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I narcos del Golfo, l’affare milionario della camorra sul Faito e sui Monti Lattari che solo i carabinieri vedono

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Sono 3164 le piante di cannabis estirpate sui Monti Lattari dai Carabinieri nelle ultime settimane. Ogni anno, i carabinieri, che rivolgono maggiore attenzione a questo fenomeno criminale molto redditizio per i narcos stabiesi, distruggono mediamente fino a 25/30mila piante di cannabis. Non siamo sugli altipiani della Colombia, non abbiamo a che fare con i cocaleros che producono per i cartelli della droga. Ma l’economia che muove questo business è da diverse decine di  milioni di euro. Tutto si svolge sotto il nostro naso. Con estrema tranquillità. Quello che accade sui Monti Lattari, si ripete più o meno nelle stesse modalità, anche su altri monti del Sud, Aspromonte, Sila, Madonie. Sono zone vergini, belle, impervie, difficili da raggiungere anche a piedi. Zone dove vengono ricavate piantagioni di cannabis dalle quali si ricava la droga con cui viene inondato il mercato italiano della marjuana e dell’hashish.

Ragioniamo per un attimo usando come metro di giudizio non la morale ma i soldi. Anche perché il mondo di cui parliamo non conosce né legge né morale. Proviamo a capire quale tipo di economia alimentano i narcotrafficanti di casa nostra e quanto è redditizia la produzione e la commercializzazione quasi in regime di monopolio da parte di alcuni clan di hashish e marijuana a chilometro 0 ovvero droga prodotta in quantità industriale con la coltivazione delle piante di cannabis praticamente a casa nostra.

Forse è risaputo, forse per qualcuno o tanti è una scoperta, di sicuro parliamo di una impresa criminale fiorente, con fatturati da capogiro, in continua ascesa commerciale e soprattutto parliamo di una droga che gode di buona stampa ovvero di scarsa attenzione mediatica (fin quando, magari, non ci si imbatte in venditori di Fumoncello — liquore a base di marijuana — o in fruttivendoli che «spacciano» erba da fumo in buste che sembrano piene di insalata).

In genere, però, un sequestro di una tonnellata di marijuana con arresti di spacciatori vale una breve in pagina quando c’è spazio sul giornale di carta o sul web o in tv. Analoga notizia di un carico di cocaina intercettato da una forza di polizia diventa spesso invece stupefacente occasione per il cronista di turno di dare fondo all’epica dei cartelli dei narcos sudamericani, dei loro boss sanguinari e ricchi sfondati che muovono miliardi di dollari nel mondo dell’economia globalizzata, pagano eserciti di paramilitari, corrompono inquirenti, ministri e anche capi di Stato, controllano intere regioni e popolazioni di paesi come il Messico o Perù o Colombia dove coltivano la pianta di coca. Sappiamo di più delle gesta di Chapo Guzman o di Pablo Escobar, poco o nulla del clan Afeltra o della famiglia De Martino o dei D’Alessandro, tanto per fermare l’attenzione su organizzazioni criminali poco conosciute che agiscono in un territorio – tra il Faito e i Monti Lattari – dove le foglie di cannabis costituiscono una economia (fatte le debite proporzioni sul suolo utilizzato) importante quanto quella alimentata dalle foglie di coca in Sudamerica.

Dalle nostre parti giornalisti e analisti di fenomeni criminali ed economie criminali siamo tutti più o meno specializzati o specializzandi in cocainismo. Abbiamo letto e scritto articoli, reportage, inchieste e libri sulla cocaina, di cui sappiamo (o pensiamo di sapere) più o meno tutto: da dove la importano le mafie italiane, dove e come la commercializzano, perché è scoppiata la sanguinosa faida di Scampia con decine di morti e chi e come e quando in Italia intrattiene rapporti diretti con i capi dei cartelli dei narcos sudamericani.

La coltivazione della cannabis evoca invece il consumo di una canna, uno spinello fumato in compagnia, un nostalgico ritorno a Woodstock con un po’ di buona musica rock e sballo per quelli più anzianotti. Ecco, vorrei ragionare con voi invece su un’altra visione della cannabis, su un mondo criminale spietato come quello che si cela dietro la cocaina, su una economia criminale redditizia quanto quella della cocaina e che gode però di un regime di controlli e forme di repressione assai blandi, costi di produzione assai contenuti, rischi nella commercializzazione scarsi o quasi nulli. Ho potuto seguire per qualche settimana – grazie ai carabinieri di Napoli – quel che accade nel mondo della cannabis e confesso che ne sono rimasto sbalordito, stupefatto.

