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Ospedale covid in Fiera di Milano, il miracolo della mitica sanità lombarda è un flop benedetto pure dalla Chiesa

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La mitica sanità lombarda. Non c’è ironia in queste parole, solo molta amarezza. Chi se la ricorda la efficiente sanità lombarda? Un ricordo c’è, tanti ancora credono che sia uno dei più efficienti ed efficaci sistemi sanitari regionali italiani. Ma alla prova del covid 19 questo sistema sanitario ne è uscito con le ossa rotte. Per più di un  mese il contagio è stato fuori controllo in Lombardia. Gli ospedali sono stati centri di diffusione piuttosto che di contrasto al contagio. Morti se ne sono contati a caterve. Tra pazienti, medici e infermieri. Quanto alle soluzioni per curare più pazienti poi, discutiamo qui del nuovo ospedale in Fiera di Milano che l’efficientismo lombardo avrebbe realizzato in giorni, consegnando a Milano, alla Lombardia e al Paese ben 400 posti letto, la metà dei quali dovevano essere di terapia intensiva.

Che cosa è rimasto dei roboanti annunci? E della nomina del consulente Guido Bertolaso per realizzare questa impresa? E delle bellissime immagini della apertura dell’ospedale realizzato in quattro e quattr’otto dalla mitica classe dirigente lombarda che ha affrontato l’arrivo e il passaggio del ciclone coronavirus imbracciando una spada di latta? Ci sarebbe da discutere anche di alcuni servizi televisivi su questa meravigliosa conquista della sanità lombarda, ma lasciamo perdere, occupiamoci della classe dirigente lombarda che nell’immaginario collettivo italico (e nelle redazioni dei giornali con testa e cuore a Milano, cioè tutti) ha dato prova di incredibile efficienza. “Faremo un ospedale covid a Milano Fiera, in dieci giorni sarà pronto” disse quel buon uomo del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana quando dal cimitero di Bergamo mandavano via i cadaveri sui carri militari per farli cremare altrove fuori regione. Che cosa ne è rimasto di quell’ospedale? E quanti sono i posti letto realizzati? Quanti sono i posti in terapia intensiva apprestati? Quanti sono i pazienti curati nell’ospedale Covid di Milano Fiera? Anzi, questo ospedale Milano Fiera esiste davvero o è solo frutto della fantasia di qualcuno? La sfida della mitica ed efficiente sanità lombarda a quella veloce cinese che realizzò 3 ospedali in 15 giorni a Wuhan è qualcosa che davvero è successo o è una bella invenzione di  giornalisti distratti? L’ospedale Covid di Milano Fiera  che doveva ospitare nelle chiacchiere di redazione e nei profili di resoconti giornalistici iniziali 400 pazienti non c’è. Qualcuno ha poi detto che di ospedale ne doveva nascere uno da 205 posti.

Ma dall’apertura ad oggi appena  26 persone affette da Covid 19 sono state ricoverate nella struttura. Non ci sono medici, mancano gli infermieri  e il mitico ospedale in Fiera non è attrezzato per diventare uno dei più grandi centri di terapia intensiva d’Italia. Almeno così era stato sbandierato. Qualche idiota aveva anche previsto di poter far affluire a Milano frotte di pazienti dal Sud. Dove il covid 19 è, nonostante le fughe agevolate da Nord, tenuto sotto controllo. Un poco per i controlli rigidi delle misure di distanziamento sociale, un poco per le ulteriori restrizioni imposte dalla regioni, un poco perchè c’è una moltitudine di sindaci sceriffi, se vogliamo pure un poco eccessivi, che però fanno il loro lavoro.

 

Poi perchè la gente ha capito che il momento è grave e non sciama a tutte le ore per strada come accade in molti posti della Lombardia. Comunque sia questo ospedale in Fiera, per ora, è un ospedale in fieri. Sulla carta c’è, nella realtà non esiste. Se vai su google e lo cerchi, leggi resoconti spettacolari e servizi giornalistici dettagliatissimi sulla efficienza di questo nosocomio. Questo enorme centro di terapia intensiva nato a Milano Fiera esiste solo nella realtà virtuale. È un elemento tossico della informazione italica. Quella informazione che manda frotte di telecamere al Sud, alla Vucciria, alla Pignasecca o allo Shangrilà per mostrare quella ridotta di “scumma”  (scumma è un termine della lingua napoletana mutuato dall’inglese scum) umana apolide e si disinteressa delle frotte di lombardi che sciamano per mercatini (vietati), ciondolano per i quartieri periferici alla ricerca di droga.

