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Veleni dell’Antimafia su Antoci

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I veleni dell’Antimafia sicula su Antoci
Cose siciliane verrebbe da dire. Battaglie politiche sulla pelle di chi combatte la mafia o peggio (o meglio, fate voi), antimafiosi che misurano la loro incoerenza o la loro antimafiosità usando paraventi, papaveri e cartuscelle. Il risultato finale, come sempre, è quello di rafforzare chi se ne sta alla larga dal variegato dissestato fronte antimafia, non ne vuole sentire parlare, o peggio, dice tanto “sono tutti uguali” oppure “la mafia sta a Roma”. In certi casi questi soggetti riescono a sfoggiare l’intero armamentario dei luoghi comuni sulla mafia.

Oggi vogliamo parlarvi della relazione della Commissione Regionale Antimafia Siciliana, presieduta da Claudio Fava, sull’attentato all’ex Presidente del Parco dei Nebrodi, Beppe Antoci (nella foto in evidenza assieme a don Ciotti), scampato ad un agguato mafioso nel maggio del 2016. Questa benedetta relazione, in puntualissimo ritardo siciliano tre anni dopo  i fatti,  votata dalla commissione guidata da Fava, mette nero su bianco ombre su quanto avvenuto nel maggio del 2016. Anzi, forse, se possibile, fa peggio. A leggere le tre ipotesi circa forma e sostanza dell’attentato ad Antoci fa capire che potrebbe essere stata una iniziativa della mafia, forse un avvertimento o anche una simulazione.

La Relazione della Commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava. Le conclusioni sembrano paradossali, comprese le critiche ai pm di Messina che hanno indagato sull’attentato

“Ma in ogni caso Antoci sarebbe una vittima, anche inconsapevole” scrivono i commissari antimafiosi della Commissione regionale antimafia sicula. Commissione che si perita anche di spiegare che forse le indagini della Procura distrettuale antimafia di Messina sono state non proprio perfette. Rispetto a queste considerazioni, non poteva mancare il commento dell’ex presidente Giuseppe Antoci sulla vicenda. Antoci oggi non è più presidente del Parco dei Nebrodi. Antoci è certamente un simbolo dell’antimafia. Antoci oltre ad aver subito l’attentato, ha anche letto atti di indagine che lo riguardano. Che riguardano l’attentato subito. Sono le investigazioni dei magistrati antimafia messinesi, non le audizioni dei politici della Commissione siciliana antimafia. E questi atti descrivono un attacco militare mafioso ad un presidente di un Parco che aveva fatto saltare affari e truffe milionarie alle famiglie mafiose che controllano i Nebrodi. Beppe Antoci, delle conclusioni della Commissione antimafia di Sicilia non sa che farsene, probabilmente, ma certo ne conserva una profonda amarezza. Che cosa dice Antoci?

Attentato. Questa è l’auto dell’ex presidente del Parco dei Nebrodi Beppe Antoci dopo l’attentato sventato. Nel dettaglio i tre buchi nella lamiera blindata della vettura di scorta che per fortuna ha retto