Anche, lo dico senza falsa modestia, della mia ignoranza. Sui Monti Lattari come sul Faito, ad esempio, ci sono oramai decine di contadini e pastori che hanno scoperto essere non più redditizio coltivare pomodori o pascolare ovini da latte. La loro perfetta conoscenza di queste montagne impervie oramai la sfruttano per occuparsi di semina e raccolta della pianta di cannabis. Ognuno di loro riesce a gestire in zone inaccessibili per noi umani che viviamo a poche decine di chilometri dalle loro case piccoli microlotti di terreni dove si piantano e si curano le piante di cannabis. Hanno il know-how per fare tutto e bene. Fanno crescere le piante fino ad una altezza di 4 metri. Da aprile a giugno ne curano la crescita, poi fino a ottobre ne raccolgono i frutti: le foglie e i rami più morbidi.

Fatte sempre le debite proporzioni, ai coltivatori di cannabis dei Lattari che in gergo poliziesco chiamano cannaberos (sono l’equivalente dei cocaleros Sudamericani) vanno sicuramente molti più soldi di quanto incasserebbero se facessero il loro onesto mestiere di contadini o pastori, ma pur sempre le briciole rispetto al business finale della marijuana e dell’hashish. La storia recente del business della cannabis sui Monti di fronte Napoli è comunque la storia della più colossale sottovalutazione di uno dei business più redditizi delle mafie campane. Per far capire quanto è lucroso l’affare per i narcos di casa nostra, vi fornisco un dato ufficiale dei solo carabinieri: tra giugno e luglio del 2016 nei soli comuni di Lettere, Gragnano, Casola di Napoli i militari dell’Arma hanno sequestrato 10 piantagioni di cannabis e distrutto 24.500 piante. Il valore di mercato della droga distrutta sul posto è di circa 250 milioni di euro. Una sola pianta di cannabis produce marjuana e hashish che nelle piazze di spaccio vale oltre 10 mila euro. Fate un po’ di conti e capirete di che cosa parliamo.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Identikit del nuovo Papa, chi raccoglie eredità Francesco

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Il principale, grande nodo che i cardinali che si riuniranno nella Sistina dovranno sciogliere nell’individuare la figura del nuovo Pontefice sarà su chi potrà raccogliere la grande eredità di papa Francesco. I tanti cantieri aperti lasciati dal Pontefice scomparso, i “processi avviati” come li chiamava lui, sono altrettanti capitoli di cui scrivere un futuro e su cui, se possibile, non fermarsi, né tanto meno tornare indietro. Quando dodici anni fa si dimise Benedetto XVI, la Chiesa attraversava una grave crisi, provata dagli scandali come il primo Vatileaks, le ondate di rivelazioni sugli abusi sessuali – peraltro favorite proprio da Ratzinger, il primo a promuovere la ‘tolleranza zero’ -, e la stessa rinuncia del Papa per l’età avanzata e le difficoltà nel fare fronte alle resistenze interne, che avevano fatto fortemente ondeggiare la ‘barca di Pietro’.

E il mandato dei cardinali a chi sarebbe diventato il nuovo Papa era stato di rifondare la Chiesa su una nuova base di rinascita cristiana e di rilanciata missione evangelizzatrice. Proprio quello che ha perseguito, non senza pesanti ostacoli, Jorge Mario Bergoglio in questi dodici anni di pontificato, con le riforme in primo luogo finanziarie, poi della Curia con l’inedito mandato ‘di governo’ anche ai laici e alle donne, sulla protezione dei minori, e col proprio atteggiamento personale di radicalità cristiana, di vicinanza ai più poveri, ai migranti, agli ‘scartati’, di indefessa abnegazione in favore della pace, della fratellanza umana e del dialogo con le altre religioni. Un insieme di spinte in avanti che rimettono in primo piano molti dei propositi ancora inattuati del Concilio Vaticano II, finora gravati da contrarietà e passività all’interno della Chiesa.

Senza contare l’ultimo grande cantiere aperto da Francesco, quello della Chiesa ‘sinodale’, su cui a parte i due Sinodi già svolti il Papa defunto ha indetto un ulteriore triennio per l’attuazione, con una grande e finale “assemblea ecclesiale” già programmata per l’ottobre del 2028. Un’eredità, quindi, in buona parte già scritta quella che dovrà raccogliere il prossimo, e 266/o, successore di Pietro. Che dovrà riprendere in mano tutte le riforme e portarle avanti secondo le proprie sensibilità e priorità. Oltre che con la necessaria autorevolezza e capacità di governo, qualità indispensabili per il pastore universale di un organismo della complessità e vastità della Chiesa cattolica.

