Dopo un mese di scuotimenti, l’albero della Transizione ha lasciato cadere il suo frutto, ancora acerbo. Il sommovimento è cominciato il primo giorno d’autunno, con un tentativo di colpo di Stato messo in atto dai seguaci da Omar al-Bachir, il dittatore deposto dai militari sotto la spinta della folla in strada nel 2019, tuttora detenuto. Manifestazioni a raffica si sono quindi susseguite per le vie di Khartum, di Omdurman, di Bahri, le tre unità urbane di cui si compone l’area metropolitana. Si distingue così, nel seno dell’unione civile denominata “Forze per la libertà e il cambiamento”, una corrente popolare, piuttosto esigua, in apoggio ai militari e un’altra, largamente maggioritaria, in appoggio agli esponenti civili della Transizione.
Già, la Transizione: una nuova categoria politica per capire quel che succede in Africa. Di che si tratta? E’ il processo con cui viene indicato il passaggio dal vecchio regime –quale che sia- spazzato via da un golpe militare a un nuovo regime, a guida civile e basato su istituzioni democratiche: libere elezioni del Presidente e del Parlamento, Corte Costituzionale, indipendenza dell’ordine giudiziario dal Governo. Nel solco di questo processo a guida partenariale civile-militare, che avrebbe dovuto concludersi appunto con libere elezioni alla fine dell’anno prossimo, si svolge il golpe del generale Abdel Fattah al Burhan in corso attualmente a Khartum. Ora, chi è il generale Burhan? E’ la massima autorità del Paese, il Consiglio sovrano della Transizione: quella che ha liquidato manu militari il Governo, mettendo in prigione il premier Abdallah Hamdok, con una buona parte dei suoi ministri nonché i componenti civili del Consiglio sovrano.
Un paradosso: la Transizione che divora se stessa. Si è osservata questa dinamica qualche mese fa in Mali, dove il colonnello Assimi Goïta, già autore del Colpo di Stato contro il presidente eletto Ibrahim Boubacar Keïta nell’agosto del 2020, è stato protagonista di un secondo colpo di Stato che ha destituito il primo presidente della Transizione Bah N’Daw.
Che piega stanno dunque che prendendo i colpi di Stato in Africa? La sindrome maliana ci dice esattamente questo: faccio un golpe non “contro” la Transizione, ma “per” la Transizione. Per aiutarla visto che la compagine governativa è inefficiente e non avanza velocemente nella realizzazione degli obiettivi della “rivoluzione”. Nel rivendicare all’esercito, e quindi a sé, un maggior peso nelle responsabilità operative, la componente militare della Transizione si pone come custode dei valori democratici e come garante del loro decorso istituzionale.
Dopo Bachir, i padrini internazionali del Sudan sono stati essenzialmente tre. Da una parte, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, con interessi legati intanto alla questione yemenita. Ricordiamo la coalizione guidata dall’Arabia che opera sul terreno dal 2015. Ebbene si parla di un corpo di spedizione di 10.000 combattenti sudanesi. Ma occorre mettere nel paniere anche gli emigrati: se ne contano, nella penisola arabica, più di mezzo milione, che rappresentano con le loro rimesse uno dei pilastri più importanti dell’economia sudanese. Un’economia asfittica, con un debito estero spropositato (60 miliardi di $ con un PIL che forse non arriva a 100), un’inflazione galoppante, un impoverimento complessivo con la perdita delle risorse petrolifere in favore del Sud Sudan. Un’economia sulla quale grava la mannaia del FMI che è sì disposto ad aiutare il Sudan in termini di diminuzione e riassetto del debito, ma al prezzo di un rigore contabile che, come da sempre nella cultura di questa istituzione, viene scaricato addosso agli strati più poveri della popolazione: con tasse sulla farina, sul carburante, sui medicinali…..
Quanto agli aiuti diretti, le perfusioni dal Golfo Persico sono continue. E’ di settembre l’annuncio di altri 400 milioni di dollari per sostenere progetti agricoli. Mentre la Francia, ricordando che il “club di Parigi” è il più forte creditore estero del Sudan, sta giocando la carta di un padrinato politico-finanziario, con l’annullamento di 5 miliardi di debito da trasformare presto o tardi in un credito strategico. Dal loro canto, gli Stati Uniti hanno già lo scorso anno tolto l’embargo su un Paese già iscritto sulla lista nera dei complici del terrorismo, ed hanno sviluppato linee di aiuto finanziario cospicue (oltre 1 miliardo di dollari) in cambio del riconoscimento di Israele.
