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Governo frena su incentivi per e-car, costa troppo

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Il governo frena sugli incentivi come unico strumento per rendere accessibili le auto elettriche. Per spingere le vendite bisogna abbassare anche i prezzi. Una risposta ai costruttori, come Stellantis, che chiedono un aiuto alla domanda per sostenere la diffusione delle e-car, ancora troppo costose per l’elevato prezzo delle materie prime. “Senza incentivi le auto elettriche sono ancora troppo costose per la classe media. La sfida è quanto velocemente si riuscirà a ridurre ii costi per venderle anche senza. Basta vedere quanto è successo in Germania: non appena sono stati sospesi gli incentivi, il mercato è crollato”, ha detto l’amministratore delegato Carlos Tavares. “Quando le auto elettriche erano 6.000 il primo anno, 60mila il secondo anno, potevano starci degli incentivi statali, ma se entriamo in un’ottica di milioni o centinaia di migliaia di acquisti, probabilmente qualche effetto sul bilancio dello Stato gli incentivi ce l’avrebbero e diventa molto difficile”, spiega il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto.

“Nessuno mette in dubbio l’auto elettrica, è un obiettivo da raggiungere – ha detto il ministro – anche se non completamente elettrica perché ci sono dei motori endotermici che possono usare biocarburanti, biometano, che possono funzionare. L’accompagnamento deve essere appaiato al fatto che l’industria deve avere un prezzo possibile a favore della collettività. Oggi l’auto elettrica è fatta solo per i ricchi, noi abbiamo un parco auto di 40 milioni di auto, abbiamo ancora due milioni di auto Euro 1- Euro 2, pensare di sostituirle con l’elettrico è inimmaginabile in questo momento, è un percorso da fare ma bisogna essere più razionali ed equilibrati”. L’Unrae, l’associazione delle case automobilistiche estere in Italia, mette in evidenza che il parco circolante invecchia inesorabilmente, la quota di auto elettrificate nel 2022 è diminuita, lo sviluppo della rete di infrastrutture di ricarica procede con lentezza.

La transizione energetica comunque avanza e nel 2022 la quota dei motori a benzina è scesa dal 30% al 27,7% e quella dei diesel dal 22,1% al 19,6%, lasciando la leadership alle auto ibride che salgono al 34%. Le elettriche (pure e ibride plug-in) hanno però subito una drastica battuta d’arresto, perdendo 20.000 unità nel 2022 (-14,8%) e scendendo a quota 8,8% (soprattutto a causa della flessione delle elettriche pure), bloccando l’Italia all’ultimo posto fra i 5 maggiori mercati. L’Unrae prevede per il 2023 una ripresa a doppia cifra nella prima parte dell’anno, visto l’andamento depresso del primo semestre 2022 e una sostanziale stabilità nei mesi successivi, con una crescita complessiva nell’anno del 6,3% a 1,4 milioni di immatricolazioni.

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Scalata e addio, corsa dell’ultimo delfino del Cav

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Dalla tv ad Arcore. E poi ancora, lontano dal Cavaliere – per fondare nell’ordine Cambiamo! Coraggio Italia e poi approdare a Noi Moderati. Dieci anni di vita politica sull’ottovolante quelli del “moderatissimo”, (così si definì), Giovanni Toti. Da Mediaset alla guida della Liguria (è al secondo mandato) passando per Forza Italia e Silvio Berlusconi. Bruciando tutte le tappe, l’ex direttore di Studio Aperto e Tg4 – con un passaggio anche nell’ufficio stampa del Biscione – nel 2014 entra in politica con la ‘chiamata diretta’ dell’ex premier che lo nomina suo consigliere e, di diritto, componente del cosiddetto cerchio magico allora guidato dal duo Maria Rosaria Rossi e Francesca Pascale.

La convivenza di Toti con la cosiddetta vecchia guardia azzurra non è semplice. E’ il periodo dello scontro aperto con Raffaele Fitto. Ma che Berlusconi avesse puntato le sue fiches sul giornalista Mediaset era evidente. Come si sa, per il Cavaliere, l’immagine aveva il suo peso e siccome Toti aveva il ‘difetto’ dei chili di troppo, il leader azzurro decise di metterlo a dieta. Iconica divenne la foto che ritraeva Toti in tutta bianca accanto al Cavaliere in un centro benessere sul lago di Garda. E’ il gennaio del 2014, a giugno arriva il battesimo con la prima linea: Toti viene candidato alle elezioni europee. La permanenza a Strasburgo dura però meno di un anno perchè nel 2015, il fedelissimo di Berlusconi decide di candidarsi alla guida della Liguria, regione di residenza, ma non di nascita. Toti infatti è toscano. La campagna elettorale parte in salita con la gaffe, in diretta Tv, su Novi Ligure che l’eurodeputato collocò erroneamente in Liguria e non in Piemonte. Uno scivolone che però non gli impedisce di aggiudicarsi la vittoria conto Raffaella Paita, candidata del centrosinistra. L’ascesa in Regione – diventa anche il vice di Bonaccini al vertice della conferenza Stato-Regioni – si complica con il referendum fallito sulle trivelle nel 2015 e la tragedia del Ponte Morandi nel 2018.

