di New York è al centro di un ciclone politico che sta occupando i media da settimane e spaccando la società americana, oltre a preoccupare molto i democratici che con Joe Biden si stanno avvicinando alle temute elezioni presidenziali di Novembre. Proprio in questo college prestigioso doveva andare – secondo il programma – il prossimo sette maggio il presidente della Repubblica per un incontro con il Comitato di garanzia dell’Italian Academy.

Un incontro programmato da tempo che doveva chiudere la visita a New York del capo dello Stato che inizierà domenica prossima per chiudersi proprio il 7 maggio. Ma gli ultimi avvenimenti e l’inarrestabile crescendo delle polemiche sull’università e sulla sua rettrice, Nemat Shafik, hanno portato il Quirinale ad una valutazione che ha sconsigliato una visita che avrebbe potuto essere strumentalizzata da un lato e dall’altro. Sono almeno 2.000 le persone arrestate nei campus americani nell’ambito delle proteste pro-Gaza.

La situazione per le agitazioni studentesche negli Stati Uniti è incandescente: solo a Ucla, in California, ci sono stati 200 fermi portando il totale a più di 2.000 arresti dalla metà di aprile, da quando la polizia è entrata la prima volta nel campus della Columbia, anch’esso sgombrato dalla polizia. Quanto sta accadendo negli Usa non è facile da decifrare dal vecchio continente, soprattutto tenendo presente quanto la politica sia entrata pesantemente nelle scelte delle università anche attraverso le pressioni del Congresso. Da circa un mese le proteste studentesche pro-Palestina negli Stati Uniti crescono di giorno in giorno negli atenei. Ma l’arresto di 108 manifestanti (circa il 20 per cento di religione ebraica) alla Columbia University di New York il 18 aprile scorso ha cambiato tutto: le forze dell’ordine sono state chiamate proprio dalla rettrice Shafik, che è di origine egiziane ed è musulmana.

Una vicenda che ha provocato l’attenzione dei media e aperto un durissimo confronto politico anche perché l’ateneo è frequentato da un gran numero di studenti di origine ebraica che hanno fatto sapere di non sentirsi più sicuri. La rettrice, di fronte all’accampamento di studenti nei prati della Columbia ha chiesto l’aiuto della forza pubblica spiegando che l’accampamento metteva “a repentaglio il regolare funzionamento dell’università”.

Poco prima la rettrice era stata al Congresso per un’audizione sul contrasto all’antisemitismo. Da qui l’inferno: la Shafik è finita doppiamente sotto tiro, da parte dei repubblicani che l’accusano di non essere riuscita a contenere le proteste pro-Gaza sul campus, ma anche da parte di molti professori che le contestano di aver chiamato la polizia. In effetti era la prima volta dalle proteste anti-Vietnam che le forze dell’ordine rientravano alla Columbia in assetto anti-sommossa. In questa polveriera ovviamente i repubblicani soffiano sul fuoco e il clima pre-elettorale non aiuta. Naturale che in questo clima il Quirinale abbia deciso di cancellare la visita. Tra l’altro Mattarella era già stato alla Columbia nel 2016 quando incontrò Barak Obama e nell’ateneo tenne un “lectio”.

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