L’altro riferimento internazionale del Sudan è l’Egitto. I legami storici tra i due Paesi si innestano oggi su un fondamentale interesse comune: l’asta fluviale del Nilo. Senza dimenticare il vitale rapporto strategico che lega Il Cairo a Khartum, concernente i due immensi scacchieri dell’Africa subsahariana e dell’Oceano Indiano.
Le Nazioni Unite, Bruxelles e Washington, così come l’Unione Africana, hanno levato le loro voci ritualistiche, come di consueto in questi casi: liberare i prigionieri e rimettere sui binari della “legalità” il processo di Transizione. Ma è chiaro che senza una decisa e concordata presa di posizione di Egitto e Arabia Saudita, ben difficilmente sapremo quel che veramente succederà a Khartum nelle prossime settimane. Nel frattempo, i fumi dei pneumatici che bruciano si levano sopra l’immensa città. I venti del deserto faticano a dissolverli. La gente sostenuta dalle associazioni sindacali, è in strada, con la stessa tenacia che aveva mostrato al tempo della defenestrazione di Bachir. L’esercito comincia a sparare, con proiettili veri: 2 i morti, e si va verso il centinaio di feriti. E però la sindrome maliana può forse essere una scorciatoia politica, ma non può in alcun modo risolversi in un bagno di sangue…..
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
La Russia non rinuncerà alla Crimea e alle altre regioni annesse in Ucraina. A chiarirlo durante un bagno di folla sulla Piazza Rossa è Vladimir Putin, forte del trionfo annunciato al termine dei tre giorni di elezioni presidenziali che gli hanno regalato, secondo i risultati ufficiali, la più grande vittoria per un capo dello Stato nella storia del Paese, con l’87,3% dei voti. Un plebiscito che può servire a Putin sia per continuare il conflitto sia, se l’occasione si presenterà, per avviare negoziati da posizioni di forza. Per rimarcare l’unità del Paese, il capo del Cremlino ha portato con sé sul palco i tre candidati sconfitti con percentuali umilianti, al di sotto del 5% ciascuno. Davanti a decine di migliaia di persone accorse per assistere a un concerto nel decimo anniversario dell’annessione della Crimea, Putin ha affermato che la Russia andrà avanti “con le nuove regioni, mano nella mano”.
E’ vero, ha ammesso, che il viaggio delle genti del Donbass “verso la loro terra natale”, cioè la Russia, si è rivelato “più difficile e tragico” di quello della Crimea. “Ma comunque ce l’abbiamo fatta”, ha assicurato, prima di intonare con tutta la piazza l’inno nazionale, in un tripudio di bandiere russe. Difficile capire fino in fondo il signficato di queste parole. Se Putin intenda cioè dire che la Russia si potrebbe accontentare dei territori conquistati finora, o voglia allargare il conflitto. Mosca continua ad insistere di essere pronta a negoziati che tengano conto della situazione sul terreno, cioè del controllo russo su parte dell’Ucraina.
Lo ha ribadito il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ricevendo l’inviato cinese Li Hui, che nei giorni scorsi ha visitato vari Paesi europei. Il capo della diplomazia russa, ha fatto sapere il ministero degli Esteri, ha “confermato l’apertura della parte russa a una soluzione negoziata”. Ma è “inaccettabile” la cosiddetta ‘formula Zelensky’, che prevede il ritiro completo dei russi dalle regioni occupate durante il conflitto e dalla Crimea.