“Rimango basito di come una Commissione, che solo dopo tre anni si occupa di quanto mi è accaduto, possa arrivare addirittura a sminuire il lavoro certosino e meticoloso che per ben due anni la Dda di Messina e le Forze dell’Ordine hanno portato avanti senza sosta, ricostruendo gli accadimenti con tecniche avanzatissime in uso alla Polizia Scientifica di Roma e che oggi rappresentano per l’Italia un fiore all’occhiello. Tali tecniche sono state utilizzati inizialmente per ricostruire due attentati: quello di via d’Amelio e quello perpetrato contro di noi quella notte sui Nebrodi” dichiara Antoci. “Di tutto questo la Commissione non ha tenuto conto, al contrario, con mio grande rammarico, ha prestato il fianco, attraverso una relazione ove si evidenziano più tesi, al mascariamento e alla delegittimazione, utilizzando audizioni di soggetti che non citano mai le loro fonti bensì il sentito dire o esposti anonimi che la magistratura, dopo attenta valutazione e trattazione, ha dichiarato essere calunniosi. Senza considerare – continua sempre Antoci – che alcuni dei soggetti auditi hanno in corso procedimenti giudiziari sul piano generale, e in particolare per diffamazione sull’accaduto, o procedimenti passati, conclusi con la penale affermazione del reato di falso”. Ma che cosa scrivevano i magistrati antimafia di Messina nel loro dispositivo, dove si faceva chiarezza circa l’attentato mafioso all’allora presidente del Parco dei Nebrodi Antoci? Ecco, i pm speravano che l’attentato era stato  “meticolosamente pianificato, organizzato ed attuato con tecniche di tipo militare. Appariva in dubbio che gli attentatori avessero agito non al fine di compiere un semplice atto intimidatorio e/o un vero e proprio agguato, dimostrativo, ma al deliberato scopo di uccidere”. Insomma dalle  carte delle indagini viene fuori tutta l’intera ed agghiacciante vicenda che lascia sgomenti e smarriti. “I killer del commando mafioso – scrivono i Magistrati della Procura di Messina– avevano ostruito le carreggiate con massi al fine di costringere l’autovettura a rallentare l’andatura; subito dopo avevano sparato all’indirizzo del mezzo blindato, attingendolo nella sua parte inferiore, nella immediata vicinanza della gomma posteriore sinistra, e ciò al probabile fine di bloccare la corsa del mezzo”. Ed ancora – “al contempo, la presenza delle bottiglie molotov induceva a ritenere come gli attentatori, una volta bloccata l’autovettura blindata, volessero incendiare quel mezzo e così costringere i suoi occupanti a scendere da esso, in modo che questi ultimi non potessero più beneficiare della protezione del veicolo blindato”.

Ed il GIP scrive nel suo dispositivo finale: “….innegabile che tale gravissimo attentato era stato commesso con modalità tipicamente mafiose…… …..con la complicità di ulteriori soggetti, che si erano occupati di monitorare tutti gli spostamenti dell’Antoci e di segnalarne la partenza dal Comune di Cesarò…….. …..un vero e proprio agguato meticolosamente pianificato e finalizzato non a compiere un semplice atto intimidatorio e/o dimostrativo, ma al deliberato scopo di uccidere…”

Anche il movente dell’agguato risulta assolutamente chiaro. I magistrati scrivono: “sin dall’inizio le indagini si indirizzavano sulle penetranti azioni di controllo e repressione delle frodi comunitarie nel settore agricolo-pastorale, da tempo avviate da Antoci”.

“Non potrà mai il Presidente Fava trovarmi d’accordo – continua Antoci – su quanto espressomi durante la mia audizione, quando mi affermò che i Magistrati e le Forze dell’Ordine hanno lavorato male. Non è così, proprio non è così… Hanno invece dato il massimo di quello che potevano dare, mettendo le migliori intelligenze in campo e le migliori ultime tecniche investigative e informatiche esistenti”. “Come mai – aggiunge ancora Antoci – la Commissione, come prevede la Legge Regionale, non si è occupata anche dei milioni di Euro che sono stati colpiti dal Protocollo Antoci e delle possibili connivenze che andavano verificate all’interno dell’apparato regionale che per anni ha assistito inerme ad un affare che, per molti versi, si è rivelato per la mafia maggiore del lucroso mercato delle droga? Sulla mafia dei Terreni nessuna inchiesta. Sul loro sistema di collusioni nessun accertamento. Nessun atto a favore dei poveri agricoltori e allevatori che per anni hanno subito le vessazioni dei mafiosi rubando loro la dignità, i diritti e il futuro. Non si fa politica – aggiunge Antoci – giocando con la vita delle persone, dando spunti a delegittimatori e mascariatori. Bisogna essere rigorosi e cauti, ci va di mezzo la sicurezza e la vita della gente. Ma purtroppo passando il tempo – continua Antoci – le cose pare si dimentichino ed io non pensavo che proprio Claudio Fava dimenticasse ciò che è stato detto e fatto contro suo padre ed il mascariamento che ha subìto quando tutto veniva sminuito e legato a fatti personali e non alla mafia”.

