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Economia

Il mercato miliardario del lusso, i cinesi fanno da traino alle vendite dei grandi marchi europei

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Nel mondo del lusso il 2018 sarà l’anno del sorpasso dell’Est rispetto all’Ovest. Con la Cina come traino, l’oriente diventa ufficialmente il maggior consumatore di beni di alta gamma, mentre il mondo occidentale con l’Europa, come cuore creativo e produttivo, viene relegata in cavalleria insieme agli Usa e alle Americhe in genere. Insomma l’Ovest sarà il mercato di produzione, l’Est la principale area di distribuzione. “È importante ricordare che, considerando anche i dati delle carte di credito – spiega Federico Bonelli, Partner Ey – già da tre anni i cinesi sono al primo posto per il consumo di lusso, consumo che avviene per due terzi fuori dal territorio cinese, prevalentemente in Europa e Stati Uniti”. Secondo la ricerca Altagamma Ey, nel 2017 su 320 miliardi spesi in borse, scarpe, vestiti, accessori e trucchi di alta gamma, 25 miliardi sono stati spesi in Cina, e altri 75 da cittadini cinesi in giro per il mondo di cui oltre la metà (circa 35 miliardi) in Europa. Morale, secondo le stime di Mc-Kinsey, nel 2018 il mercato si dividerà quasi a metà tra Oriente e Occidente, ma già nel 2025 il 55% dei consumi totali si verificherà al di fuori di Europa e Nord America, una tendenza che andrà progressivamente accentuandosi con la crescita del digitale, che di qui al 2020 dovrebbe registrare una crescita media del 10% all’anno. Anche perché, oltre il Giappone, gli Emirati Arabi e la Corea del Sud – tutti mercati di sbocco importanti per il lusso – in Cina più che in tutte le altre geografie del mondo, continua a crescere una classe media che aspira ad affermarsi anche attraverso l’ acquisto di beni di alta gamma. 

Lusso. Il mercato cinese resta quello più appetito dai marchi occidentali

“La Cina ha una centralità crescente non solo come mercato di riferimento per il lusso, ma anche perché su temi come il digitale è sicuramente un paese dove sperimentare e imparare – spiega Antonio Achille, senior partner e responsabile globale per il lusso di McKinsey – Non a caso tra le 40 start up digitali sopra il miliardo di dollari, i cosiddetti “unicorni” che hanno un potenziale fino a 10 miliardi, ben 23 sono asiatiche. In quest’ottica va letto anche l’accordo tra Jd.com e Farfetch, dove uno dei maggiori gruppi dell’e- commerce cinese ha rilevato il 20% del gruppo europeo del lusso online”. Ciò significa che i cinesi acquisteranno in patria, verrano in Europa a fare turismo e a spendere in lusso e già che non si accontenteranno, spenderanno altri miliardi in beni di lusso grazie alll’e-commerce. 

La Cina è da diversi anni focus importante per i brand del lusso, ma recentemente sta mostrando un nuovo e più maturo dinamismo proprio a causa dell’approccio diverso da parte della nuova classe media cinese e del Governo cinese, che sta incoraggiando attivamente il consumo “domestico”.

Questi fattori, insieme alla progressiva riduzione dei differenziali di prezzo rispetto all’Europa, stanno facendo sì che la classe media cinese sembri essere sempre più propensa a viaggiare meno all’estero per fare shopping e a consumare di più all’interno del Paese. Dal 2009 la Cina è stata un Paese chiave per l’espansione dei brand internazionali, e i consumatori cinesi hanno rappresentato l’unica spinta per la crescita del mercato globale del lusso, controbilanciando il rallentamento del consumo dei consumatori più maturi europei e americani che avrebbe altrimenti portato a una contrazione del mercato tra il 2012 e il 2016.  Negli ultimi anni il consumatore cinese sta attraversando un processo di maturazione, che si sta volgendo verso acquisti più consapevoli e meno entusiastici, con attenzione via via crescente per il prodotto e lo stile e meno per il “logo” e maggiore richiesta per un alto rapporto qualità-prezzo. L’attenzione al “logo” è infatti in decrescita ma resta visibile (35% circa dei consumatori), ma la maggior parte dei consumatori cinesi (91%) si dichiarano più propensi all’acquisto, nei prossimi tre anni, di beni di lusso con elementi di design, più ricercati e l’82% si dichiara “interessato” o “fortemente interessato” all’acquisto, nei prossimi tre anni, di nuovi marchi del lusso emergenti. Inoltre, gli outlet sono in crescita: il 66% dei consumatori si dichiara interessato ad aumentare gli acquisti di beni di lusso negli outlet nel corso del prossimo anno.

Nell’online avere scala è cruciale, e la Cina è un mercato di sbocco enorme che anche i colossi Usa come Google e Amazon fanno fatica a dominare. Peraltro il digitale nel mondo del lusso, è diventato il canale per parlare ai Millenials, ovvero la nuova generazione di compratori di alta gamma che ha portato alle stelle marchi come Burberry, Kiton, Gucci, Armani, YSL, Valentino che oramai fanno fatturati importanti in quella zona del mondo. Ed è lì che investono importanti aziende italiane (vedi ad esempio Kiton) in marketing e joint venture. Lo spostamento del baricentro dei consumi da Ovest verso Est, avrà nei prossimi anni conseguenze sul turismo, sugli affitti dei negozi e sull’ondata di fusioni e acquisizioni. La distribuzione digitale sarà la nuova frontiera della ricchezza in Cina.

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Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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