Negli ultimi 15 anni l’industria italiana e’ crollata, ha retto solo a Nordest che è cresciuto del 5,9%. E’ quanto sostiene la Cgia di Mestre in una sua rilecerca. Sebbene l’ industria in senso stretto contribuisca al Pil nazionale “solo” per il 21%, tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale dell’attività manifatturiera italiana è sceso dell’8,4%, in Francia del 4,4%, mentre in Germania la variazione è stata positiva e addirittura pari al +16,4%.
Tra i principali Paesi europei, solo la Spagna, con il -8,9%, ha registrato un risultato peggiore dell’Italia. Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, gli ultimi 15 sono stati gli anni più difficili per la gran parte dei Paesi occidentali. Per quanto concerne l’Italia, ad esempio, la grande recessione del 2008-2009, la crisi dei debiti sovrani del 2012-2013, la pandemia del 2020-2021 e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia avvenuta nel 2022 hanno profondamente cambiato il volto della nostra economia.
E’ comunque utile evidenziare che tra il 2019, anno che precede lo scoppio della più grande crisi economica/sanitaria avvenuta a partire dal secondo dopoguerra, e il 2022, il settore manifatturiero italiano ha realizzato un rimbalzo superiore a quello registrato nel resto degli altri principali Paesi Ue.
Nel 2023, spiega la ricerca di Cer per Confesercenti, “tassi di interesse ed inflazione hanno condizionato pesantemente i risultati a consuntivo dell’economia italiana, e il modesto aumento del prodotto interno lordo registrato nel 2023 è stato trainato esclusivamente dai consumi, in particolare quelli turistici, che hanno contribuito allo 0,7% di crescita del Pil. Ma per mantenere i livelli di spesa, le famiglie hanno risparmiato meno: la propensione al risparmio è scesa al 6,2% del reddito disponibile, la più bassa degli ultimi 35 anni”.
Le prospettive, però, prosegue la ricerca, restano incerte. Con una conferma dei provvedimenti anche nel 2025 la spesa delle famiglie aumenterebbe dello 0,7% con un Pil in crescita dell’1,1%. Un aumento che permetterebbe di recuperare finalmente, dopo 18 anni, i livelli dei consumi che si registravano prima della grande crisi finanziaria internazionale del 2007-2008. Senza taglio del cuneo, invece, le dinamiche positive rischiano di venire meno: in questo caso le simulazioni Confesercenti-CER mostrano che l’incremento dei consumi si abbasserebbe allo 0,2%, con un incremento del Pil fermo allo 0,8%.
Una mancata riconferma del provvedimento, dunque, si legge, “sarebbe una notizia preoccupante per le imprese che fanno riferimento al mercato interno. In primo luogo, quelle del commercio al dettaglio che già scontano l’impatto dell’inflazione, che costringe le famiglie a spendere di più per comprare di meno”: nel 2023 l’aumento dei prezzi ha portato ad un incremento delle vendite del +1,5% in valore, con una flessione però del 2,2% in volume, pari – secondo le stime Confesercenti – a circa 9 miliardi di euro di vendite mancate. “Sarebbe auspicabile – conclude Confesercenti – anche un’accelerazione della riforma fiscale: necessario, in particolare, detassare gli aumenti retributivi. Un intervento che darebbe una mano alla contrattazione e permetterebbe alle famiglie di recuperare più velocemente il potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione”.