Questo, insomma, sarà l’identikit del nuovo Papa, almeno per chi pensa che sulla rivoluzione imposta da Bergoglio in tanti settori ecclesiali “non si può tornare indietro”. E, a parte gli elenchi dei papabili e i possibili fronti contrapposti, nelle congregazioni generali pre-Conclave, come accadde proprio nel 2013 con la successiva elezione di Francesco, avrà la meglio chi nei propri interventi riuscirà a trasmettere carisma e a catalizzare maggiormente i convincimenti dei confratelli. Non mancherà certo l’assalto dei restauratori, di chi nel Collegio cardinalizio vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia e fare piazza pulita di molte delle innovazioni di Francesco, in particolare in campi come la pastorale della famiglia (c’è chi non nasconde di non aver ancora digerito la comunione ai divorziati risposati) o peggio ancora le benedizioni alle coppie gay, o anche i rapporti con le altre religioni, oppure certe fughe in avanti tuttora mal sopportate.

Il fatto che ben 108 dei 135 cardinali elettori, cioè l’80 per cento, siano stati nominati da Francesco non garantisce sul risultato finale: si tratta di un gruppo molto composito, tra cui molti non si conoscono fra loro, e che comprende anche fieri oppositori della linea di Bergoglio. Un nome per tutti, l’ex prefetto per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Mueller, fiero oppositore della linea bergogliana. L’esito del Conclave è dunque molto incerto. E a parte i favoriti elencati finora dai media, è possibile che alla fine prevalga un nome del tutto a sorpresa.

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Comune revoca cittadinanza al duce, la dà a Matteotti

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Revocata la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, conferita invece a Giacomo Matteotti, il politico socialista ucciso dai fascisti il 10 giugno 1924. Alla vigilia del 25 aprile, il Comune di San Clemente, in provincia di Rimini, ha preso queste due decisioni simboliche, approvate all’unanimità dal consiglio comunale nel tardo pomeriggio. Anche Ozzano dell’Emilia, in provincia di Bologna, proprio ieri ha revocato la cittadinanza al duce. E così hanno chiesto di fare i gruppi consiliari di centrosinistra ad Isernia, dove era stata concessa a Mussolini il 20 maggio 1924. “Revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini significa prendersi la responsabilità di giudicare con determinazione e piena maturità un passato costellato da atrocità, economia inesistente, azzeramento, in modo scientifico, quasi chirurgico, del pensiero critico”, ha detto la sindaca di San Clemente, Mirna Cecchini, nel suo discorso.

“In un’epoca in cui il coraggio delle proprie azioni e l’intransigenza verso le bestialità sembrano venir meno, l’esempio di Matteotti è pronto a ricordarci che la democrazia e la libertà non sono beni scontati e facilmente ottenibili. Bensì l’epilogo di faticose conquiste personali e collettive, la spina dorsale dei popoli capaci di rialzare la testa; traguardi che richiedono responsabilità, vigilanza continua e partecipazione convinta”, ha aggiunto, motivando il conferimento della cittadinanza post mortem. A Ozzano la cittadinanza a Mussolini fu concessa il 18 maggio 1924, “in un periodo e contesto storico totalmente diverso da quello attuale, quando tantissimi Comuni furono in un certo senso sollecitati a rendergli omaggio attraverso un atto simbolico e politico – ha spiegato il sindaco, Luca Lelli – A chiederne la revoca è stata l’Anpi locale e come Amministrazione non abbiamo esitato a rispondere all’appello, e a procedere con il ritiro attraverso un atto del Consiglio comunale. La revoca è avvenuta a ridosso del 25 aprile perché abbiamo voluto dare anche un segnale forte, puntando l’attenzione sull’impegno che da sempre abbiamo nel promuovere una società basata sui valori di democrazia e libertà”.

A Isernia il capogruppo del Pd, Stefano Di Lollo, ha spiegato che “la cittadinanza onoraria, attribuita all’epoca come atto di adesione ideologica al regime fascista nascente, è oggi ritenuta incompatibile con i valori della Costituzione repubblicana e con il sentimento democratico che deve appartenere a uno Stato civile. Benito Mussolini è stato il principale responsabile dell’instaurazione della dittatura fascista, delle persecuzioni razziali e politiche, e dell’alleanza con il nazismo, che ha condotto l’Italia in una delle fasi più oscure della sua storia. Restituire alla storia il suo giusto significato è fondamentale per costruire un presente consapevole e un futuro libero”.