E’ proprio di questi giorni l’agguato in Colombia contro la candidata Sindaco di Suarez anche essa bloccata con l’auto blindata colpita da fucilate e poi bruciata. Morti lei e gli uomini della scorta. Stessa tecnica utilizzata sui Nebrodi per l’attentato ad Antoci, proprio identica, ma forse il fatto che l’ex Presidente del Parco e la sua scorta quella sera non siano morti basta per alimentare la solita più che sperimentata macchina del fango.

“Ho depositato alla Commissione Regionale una relazione di 27 pagine, con 15 allegati di atti del procedimento, che sono di una chiarezza disarmante, unite ad intercettazioni telefoniche chiarissime e pesantissime. Ho chiesto di renderla integralmente pubblica senza tagli e omissioni, perché ritenevo che le persone dovessero sapere e comprendere tutto. Risultato? Solo un sunto. Ma perché? Devo dunque pagare il fatto di aver colpito con un Protocollo oggi Legge e con un’azione senza precedenti la mafia dei terreni? Non ho pagato abbastanza, rischiando la vita eperdendo la libertà mia e della mia famiglia? Insomma, alla fine ecco il risulta to della Commissione: tre tesi, a Voi la scelta!”. Beh, alle intelligenze lasciamo le conclusioni, mentre alla Magistratura ne lasciamo le conseguenti azioni – conclude Antoci.

Parla Antoci, l’uomo che ha smascherato il business della mafia dei pascoli e per questo vogliono ucciderlo

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Scossa di terremoto di magnitudo 3.1 fa tremare il Vesuvio, molta paura ma nessun danno

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Un terremoto di magnitudo 3.1 della Scala Richter ha colpito alle 5,55 alle pendici del Vesuvio. L’evento sismico, che ha avuto luogo a una profondità di circa 400 metri, è stato distintamente avvertito dagli abitanti delle zone circostanti, in particolare nei piani alti degli edifici.

Gi esperti hanno definito la scossa come un evento “inusuale” e hanno confermato che non ci sono stati segnali di un incremento dell’attività vulcanica. L’epicentro del terremoto è stato localizzato vicino al Monte Somma, una zona storicamente monitorata per la sua vicinanza con il vulcano.

La comunità locale ha reagito con una comprensibile apprensione, ma, fortunatamente, non sono stati segnalati danni a persone o strutture. Le autorità locali nelle prossime ore decideranno se mantenere aperte le scuole. Intanto c’è da rassicurare  la popolazione sulla gestione dell’evento.

Ieri, alle 5,45, dall’altra parte di Napoli, in un’altra area vulcanica, nei Campi Flegrei, c’è stata una scossa di magnitudo 3.9. Anche in quel caso paura tanta ma nessun danno.

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“Due uomini dei servizi segreti vicino l’auto di Giambruno”, le rivelazioni del Domani

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Due persone, lo scorso novembre, si sarebbero avvicinate nel corso della notte a Roma all’auto di Andrea Giambruno, l’ex compagno della premier Giorgia Meloni, ma sono stati fermati da un agente che era di sorveglianza all’esterno della abitazione della presidente del Consiglio. Lo scrive il quotidiano ‘Domani’ secondo il quale i due avrebbe riferito al poliziotto di essere ‘colleghi’, mostrando anche un tesserino prima di risalire a bordo della loro auto ed andare via senza essere identificati. Della vicenda, sostiene il quotidiano, è stata informata la Digos e la scala gerarchica fino al capo della Polizia Vittorio Pisani e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

Dalle indagini svolte sarebbe emerso in un primo momento che i due uomini, che avevano con loro una torcia, erano due agenti dell’Aisi, l’Agenzia dei servizi segreti interna, e in particolare della scorta di Meloni. Del fatto, sempre in base a quanto riferisce il quotidiano, sarebbe stata informata anche al Procura della Capitale. Dall’indagine dei servizi, alcuni mesi dopo, si sarebbe però arrivati ad una altra conclusione: i due uomini che quella notte si sarebbero avvicinati all’auto di Giambruno sarebbero stati in realtà due ricettatori forse interessati a quanto c’era di valore in quella macchina e non agenti intenti a piazzare cimici o altro.