L’avvicinarsi della scadenza con il mandato da governatore coincide con il progressivo allontanamento da Forza Italia. Annoverato nella lunga lista dei delfini di Berlusconi, Toti lascia gli azzurri nel 2019. L’addio arriva dopo la decisione dell’ex premier di chiudere il tavolo delle regole che aveva come compito principale quello di rinnovare lo statuto di Forza Italia: “Mi pare che ci siano le condizioni per cui ognuno vada per conto suo, è Forza Italia che esce da se stessa. Buona fortuna a tutti”, disse prima di sbattere la porta e lanciarsi nell’avventura di Cambiamo! e nella corsa per il bis della Regione. Nel 2020 viene rieletto alla guida della Liguria.

La sua lista è la più votata ma, nel 2021, Toti scioglie Cambiamo! e dalle ceneri dà vita a Coraggio Italia, formazione politica in condivisione con il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Con la fine anticipata del governo Draghi e le elezioni politiche alle porte, il governatore ligure sigla un accordo con Lorenzo Cesa e Maurizio Lupi presentando la lista Noi Moderati e diventando il presidente del consiglio nazionale del partito. Noi moderati sigla infine un’alleanza con Forza Italia per le prossime elezioni europee. Quasi a chiudere il cerchio di una corsa di Toti che per 10 anni lo ha visto, politicamente, sulle montagne russe.

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Caos balneari, tavolo tecnico di Chigi dopo Europee

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Resta alta la tensione fra gran parte del mondo degli imprenditori balneari e il governo. Con la stagione estiva alle porte, il disappunto nel settore è aumentato alla luce della convocazione della prossima riunione del tavolo tecnico per il 12 giugno, quindi dopo le Europee, e in formato ristretto, con i tecnici dei ministeri e i rappresentanti delle regioni, ma senza quelli della categoria. Lo scopo è la “definizione dei lavori all’esito dell’interlocuzione con la Commissione europea”, che al momento, però, ancora non ha portato a risultati.

L’esecutivo cerca una soluzione per evitare che la procedura di infrazione, per violazione della direttiva Bolkestein, arrivi davanti alla Corte di giustizia europea, ma non ci sarebbe piena sintonia tra gli alleati su come agire. Non è però escluso che un rimedio, almeno parziale sugli indennizzi, possa emergere nel frattempo dai lavori parlamentari, dagli emendamenti alla proposta di legge all’esame della commissione Finanze della Camera per abrogare l’articolo 49 del codice della navigazione, previsione normativa del 1942 da tempo contestata dagli operatori. Secondo questa norma, le opere fisse costruite su una zona demaniale restano acquisite dallo Stato senza indennizzo alla scadenza della concessione. “L’indennizzo per gli imprenditori balneari a fine concessione è da tempo, del resto, previsto dalla legge sulla concorrenza del governo Draghi e nessuna giurisprudenza sia nazionale che europea, ha mai eccepito niente in merito – sottolinea Riccardo Zucconi (FdI), primo firmatario della proposta di legge, presentata un anno fa e in esame da fine aprile -. Invece proprio il Consiglio di Stato ha sollevato obiezioni sull’articolo 49 del codice della navigazione, rispetto al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Io propongo una soluzione per risolvere almeno uno spicchio del problema e aiutare a fare uscire il settore da una crisi seria”.

L’iter di questo provvedimento – una proposta di legge ordinaria in prima lettura a Montecitorio – rischia però di andare troppo lungo rispetto alle esigenze del settore. E, secondo i ragionamenti che si fanno nella maggioranza, uno o più emendamenti (il termine scade mercoledì) potrebbero essere recepiti dal governo in un decreto legge, visto che la stagione estiva è ormai imminente e il settore chiede chiarezza, mentre molti Comuni hanno messo a gara nel concessioni e associazioni come Mare Libero dopo l’ultima sentenza del Consiglio di Stato chiedono di disapplicare le proroghe. Di certo, fa notare un ministro, quella sentenza ha di fatto messo una “pietra tombale” sulle ipotesi di nuove proroghe. Ma per arrivare a un decreto va prima trovata la sintesi tra gli alleati.