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Becciu: Papa Francesco aveva la soluzione, non possono escludermi

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Il cardinale Angelo Becciu conferma di ritenere che lo si debba ammettere al Conclave. Il porporato sardo, ex sostituto della Segreteria di Stato ed ex prefetto per le Cause dei santi – che in una drammatica udienza del 24 settembre 2020 papa Francesco privò della carica in Curia e dei diritti del cardinalato -, afferma in una conversazione con la Reuters che il suo ruolo è cambiato da quella sera di oltre quattro anni e mezzo fa, quando il Pontefice lo degradò perché si sentiva tradito nella sua fiducia. Oltre a confermare quanto già dichiarato all’Unione Sarda – che le sue prerogative sono “intatte, che non c’è stata “alcuna esplicita volontà” di escluderlo dal Conclave e che non gli è mai stato chiesto di rinunciare al privilegio per iscritto -, Becciu aggiunge che papa Bergoglio sarebbe stato vicino a prendere una decisione sul suo status.

Dice infatti di aver incontrato il Pontefice a gennaio, prima del ricovero al Gemelli a febbraio, e cita le sue parole: “Penso di aver trovato una soluzione”, gli avrebbe detto Francesco. Becciu dichiara inoltre di non sapere se il Papa gli abbia lasciato istruzioni scritte su questo aspetto. “Saranno i miei confratelli cardinali a decidere”, conclude in attesa della discussione nelle congregazioni pre-Conclave del Sacro Collegio, già iniziate e a cui lui stesso è invitato.

La questione-Becciu, che rischia di condizionare gravemente il prossimo Conclave e anche il dopo, si complica quindi sempre di più. Tra l’altro nel prossimo autunno – prima udienza il 22 settembre – si aprirà il processo d’appello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e la compravendita del Palazzo di Londra, per le quali Becciu ha sempre proclamato la sua innocenza ma è stato in primo grado condannato a cinque anni e sei mesi di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di peculato e truffa aggravata ai danni della Santa Sede. Intanto, spuntano due lettere scritte dal Papa che sancirebbero l’esclusione di Becciu dal voto per il nuovo Pontefice. Ne scrive il quotidiano Domani riportando che il cardinale Pietro Parolin, già segretario di Stato, avrebbe mostrato ieri sera a Becciu due lettere dattiloscritte e siglate dal Pontefice con la F che lo escluderebbero dall’ingresso in Sistina: una del 2023 e l’altra dello scorso mese di marzo, quando Francesco affrontava l’ultima, gravissima malattia.

Il porporato sardo avrebbe preso atto, ma al momento non risulta abbia rinunciato al suo proposito. Sempre secondo ricostruzioni su Domani dell’ex direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian, il cardinale decano Giovanni Battista Re, che domani celebrerà i funerali di Francesco, avrebbe detto a Becciu di essere favorevole al suo ingresso in Conclave, non avendo disposizioni contrarie scritte dal Pontefice scomparso. Nel riferire ciò al cardinale camerlengo Kevin Joseph Farrell, però, quest’ultimo avrebbe comunicato a Re la volontà di papa Bergoglio, espressagli tempo fa soltanto a voce, che Becciu fosse tenuto fuori. Da indiscrezioni che trapelano dalle prime congregazioni generali, poi, per sbrogliare il caso-Becciu che sta diventando un vero e proprio ‘giallo’, potrebbe essere costituita una commissione, composta da cinque cardinali tra cui lo stesso porporato sardo.

Questa, secondo il Fatto Quotidiano, la proposta avanzata dal cardinale Claudio Gugerotti, già prefetto per le Cause orientali e considerato molto vicino al card. Parolin. Gugerotti, dal canto suo, avrebbe espresso un parere contrario all’ingresso di Becciu in Sistina. Lo stesso avrebbe fatto un altro fedelissimo di Bergoglio, il cardinale elemosiniere Konrad Krajewski. Su tutta la questione non ci sono commenti da fonte ufficiale. Alle domande dei giornalisti il portavoce vaticano Matteo Bruni continua a ripetere che “per ora parliamo dei funerali del Papa. Del Conclave si parlerà poi”.

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