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Il Papa a Venezia: l’incontro con le detenute della Giudecca e il bagno di folla in piazza San Marco

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Francesco in motoscafo con i canti che arrivano dai moli e l’alzaremi dei gondolieri. Venezia oggi ha abbracciato il Papa per la sua visita breve, circa 5 ore, ma densa. Dalle detenute della Giudecca per le quali chiede “dignità” agli artisti della Biennale, dai giovani riuniti per lui alla Salute, fino al bagno di folla in piazza San Marco dove oltre 10mila persone hanno partecipato alla messa. Venezia è abituata ai Pontefici: in tanti l’hanno visitata e diversi sono stati i Papi che hanno governato la diocesi lagunare (che per tradizione si chiama Patriarcato), prima di arrivare al soglio di Pietro, come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I. Ma la visita di Francesco, attesa da anni, è accolta con un grande entusiasmo.

E lui ricambia l’affetto parlando delle bellezze di questa città unica al mondo, “splendida ma fragile”, bisognosa di cure, perché “senza la cura e la salvaguardia di questo scenario naturale potrebbe perfino cessare di esistere”, è l’accorata considerazione del Papa. “Se oggi guardiamo a questa città di Venezia, ammiriamo la sua incantevole bellezza, ma siamo anche preoccupati per le tante problematiche che la minacciano: i cambiamenti climatici, che hanno un impatto sulle acque della Laguna e sul territorio; la fragilità delle costruzioni, dei beni culturali, ma anche quella delle persone; la difficoltà di creare un ambiente che sia a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo; e inoltre tutto ciò che queste realtà rischiano di generare in termini di relazioni sociali sfilacciate, di individualismo e solitudine”, ha detto il Papa nell’omelia della messa a Piazza San Marco.

E allora “Venezia, che da sempre è luogo di incontro e di scambio culturale, è chiamata ad essere segno di bellezza accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, segno di fraternità e di cura per la nostra casa comune. Venezia che fa fratelli”. Il Papa ha cominciato al mattino presto con la visita alla Giudecca. Qui c’è il padiglione della Santa Sede della Biennale. Ma qui soprattutto ci sono donne che non trattengono le lacrime. E Francesco, alla presenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio, elenca le criticità del vivere in carcere: “E’ una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza”. L’appello alle istituzioni è dunque a “non togliere la dignità a nessuno”.

“Oggi tutti usciremo più ricchi da questo cortile. Forse quello che uscirà più ricco sarò io”, ha detto alle detenute. Poi l’incontro con gli artisti nel quale ha evocato l’immagine biblica della ‘città rifugio’ che “disobbedisce al regime di violenza e discriminazione”. L’arte può “liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e dell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa ‘fobia dei poveri'”.

Poi ancora l’omaggio alle donne artiste, tra le quali cita Frida Khalo. Infine i ragazzi, che alla Salute lo accolgono tra cori e canti. Li mette in guardia dai social e lancia un invito: “Alzati e vai”. “Avete pensato che cosa è un giovane tutta la vita seduto su un divano?”, “ci sono divani che ci prendono e non ci lasciano alzare”. Lo sguardo dunque a Dio che ama e non ci considera “un profilo digitale”. Il cellulare? Può anche essere “utile per comunicare ma state attenti quando il cellulare impedisce di incontrare le persone”. “Un abbraccio, un bacio, una stretta di mano, le persone” è quello che alla fine davvero conta. Infine l’invito ad essere “rivoluzionari” e andare “controcorrente”, facendo le cose con gratuità e non rincorrendo sempre l’utile come insegna il mondo. “Remate con costanza per andare lontani”. Proprio come si fa a Venezia.

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