 

Per capire che cos’è l’ospedale Covid di Milano Fiera, a chi serve e a che cosa serve, ci siamo affidati alla ricostruzione di Giuseppe Bruschi, Dirigente Medico dell’ospedale Niguarda. È un medico, è lombardo, lavora nella sanità lombarda. Qualcosa in più dovrebbe saperlo rispetto a chi vi scrive e rispetto alle frotte di giornalisti che hanno cantato le gesta della efficiente politica lombarda che ha tirato su un ospedale dal nulla in pochi giorni. “L’idea di realizzare una terapia intensiva in fiera non sta né in cielo né in terra… Una terapia intensiva – scrive Bruschi – non può vivere separata da tutto il resto dell’Ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre Strutture Complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un Ospedale (dai laboratori alla radiologia, della farmacia agli approvvigionamenti, della microbiologia all’anatomia patologica);  perché i pazienti ricoverati in terapia intensiva necessitano della continua valutazione integrata di diverse figure professionali”, ha aggiunto. Vabbè, leggetelo il dottor Bruschi. Da solo vale mille articoli inutili che reperite sul web.

Giuseppe Bruschi. Dirigente Medico dell’ospedale Niguarda

“L’idea quindi di creare dei posti letto slegati da questa realtà (senza entrare nel merito di quanti… 600 – 500 – 400 – 250 – 100 – 12!) mi sembra assurda. Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni “abbandonati” degli Ospedali Lombardi (Niguarda, Sacco, Varese…)”, ha concluso Bruschi confutando in questo modo la tesi di chi non riconosce futuro alla struttura di Milano City. Ora, detto un po’ tutto della utilità di un ospedale Covid in Milan Fiera, passiamo all’inaugurazione e ai numeri dei posti letto. È interessante che gli italiani sappiano quanti posti letto ci  sono, o no? Alla Vucciria come alla Pignasecca o nel quartiere Japigia o nel quartiere Librino o anche a Monterusciello la gente (gente è un eufemismo) che in questi giorni se ne è fottuta delle norme e che tra qualche settimana avrà forse (non ce lo auguriamo, ovviamente) bisogno della terapia intensiva, magari potrebbe trovare posto a Milano Fiera. La gente, gli italiani, devono capire se lo spazio di Fiera Milano City convertito in ospedale è servito ad una opera importante o se è invece un fallimento che alcuni non vogliono documentare e altri devono nascondere. La Fiera di Milano non è dei lombardi, è degli italiani. Non foss’altro ché è stata costruita con i soldi degli italiani ed è stata rimessa a nuovo con i miliardi di Expo.

Quello che al momento appare, di primo impatto, è che l’ospedale Covid è stata l’ennesima spesa inutile della sanità lombarda post formigoniana (sanità fatta di tasse e tangenti). Insomma fumo per accaparrarsi qualche consenso,  piccola propaganda per spostare l’attenzione dalle migliaia di morti ufficiali e quelli nascosti in Lombardia. Parliamo dei morti nelle case per anziani che  meritano più di una inchiesta. Sono morti che abbiamo nascosto alla vista degli italiani. La grande stampa per un po’ ha finto di non capire e di non vedere. Poi c’è stata una bella inchiesta de L’Eco di Bergamo e di Jurno.it e poi di altri giornali che sono andati oltre i numeri ufficiali forniti dalla Protezione civile che ci  consegna i dati delle Sdo (schede di dimissioni ospedaliere). Sono dati ufficiali dei morti negli ospedali, non di tutti i morti che abbiamo cremati anche quando sono usciti dalle case private e dalle case di riposo lager che abbiamo in ogni angolo del Belpaese e dove abbandoniamo i nostri cari più fragili.

Ma torniamo ai numeri, circumnavighiamo le chiacchiere. I posti letto che dovevano essere 400, poi ridotti a 205, al momento sono 50. Come 50 sono i sanitari a lavoro in questa struttura. Sì, certo, hanno annunciato maxi infornate di assunzioni per garantire il buon funzionamento del centro di rianimazione. Ma è come per i posti letto in terapia intensiva. Li hanno annunciati. Non li hanno fatti. Qualcuno dovrà pur dirlo. Noi lo diciamo.

