Il sequestro di beni per un valore di 5 milioni di euro ad un imprenditore calabrese che in Toscana si occupa del settore rifiuti e che era stato arrestato nell’ambito dell’operazione Keu nell’aprile scorso, ha messo sotto i riflettori un problema serio: la presenza della criminalità di tipo mafioso, la ‘ndrangheta, nel tessuto economico della zona.
A dare l’allarma la Fondazione Caponnetto, “Siamo in una situazione di Red Alert”. “I rifiuti, spiega Salvatore Calleri, rimangono purtroppo un qualcosa che piace ai mafiosi e secondo le nostre analisi, in Italia e pure in Toscana ci sono il 95% di probabilità per gli imprenditori puliti di imbattersi in gruppi criminali. Continuiamo ad essere antipatici e ad avere ragione in relazione alle infiltrazioni criminali spesso mafiose che riguardano lo smaltimento illegale di rifiuti in Toscana”.
“Fermo restando il fatto che ovviamente fino a sentenza definitiva non bisogna criminalizzare nessuno, il sequestro di oggi, ad opera della Dia e dei Cc Forestali e del Noe, certifica l’interesse dei clan calabresi, in particolare del Grande Aracri, già dai noi segnalato, per il settore dei rifiuti. Questo sequestro, spiega il Presidente della Fondazione Caponnetto, è in continuità con l’inchiesta Keu e dimostra che nonostante sia piombato il silenzio sul caso, il lavoro di chi indaga continua. Battiamo un colpo e non sottovalutiamo la situazione. La Fondazione Antonino Caponnetto c’è ed è disposta a dare una mano per contrastare il fenomeno coi propri esperti. Basta volerlo”.
Ha ammesso il sequestro ma non l’orrore di avere deciso la soppressione del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. Il quadro non cambia ma, ridimensionando il suo ruolo, Matteo Messina Denaro ha cercato di mostrare il lato umano del più odioso dei crimini che gli vengono attribuiti. Se non lui allora chi ordinò quell’atroce delitto? Davanti al gip Alfredo Montalto, che lo interrogava, il boss ha scaricato tutto su Giovanni Brusca, da poco liberato dopo 25 anni di carcere. Fu lui, ha detto, a dare quell’ordine ripugnante. La storia di Giuseppe Di Matteo è passata attraverso un incredibile calvario durato più di due anni. Venne rapito, in un maneggio di Villabate, il 23 novembre 1993. Aveva solo 12 anni. I rapitori gli chiesero di seguirli per portarlo dal padre Santino, che non vedeva da tempo. Si presentarono come agnelli, ma subito si rivelarono lupi.
Con il sequestro la mafia voleva indurre il padre Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni. Nell’attesa di un ripensamento, che non ci fu, Giuseppe venne trasferito da una prigione all’altra nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento. La prima masseria nella quale fu portato, incappucciato e chiuso nel bagagliaio di un’auto, si trovava a Campobello di Mazara, il paese dell’ultimo covo di Messina Denaro. Il ragazzino trascorse qui un periodo della sua orribile prigionia nella casa di campagna di Giuseppe Costa, fedelissimo del boss. Era l’inizio di un calvario durato oltre due anni. Si concluse in un casolare-bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato l’11 gennaio 1996 quando Brusca ordinò di farla finita.
Di Giuseppe Di Matteo non è rimasta neppure una traccia. Ma la sua memoria, che in questi anni non si è mai affievolita, verrà rinnovata con un atto simbolico: a Castelvetrano sarà intitolata a lui la scuola elementare che Messina Denaro frequentò da bambino. L’interrogatorio del boss non ha sciolto per ora nessun altro nodo dell’inchiesta seguita all’arresto tra cui quello del ruolo della sorella Rosalia, la persona più vicina a Messina Denaro: era lei che teneva la cassa, aggiornava la contabilità, custodiva un migliaio di pizzini nei quali si ritrovano tutti o quasi tutti i personaggi del cerchio magico del boss, amanti comprese. La donna non ha finora aperto bocca e il tribunale del riesame ha respinto la sua istanza di scarcerazione. Resta in cella e pagherà pure le spese. Dal carcere dell’Aquila, intanto, arrivano notizie buone sulle condizioni di salute del padrino: ha concluso il ciclo di chemio e sta assumendo farmaci. Esami e controlli comunque continuano.
E’ coetaneo della vittima, figlio di un camorrista assassinato in un agguato, il giovane che la notte tra domenica e lunedì scorsi, a Napoli, ha ucciso, per futili motivi, Francesco Pio Maimone, il 19enne gravemente ferito con un colpo di pistola al petto mentre si trovava nei pressi di un noto chioschetto del lungomare partenopeo, zona che nel weekend diventa meta privilegiata della gioventù napoletana. Inutile la corsa in ospedale dove il ragazzo è giunto già senza vita. Le indagini degli investigatori della Squadra mobile della Questura di Napoli, coordinate dal primo dirigente Alfredo Fabbrocini e dai sostituti procuratori Claudio Onorati e Antonella Fratello (quest’ultima magistrato in forza alla Direzione distrettuale antimafia), sono state rapidissime. Al giovane, Francesco Pio Valda, figlio di Ciro, affiliato al clan Cuccaro, ucciso in agguato 23 gennaio 2013, viene contestato il reato di omicidio volontario aggravato dalle modalità mafiose. Determinanti, per l’individuazione, i testimoni e la videosorveglianza che in quella zona è capillare. Dopo la tragedia Valda si è reso irreperibile ma è stato rintracciato oggi dalla Squadra mobile e dal commissariato San Giovanni nell’abitazione di alcuni conoscenti, nel quartiere di Ponticelli della città.