Il dossier è in mano ai ministri Raffaele Fitto (Affari europei) e Matteo Salvini (Infrastrutture), e fra i due c’è disallineamento sulla strategia, come riconoscono anche nella maggioranza. Pure per questo motivo l’interlocuzione con Bruxelles non starebbe facendo, al momento, grandi passi avanti. Anche perché la Commissione Ue ritiene non esaustiva la mappatura con cui il tavolo tecnico di Palazzo Chigi ha definito “non scarsa” la risorsa spiaggia ritenendo di non dover applicare la Bolkestein. Ma restano resistenze, anche dentro FdI, ad abbandonare questa via.

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Bonaccini media sul Jobs act, ma riformisti in tensione

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Parola d’ordine: smussare. Il presidente del Pd Stefano Bonaccini, leader dei riformisti del partito, ha provato a mediare sul Jobs act, dopo che molti della sua area hanno definito “una forzatura” la decisione della segretaria Elly Schlein di firmare il referendum della Cgil. “Evitiamo di schiacciare il dibattito su una iniziativa referendaria – ha detto Bonaccini – Ciascuno è libero di firmare o meno sugli specifici punti”. In vista delle europee, non c’è troppa voglia di alzare i toni, ma la minoranza del partito resta sul chi va là. Il sostegno della segretaria al referendum “mi sembra una cosa coerente con la storia politica di Elly Schlein – ha rilevato il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, candidato per Bruxelles – Siccome firmare sarebbe totalmente incoerente con la mia storia politica, io sicuramente non firmerò”.

Non si è invece smarcato il sindaco di Firenze Dario Nardella: “Se firmerò il referendum come ha fatto la segretaria del Pd Schlein? Ci sto pensando. Schlein ha lasciato libertà di decidere”. Ma crepe ci sono anche nel fronte di chi ha sostenuto la segretaria al congresso. Come il deputato ed ex ministro del lavoro Andrea Orlando: “Sto riflettendo se firmare per il referendum sul Jobs act. Francamente penso che i parlamentari possono anche esimersi. Le mani ci vanno messe e il Parlamento deve fare il proprio mestiere. C’è un mio disegno di legge per modificare la normativa”. Un clima non nuovo nel partito. “Il Pd fa i congressi e li fa davvero, discute e poi definisce una linea – ha assicurato Schlein – Questo non significa che non sia un partito plurale. Legittimamente altri non firmeranno il referendum sul jobs act. Non vedo un partito diviso e frammentato come tanti raccontano, ma un partito in grado di recuperare sei punti nei sondaggi. Il Pd è in buona salute”.

Insomma, anche il dibattito sul Jobs act restituisce il trambusto di un riequilibrio interno. Non è la prima volta che l’area di Orlando ha posizioni diverse da quelle di Schlein. E’ successo anche sul patto di stabilità: in Ue il Pd si è astenuto mentre Orlando aveva chiesto un voto contrario. E non è la prima volta che l’area di Bonaccini non appare allineata al suo leader. L’ultimo episodio è stato in direzione, sulla proposta di mettere il nome di Schlein nel simbolo per le europee. La illustrò Bonaccini, ma molti dei suoi dissero “no”. Stavolta Bonaccini ha provato a indicare la via d’uscita. O di fuga dalle sirene dei centristi: “Non ci schiacciamo su proposte che vengono da altri – ha detto il governatore dell’Emilia Romagna – Liberamente chi vuole nel Pd può firmare il referendum della Cgil, ma dobbiamo stare sulle battaglie che stiamo facendo in Parlamento, dove le opposizioni, e lo dico anche a Renzi, potrebbero trovare unità”. Schlein tira dritto: l’obiettivo è dare un’identità chiara al partito.

ù”Nel 2015 ero in piazza con la Cgil contro l’abolizione dell’articolo 18″, il referendum “è un punto di ricucitura rispetto ad alcune scelte sbagliato del passato, che anche i nostri elettori non ritengono corrette”. Pd unito invece contro il premierato, a breve in Aula al Senato. La riforma non piace nemmeno all’area riformista anche extra dem. Un gruppo trasversale di costituzionalisti ha formulato due emendamenti per “migliorare” e “colmare alcune lacune” della riforma. Li hanno illustrati a Palazzo Madama Peppino Calderisi, Stefano Ceccanti, Gaetano Quagliariello, Nicola Drago, Claudia Mancina ed Enrico Morando.

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