Alla fine della fiera, resta da capire quale sarà il futuro di quest’opera costata ben 21 milioni di euro e che sarà inutile, perchè per fortuna la situazione sta tornando sotto controllo anche in Lombardia. Pure su questo, in Lombardia, negli ambienti della mitica sanità lombarda messa su negli ultimi 25 anni da Formigoni e dai suoi epigoni, ci sono molti annunci e poche voci serie ed autorevoli. C’è chi dice che “la struttura verrà smontata”. E chi dice “che potrebbe restare”. Bene, bene. Tutto chiaro.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Fassino denunciato per tentato furto di un profumo al duty free dell’aeroporto di Fiumicino, informativa in Procura

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Arriverà nelle prossime ore in Procura una prima informativa su Piero Fassino, denunciato per tentato furto di un profumo al duty free dell’aeroporto di Fiumicino. Gli investigatori della Polaria hanno raccolto tutti gli elementi – comprese le immagini registrate dalle telecamere del sistema di videosorveglianza – e le trasmetteranno all’autorità giudiziaria competente, quella di Civitavecchia, che valuterà come procedere. Fassino, in quanto parlamentare, non è stato ascoltato ma – spiegano fonti investigative – se vorrà potrà rilasciare dichiarazioni spontanee.

Già ieri il deputato del Pd – parlamentare per 7 legislature, ex ministro della Giustizia dal 2000 al 2001, poi segretario dem fino al 2007 e sindaco di Torino per cinque anni dal 2011 al 2016 – ha fornito la sua versione sostenendo di aver già chiarito con i responsabili del duty free la questione: “volevo comprare il profumo per mia moglie, ma avendo il trolley in mano e il cellulare nell’altra, non avendo ancora tre mani, ho semplicemente appoggiato la confezione di profumo nella tasca del giaccone, in attesa di andare alle casse”. In quel momento, ha aggiunto, “si è avvicinato un funzionario della vigilanza che mi ha contestato quell’atto segnalandolo ad un agente di polizia.

Certo non intendevo appropriarmi indebitamente di una boccettina di profumo”. Fassino ha anche sostenuto che si era offerto subito di pagarla e di comprarne non una ma due, proprio per dimostrare la sua buona fede, ma i responsabili hanno comunque deciso di sporgere denuncia. Al parlamentare del Pd, dopo quella espressa ieri dal deputato di Forza Italia Ugo Cappellacci, è arrivata la solidarietà del coordinatore di Fratelli d’Italia in Piemonte Fabrizio Comba. “Conosco l’uomo e il politico integerrimo, il tritacarne mediatico in cui è stato infilato è indecoroso per la sua storia personale e, quindi, anche per la storia del nostro paese. E’ un avversario politico – ha concluso Comba – ma non per questo mi permetto di dubitare della sua integrità, convinto delle sue straordinarie qualità morali”.

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Nozze d’argento boss in chiesa con le spoglie di Falcone

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Lui abito scuro, con gilet, pochette e cravatta color madreperla, lei abito bianco scollato lavorato con tessuto di pizzo e bouquet di rose rosse. La coppia d’oro delle famiglie mafiose palermitane, Tommaso Lo Presti, detto “il grosso”, per distinguerlo dall’omonimo detto “il lungo”, e la moglie Teresa Marino, ha festeggiato in grande stile, con amici e familiari l’anniversario dei 25 anni di matrimonio il 15 aprile scorso.

La coppia, lui è stato scarcerato da poco dopo anni di detenzione per mafia ed estorsioni, lei pure condannata per mafia, ha scelto per la cerimonia religiosa in cui rinnovare la promessa d’amore un luogo simbolico, la chiesa di San Domenico, che si trova in una delle piazze più belle di Palermo e che è nel cuore del mandamento mafioso di cui Lo Presti era al vertice. Nel complesso in cui è inserita la chiesa c’è anche il pantheon dei siciliani illustri, da Giuseppe Pitrè a Giacomo Serpotta, in cui sorge anche la tomba monumentale che ha accolto, dal 2015, le spoglie di Giovanni Falcone. I mafiosi quindi sono stati accolti dai frati, che gestiscono il complesso, per celebrare la benedizione delle nozze d’argento.