A questo si è aggiunta una dichiarazione al giornale Izvestia del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, secondo il quale la Russia è “pronta a negoziati su tutte le questioni della sicurezza, compreso il disarmo nucleare e la non proliferazione”. Queste dichiarazioni fanno seguito a quelle dello stesso Putin che la scorsa notte aveva indicato la Francia come un Paese che “può ancora svolgere un ruolo” nella ricerca di una soluzione negoziata, perché “non tutto è ancora perduto”. Una sorpresa dopo le parole del presidente Emmanuel Macron su possibili “operazioni sul terreno” di Paesi Nato in Ucraina “per far fronte alle forze russe”. Il leader russo si era anche detto pronto a prendere in considerazione l’ipotesi di una tregua per le Olimpiadi, a patto che non si tratti solo di una pausa per dar modo a Kiev di “riarmarsi”. Il portavoce Peskov ha intanto respinto come “assurde” le affermazioni occidentali relative alla “illegittimità” delle elezioni. Accuse rilanciate dal gruppo indipendente russo di monitoraggio Golos, secondo il quale queste sono state le consultazioni “più fraudolente e corrotte” della storia del Paese, perché “la campagna si è svolta in una situazione in cui gli articoli fondamentali della Costituzione russa, che garantiscono i diritti e le libertà politiche, essenzialmente non erano in vigore”. In un messaggio dal carcere, l’oppositore Ilya Yashin ha scritto che Putin ha voluto una vittoria trionfale perché non può liberarsi dai “suoi complessi freudiani”.
Il vero obiettivo dell’operazione, ha aggiunto Yashin, è “far sprofondare nell’apatia quella parte della società che è contro la guerra”. A Mosca circolano intanto voci su possibili rimpasti nel governo per portare alla ribalta forze giovani. L’agenzia Reuters, citando quattro fonti vicine agli ambienti del potere, ha scritto che tra coloro che potrebbero avanzare di grado vi è il ministro dell’Agricoltura Dmitry Patrushev, 46 anni, figlio di Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale. Ma due delle fonti si dichiarano convinte che, almeno fino a quando durerà il conflitto in Ucraina, non saranno sostituiti né Lavrov, né il ministro della Difesa Serghei Shoigu, né il primo ministro Mikhail Mishustin.
Se la giustizia negli Stati Uniti è davvero uguale per tutti, Donald Trump potrebbe presto ritrovarsi in una situazione comune a milioni di americani che non vantano un passato da magnate dell’immobiliare ed ex inquilino della Casa Bianca. Il tycoon, infatti, non riesce a trovare una compagnia assicurativa che gli faccia da garante per la sanzione da 454 milioni di dollari stabilita dalla sentenza del processo a New York per gli asset gonfiati.
Trump ha fatto appello contro la decisione del giudice Arthur Ergoron e ora ha tempo fino al 25 marzo per depositare la somma altrimenti la procuratrice di Manhattan Letitia James potrà ordinare il sequestro dei suoi beni. Una sola settimana per evitare il tracollo e racimolare una somma che i legali del tycoon hanno definito “senza precedenti” per una compagnia assicurativa. “Una cauzione di queste dimensioni costituisce un abuso della legge, contraddice principi fondamentali della nostra Repubblica e mina fondamentalmente lo stato di diritto a New York”, ha attaccato in una nota il portavoce della campagna, Steven Cheung.
“Il presidente Trump continuerà a combattere e sconfiggere tutte queste bufale orchestrate da Joe Biden e renderà l’America di nuovo grande”. Gli avvocati del tycoon hanno già contattato oltre 30 compagnie assicurative ma il punto è che l’ex presidente non dispone di liquidità sufficiente ad ottenere la garanzia ovvero oltre 550 milioni di dollari in contanti, azioni e obbligazioni. Sebbene Trump si vanti spesso della sua ricchezza, il suo patrimonio netto deriva in gran parte dal valore dei beni immobili, che le compagnie assicurative raramente accettano come garanzia. Secondo una recente inchiesta del New York Times, il tycoon possiede al momento circa 350 milioni di dollari in contanti, una cifra notevole ma molto al di sotto di ciò di cui ha bisogno. A questo punto potrebbe decidere di rivolgersi alla Corte Suprema di New York per ottenere più tempo, ma legalmente la procuratrice potrebbe comunque dare il via all’esproprio.