Oggi, a Casal di Principe, anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato il grave episodio: “Ieri a Napoli un ragazzo è stato ucciso con una crudeltà che ha sottratto a lui il futuro e lasciato nel dolore i suoi famigliari”. Il padre del ragazzo, dopo avere ringraziato il capo dello Stato, ha chiesto a Mattarella di aprire “uno spiraglio” affinché i giovani di Napoli possano avere “un futuro migliore, una vita diversa, perché questa vita non li porta da nessuna parte”, ha detto. Francesco Pio con quell’alterco che ha visto fronteggiarsi due gruppi di ragazzi, forse scoppiato per un piede pestato, forse per una bevanda versata sulle scarpe, non aveva nulla a che fare. Uno dei colpi di pistola esplosi da Valda – due o tre quelli avvertiti da una pattuglia della Guardia di finanza che ha avvisato la Polizia – gli ha spezzato la vita e il sogno di aprire una pizzeria tutta sua. Conoscenti lo hanno subito accompagnato all’ospedale Vecchio Pellegrini dove i sanitari non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Nel frattempo sul lungomare arrivava l’ambulanza del 118, ma lui già non c’era più. Chi ha assistito alla tragedia ha descritto la scena agli investigatori: il ragazzo che estrae il revolver, spara, prima in aria poi ad altezza d’uomo. Francesco Pio si accascia tra la folla di giovani tra l’attonito e il terrorizzato. La Procura già ieri aveva disposto il sequestro della salma sulla quale sarà eseguita l’autopsia. A raccontare chi era il figlio e quali fossero le sue aspirazioni è stata la madre, Concetta Napoletano, intervistata ieri da diversi media: “un ragazzo d’oro, un lavoratore”, dice devastata dal dolore la donna che chiede “giustizia” per Francesco Pio ma anche “per tutti i figli di Napoli morti senza un motivo”.
“Battere la mafia è possibile. Lo diceva Giovanni Falcone: la mafia non è affatto invincibile. E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Sergio Mattarella arriva a Casal di Principe con un messaggio di fiducia dedicato soprattutto ai giovani nati in una terra nel passato sfregiata dalla camorra ed oggi simbolo di una rinascita che sembrava impensabile. Accolto con emozione dalle autorità locali e con calore dai tanti studenti che lo aspettavano, il presidente della Repubblica ha incarnato – con la sua presenza e le sue parole – la voglia di riscatto di un intero territorio che ha avuto il suo simbolo negativo nell’omicidio di don Diana, assassinato nel 1994 all’interno della sua chiesa di San Nicola di Bari.
“Don Peppino era un uomo coraggioso, un pastore esemplare, un figlio della sua terra, un eroe dei nostri tempi, che ha pagato il prezzo più alto, quello della propria vita, per aver denunciato il cancro della camorra e per aver invitato le coscienze alla ribellione”, ha spiegato il capo dello Stato nella giornata dedicata alle vittime della mafia. Mentre a Milano sfilavano circa 70 mila persone per la manifestazione antimafia organizzata da “Libera” di don Ciotti, molto più a sud Mattarella poteva toccare con mano quanta acqua sia passata sotto i ponti dai tempi dei “casalesi”. Terra dei Fuochi certo, terra difficile ma oggi Casal di Principe è “protagonista di una stagione straordinaria di fermento e di riscatto”. Proprio l’omicidio di don Peppino Diana “è stato un detonatore di coraggio e di desiderio di riscatto. Ha prodotto un’ondata di sdegno, di partecipazione civile, una vera battaglia di promozione della legalità”.
Dopo aver spronato i giovani a prendere il “testimone” di don Diana, Mattarella ha continuato a rivolgersi ai tanti che lo hanno circondato ad ogni passo invitandoli ad “essere fieri di essere nati in questa terra, che ha saputo compiere questa grande rinascita”. E li ha esortati ad abbandonare i “pregiudizi”, a studiare tanto visto che “i mafiosi temono di più la scuola che i giudici, perché l’istruzione taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Fin qui la fiducia che il capo dello Stato ha voluto iniettare in un campo che sembra già ben seminato, ma le sue parole di condanna sono state durissime: “la mafia è violenza ma, anzitutto, viltà. I mafiosi non hanno nessun senso dell’onore né coraggio. Si presentano forti con i deboli. Uccidono persone disarmate, organizzano attentati indiscriminati, non si fermano davanti a donne e a bambini. Si nascondono nell’oscurità”. Per questo, ha aggiunto, “le mafie temono i liberi cittadini. Vogliono persone asservite, senza il gusto della libertà. Le mafie sono presenti in tutte le attività più turpi e dannose per la comunità: la prostituzione, il traffico di esseri umani, di rifiuti tossici, il caporalato, il commercio di armi, quello strumento di morte che è la droga, lasciando nel territorio povertà e disperazione”.
Da qui una conseguente riflessione sulla cosiddetta zona grigia, quella di chi osserva e tace, che troppo ancora permette agibilità ai mafiosi: “la lotta alle mafie riguarda tutti, ciascuno di noi. Non si può restare indifferenti, non si può dire: non mi riguarda. O si respingono con nettezza i metodi mafiosi o, anche inconsapevolmente, si rischia di diventarne complici”. Difficile far finta di non capire il senso di queste parole che Mattarella accompagna con un richiamo che chiude il cerchio: “tutte le amministrazioni pubbliche devono far sentire con efficacia la loro presenza accanto ai cittadini. Insieme a tutte le espressioni della società civile. La politica sia autorevole nel dare risposte alle emergenze e ai problemi socio-economici dei territori”. Perchè la mafia si può vincere ma non si può smettere di “vigilare. La criminalità organizzata è capace di vivere nascosta, pronta a rialzare la testa al minimo sintomo di cedimento”.