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Violenta due bambine a Viterbo, arrestato il pakistano con permesso umanitario in Italia perché si era dichiarato gay

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Un cittadino pakistano è stato arrestato a Viterbo con l’accusa di aver commesso abusi sessuali su due bambine di 11 e 13 anni. Era in Italia dal 2017: come richiedente asilo aveva dichiarato al giudice di essere omosessuale e di non poter tornare in patria perché avrebbe rischiato la vita già che era omosessuale. Il caso è finito all’attenzione del ministero dell’Interno, con l’ennesimo scontro con un ufficio giudiziario. Il 29enne, fermato dalla Squadra mobile del capoluogo dopo esser stato riconosciuto dalle giovani vittime, sarebbe stato regolarizzato dal tribunale di Firenze.

Le due vittime sono un’italiana e una bambina nata in un Paese comunitario. La prima aggressione è avvenuta mentre la ragazzina tornava da scuola; l’altra bambina, più tardi, era invece attesa dalla mamma in auto davanti al portone. Ma a Viterbo sono in corso indagini perché altri episodi analoghi potrebbero esser stati commessi in quei giorni. A far scattare le indagini sono state le denunce dei genitori, mentre le due minori non hanno esitato nell’identificare in una foto il pakistano.

Dopo l’arresto di ieri mattina, nel pomeriggio il ministero dell’Interno ha specificato che lo stesso immigrato “ha ottenuto nell’aprile 2017 la protezione dichiarando di essere omosessuale” – quindi a rischio dell’incolumità nel suo Paese di origine – e che è “regolare sul territorio nazionale per decisione del tribunale di Firenze”. Attenzione: il ministero precisa poi che proprio qui è stata istituita una “sezione specializzata sull’immigrazione presieduta da Luciana Breggia, relatrice della sentenza che ha escluso il Viminale dal giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato”.

Sul caso di Viterbo il Viminale ha poi puntualizzato: “La commissione territoriale aveva respinto la richiesta di asilo del pakistano, ma l’immigrato aveva fatto ricorso”. Però ora, “grazie al decreto Sicurezza, verrà richiesta alla Commissione nazionale la revoca del permesso che comunque scade il 24 luglio 2019. Fatte salve le esigenze cautelari, il pakistano potrà essere espulso”.

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Il mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi e le chat tra Chaouqui e monsignor Balda

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Documenti recentemente resi pubblici potrebbero aggiungere un nuovo capitolo al lungo e intricato mistero della sparizione di Emanuela Orlandi, la quindicenne figlia di un messo vaticano scomparsa nel 1983. Francesca Immacolata Chaouqui e il segretario della prefettura degli affari economici del Vaticano, Angel Vallejo Balda, entrambi membri della COSEA, la commissione istituita da Papa Francesco per riformare gli enti economici della Santa Sede, appaiono in una serie di chat risalenti a dieci anni fa.

In queste conversazioni, depositate presso la Procura di Roma e una commissione parlamentare che indaga sulla scomparsa di Orlandi, Chaouqui fa riferimento alla necessità di “far sparire quella cosa della Orlandi” e parla di una presunta gestione delle prove che potrebbero essere compromettenti per il Vaticano. “Brucia questa conversazione appena la leggi”, scrive Chaouqui in una delle chat, suggerendo anche di inviare copie di documenti relativi al caso Orlandi in Procura in forma anonima.

Le chat rivelano inoltre una certa tensione e preoccupazione per le possibili implicazioni delle informazioni in loro possesso, con Balda che risponde, sebbene con un italiano incerto, che il cardinale ha sottolineato l’importanza di usare “tutta la forza” in questa vicenda e che “il Papa è con noi”.

Questi scambi di messaggi sono stati resi noti da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, tramite il suo avvocato Laura Sgrò. Durante un interrogatorio, Vallejo Balda ha negato di essere l’interlocutore in questi scambi, ma questa affermazione non è stata accolta con convinzione dal promotore di giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi.

Le rivelazioni contenute nelle chat sollevano questioni significative sulla gestione delle informazioni relative alla scomparsa di Emanuela Orlandi da parte di figure chiave all’interno del Vaticano e sulla possibile esistenza di una strategia per proteggere l’immagine della Santa Sede. La discussione sui metodi di pagamento per i servizi di georadar utilizzati per esaminare una tomba e le direttive apparentemente ricevute dal Papa evidenziano ulteriori complessità nella gestione del caso.

Questi nuovi elementi intensificano il dibattito e la speculazione pubblica su uno dei più persistenti e dolorosi misteri italiani, mettendo in luce la lotta interna tra la trasparenza desiderata da alcuni e gli sforzi di altri per mantenere segreti potenzialmente destabilizzanti. Con queste rivelazioni, la richiesta di verità da parte della famiglia Orlandi e dei sostenitori sembra destinata a intensificarsi, mentre il Vaticano potrebbe trovarsi sotto nuova pressione per fare luce sulla vicenda.

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La lite tra Iovino e Fedez e il pestaggio in strada del personal trainer dagli ultrà del Milan

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La scena milanese è stata scossa da eventi violenti nel corso del weekend tra il 21 e il 22 aprile, culminati in una violenta aggressione che ha visto coinvolto il personal trainer dei vip, Cristiano Iovino. La notte ha iniziato a prendere una piega inquietante con una rissa nel famoso locale “The Club” di Brera, dove Iovino e il rapper Federico Leonardo Lucia, noto come Fedez, sono stati protagonisti di uno scontro acceso, apparentemente scatenato da un apprezzamento non gradito verso una ragazza presente con il cantante.