La scadenza imminente non potrebbe arrivare in un momento peggiore per Trump. Proprio la scorsa settimana ha finalizzato la garanzia da 91,6 milioni di dollari nella causa per diffamazione recentemente persa contro lo scrittore E. Jean Carroll impegnando con il colosso delle assicurazioni Chubb un conto di investimento presso Charles Schwab. Si tratta, molto probabilmente, di oltre 100 milioni di dollari in contanti, azioni e obbligazioni che ovviamente ora non può più usare in questo altro caso.
Joe Biden è tornato a frenare Benyamin Netanyahu sull’annunciata operazione militare a Rafah mentre la Casa Bianca ha confermato la morte in un raid israeliano di Marwan Issa, numero 2 delle Brigate al Qassam e membro di rango di Hamas, dopo le indiscrezioni che filtravano da giorni. E all’ospedale Shifa di Gaza City si è consumata una battaglia finita con “20 terroristi” uccisi e oltre 200 arresti. Nel primo colloquio dopo oltre un mese di gelo, durato 45 minuti, il presidente Usa ha ribadito al premier israeliano che l’azione a Rafah sarebbe “un errore”.
E gli ha chiesto di inviare un team a Washington proprio per discutere di questo, richiesta alla quale Netanyahu ha acconsentito. Il premier ha tuttavia ribattuto che Israele intende “raggiungere tutti gli obiettivi della guerra”, di fatto confermando che l’operazione si farà: “L’eliminazione di Hamas, il rilascio di tutti gli ostaggi e la promessa che Gaza non rappresenterà più una minaccia per Israele” sono i punti irrinunciabili elencati da Netanyahu. Il pressing di Biden per scongiurare il raid nella città al confine con l’Egitto è motivata dalle preoccupazioni del presidente, “prima fra tutte per la sorte di un milione di persone” che vi hanno trovato rifugio scappando dal resto della Striscia.
“Rafah – ha spiegato il consigliere per la Sicurezza nazionale americana Jake Sullivan – è inoltre un importante punto di passaggio degli aiuti”. Dopo la conferma della morte di Issa – colpito lo scorso 8 marzo in un raid con bombe capaci di penetrare in profondità nel terreno in un bunker a Nuseirat – Israele continua intanto la caccia ad Hamas. L’Idf ha compiuto all’alba un blitz nell’ospedale di al Shifa, il più grande di Gaza, dove secondo informazioni dell’intelligence operavano miliziani armati e si nascondevano alti dirigenti della fazione islamica.
E’ stata un’operazione “mirata”, ha spiegato il portavoce militare, terminata con un bilancio di “20 terroristi uccisi”, compreso Faiq Mabhuoch, capo delle operazioni di sicurezza interna di Hamas e alto comandante della fazione islamica. Secondo la stessa fonte, sono state arrestate e interrogate oltre 200 persone sospette, tra cui un giornalista di al Jazeera di cui l’emittente qatarina ha chiesto l’immediata liberazione. Dal canto suo il ministero della Sanità di Hamas ha fatto appello alla comunità internazionale “a fermare immediatamente il massacro contro i malati, i feriti, gli sfollati e il personale medico all’interno dell’ospedale al-Shifa”, intrappolati “in due edifici” della struttura. E ha denunciato lo scoppio di un incendio nel nosocomio segnalando “casi di soffocamento tra donne e bambini che si trovano all’interno”.
Anche l’Oms ha espresso la sua forte preoccupazione per la situazione: “Gli ospedali non dovrebbero mai essere campi di battaglia”, ha dichiarato il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Intanto è arrivata in Qatar una delegazione guidata dal capo del Mossad David Barnea alla vigilia di negoziati indiretti tra le parti per una tregua nella Striscia e il rilascio dei circa 130 ostaggi israeliani ancora prigionieri. La trattativa di Doha, secondo una fonte israeliana, sarà “un processo lungo e complesso”: si calcolano almeno due settimane. L’ipotesi è quella di 42 giorni di tregua in cambio di 40 ostaggi israeliani. Al 164esimo giorno di guerra, la Fao ha previsto una situazione di carestia entro il prossimo maggio al nord della Striscia e non è escluso che si allarghi altrove. Il direttore generale dell’Unrwa Philippe Lazzarini ha annunciato che nella guerra sono state “distrutte oltre 150 strutture e 400 gli addetti uccisi”. E ha denunciato che Israele gli ha negato l’ingresso nella Striscia.