Padre Sergio Catalano, frate priore della chiesa, afferma di aver saputo chi fosse l’elegante coppia solo leggendo le notizie del sito d’informazione Palermotoday che ha pubblicato la notizia alcuni giorni dopo la cerimonia. “Le verifiche non spettano a noi – aggiunge – ci sono organi istituzionali che devono farlo”. Ma la coppia della cosca di Portanuova, lui è sorvegliato speciale e deve rientrare in casa entro una certa ora, poteva tranquillamente far celebrare la cerimonia in qualsiasi posto. La valutazione dell’opportunità di ospitare due mafiosi di questo calibro nel complesso dove ci sono le spoglie del magistrato ucciso dalla mafia spetterebbe a chi ha la responsabilità di quei luoghi.

Alla chiesa Lo Presti ha lasciato anche un’offerta che padre Catalano dice “servirà a fare del bene a chi ne ha bisogno”. Dopo la cerimonia a san Domenico la coppia ha festeggiato, nei limiti temporali concessi al sorvegliato speciale, in una villetta allietata anche dalle canzoni di due noti neomelodici. Dopo l’arresto di Lo Presti, 48 anni, nell’operazione Iago nel 2014, gli investigatori scoprirono il ruolo della moglie che il giudice che l’ha condannata descrive così: “Teresa Marino durante il periodo della sua detenzione domiciliare (in concomitanza con quella carceraria del marito), riceveva presso la sua abitazione tutti gli esponenti di spicco del mandamento mafioso di Porta Nuova e impartiva loro indicazioni e direttive proprie e del marito, condividendone le strategie criminali. I sodali mafiosi dell’organizzazione, inoltre, si rivolgevano alla donna anche per dirimere questioni e tensioni interne al sodalizio”.

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Sindaci Ue rivendicano diritto a imporre limiti velocità

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Imporre i limiti di velocità sia una prerogativa di città e regioni. A chiederlo sono i 13 firmatari tra sindaci e vicesindaci di città europee che dalle colonne del Financial Times criticano alcune iniziative promosse in Italia, con la riforma del codice della strada, e nel Regno Unito che potrebbero impedire a città e comuni di attuare misure per la sicurezza stradale, come l’introduzione di limiti di velocità più bassi e telecamere per il controllo del traffico. Da Bologna a Firenze e Milano, passando anche da Amsterdam, Bruxelles e Helsinki. Tra i firmatari italiani Matteo Lepore e Dario Nardella, sindaci di Bologna e Firenze e la vice sindaca e assessora alla mobilità di Milano, Arianna Censi.

La lettera fa esplicito riferimento al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso settembre per riformare il codice della strada, criticato anche in Italia da varie associazioni perché ritenuto svantaggioso per i pedoni. Per sindaci e vice le nuove norme ostacolerebbero “gravemente” la capacità delle autorità locali di creare zone a traffico limitato, installare autovelox e fissare limiti di velocità inferiori che invece sono fondamentali per abbattere le emissioni e rendere anche le strade più sicure. Nella missiva non si fa riferimento solo all’Italia. I firmatari prendono di mira anche il “piano per i conducenti” nel Regno Unito che punta a introdurre misure altrettanto restrittive e alle resistenze in Germania, dove il governo ha finora resistito agli sforzi di oltre 1.000 comuni che vogliono un maggiore controllo sui limiti di velocità locali.

“Politiche nazionali come queste, basate non sulla scienza ma sull’opportunità politica, danneggiano la capacità delle autorità locali di prendere decisioni sul miglioramento della sicurezza e della salute dei propri cittadini”, accusano i rappresentanti locali. Sottolineando l’importanza di limiti di velocità più bassi nelle aree urbane – si legge ancora nel testo – che “stanno prevenendo le morti e migliorando la vita oggi nelle città di tutta Europa”. Non “si tratta di limitare la libertà degli automobilisti, ma di rendere le strade più sicure per tutti, ridurre il rumore e l’inquinamento e rendere la città più invitante per coloro che scelgono forme di trasporto più salutari come camminare e andare in bicicletta”. Insieme ai tre rappresentanti italiani la lettera è siglata anche da Alison Lowe, vicesindaco di West Yorkshire; Thomas Dienberg, vicesindaco di Lipsia; Frauke Burgdorff responsabile della pianificazione di Aquisgrana; Philippe Close, sindaco di Bruxelles; Mathias De Clerq, sindaco di Gand; Melanie Van der Horst, vicesindaco, di Amsterdam; Vincent Karremans, vicesindaco di Rotterdam; Karin Pleijel vicesindaco di Göteborg; Andréas Schönström vicesindaco di Malmö; Juhana Vartiainen, sindaco di Helsinki.

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