Pochi dettagli sono emersi sulle dinamiche esatte della rissa, ma le telecamere di sicurezza e le testimonianze della security del locale hanno confermato la gravità dell’incidente, descritto come una scena da film con lanci di bicchieri e vetri rotti. Nonostante i tentativi di smentita via social da parte dell’amico di Fedez, Jack Vanore, la situazione è rapidamente degenerata.

Ore dopo la rissa in discoteca, i guardiani di un palazzo di via Traiano hanno assistito a una scena ancora più violenta: un gruppo di 8-9 individui vestiti di nero e scesi da un van ha brutalmente attaccato Iovino in strada. Nonostante le ferite, il personal trainer ha rifiutato il trasporto in ospedale, limitandosi a ricevere cure sul posto, e ha espresso la sua intenzione di non sporgere denuncia, complicando così le possibilità di indagine ufficiale.

L’attenzione della Procura di Milano si è accesa su questi eventi, considerando la possibilità di un agguato su commissione e ulteriori implicazioni. Gli investigatori stanno esaminando le connessioni tra la rissa in discoteca e l’aggressione in strada, con particolare attenzione ai collegamenti con alcuni ultrà del Milan, già noti per episodi di violenza. Questi stessi ultrà, secondo alcune fonti, erano presenti durante la rissa al “The Club” e potrebbero essere gli stessi coinvolti in un violento pestaggio a inizio aprile a Motta Visconti.

In un tentativo di chiarire la situazione, Iovino ha cercato di organizzare un incontro conciliatorio con Fedez, mentre si mormora di un suo possibile appello agli ultrà biancocelesti di Roma per supporto, dato il gemellaggio esistente con i tifosi interisti. La situazione resta fluida e piena di tensioni, con la Procura che attende sviluppi e una potenziale querela da parte di Iovino per procedere con indagini più approfondite.

Questi eventi sollevano serie questioni sulla sicurezza nelle notti milanesi e sulla pericolosa intersezione tra celebrità, sport e criminalità, riflettendo una cultura di violenza che sembra troppo spesso sfuggire di mano.

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Il giorno di Toti, ma il governatore non risponde al gip

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L’interrogatorio di garanzia di Giovanni Toti, ai domiciliari per corruzione ambientale, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e promesse elettorali, dura solo mezz’ora: il governatore arriva al palazzo di giustizia di Genova alle 14:09, con un’auto con i vetri oscurati che entra direttamente nel garage, e ne esce alle 14:35. Un brevissimo incontro con la gip Paola Faggioni e con uno dei magistrati che coordina l’inchiesta che ha terremotato la politica ligure, portando Toti ai domiciliari assieme all’ imprenditore della logistica Aldo Spinelli e al carcere per l’ad (sospeso) di Iren ed ex presidente dell’authority portuale Paolo Signorini. Difeso dall’avvocato Stefano Savi, come era stato ampiamente annunciato, Toti si è infatti avvalso della facoltà di non rispondere.

“Chiederemo la prossima settimana di farci interrogare. Al momento stiamo leggendo tutte le carte – ha detto il legale – E dopo chiederemo la revoca dei domiciliari”. E sarà quella l’occasione per ribadire i concetti che già in questi giorni il legale ha espresso: Toti “rivendica di avere svolto una attività politica alla luce del sole e tutta tracciata. Non ha avuto un vantaggio personale, non c’è stato un uso privato”. “Il presidente sta bene ed è determinato a spiegare tutto quello che c’è da spiegare” fanno sapere dall’entourage del governatore che è costantemente in contatto con l’avvocato Savi. Stamani però non è stato possibile per nessuno, né per le decine di giornalisti assiepati davanti al tribunale né per gli inevitabili curiosi fermi all’angolo della strada, vedere le due macchine scure che hanno accompagnato Toti in Tribunale. Né tantomeno attendere davanti alla porta del Gip e nei corridoi.

Il governatore, scortato dalla Guardia di finanza, è stato fatto passare dai parcheggi sotterranei. “Una cortesia istituzionale”, è stato fatto notare da abituali frequentatori del palazzo di giustizia, che “per altri indagati eccellenti non è stata adottata”. In più, poco prima delle 13, il corridoio che portava alle aule è stato improvvisamente ‘blindato’ con alcune transenne e un cartello: ‘Venerdì 10 maggio – piano 3 dalle ore 13:00 interdetto per lavori”. Ordine e sindacato dei giornalisti hanno protestato con una nota: “Nessuno può impedire ai cronisti di fare il proprio lavoro. Devono essere garantiti sempre, e a maggiore ragione su fatti così rilevanti, il diritto di cronaca e la libertà di stampa che non posso andare a intermittenza in base ai soggetti coinvolti”.

Subito dopo aver firmato il verbale, Toti è stato riaccompagnato ad Ameglia, poco più di 100 km da Genova, nella casa che tante volte ha fatto da sfondo ai suoi selfie. Lì approfondirà le circostante e le contestazioni che gli vengono fatte nelle oltre 600 pagine di ordinanza e negli atti dell’inchiesta e preparerà la sua difesa prima di presentarsi davanti ai pm, molto probabilmente la prossima settimana. L’avvocato Savi continua comunque a ribadire che tutto il denaro, tutti i fondi ricevuti sono tracciabili, che tutto è stato fatto alla luce del sole e che quelle sottolineate nell’ordinanza non sono ‘dazioni’ (per il codice penale il passaggio illegale di denaro, generalmente da un imprenditore a un politico, in cambio di protezione o di favori). Insomma, dice Savi, non c’è stato nulla di illecito. E Toti questo vuol spiegare quando incontrerà, per la seconda volta, i magistrati.

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