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Iraq, i militari italiani restano ma in 40 lasciano la base Usa per ragioni di sicurezza

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I militari italiani restano in Iraq, ma circa 40 vanno via dal compound americano Union 3, al centro di Baghdad, a pochi metri dall’ambasciata Usa. La base non e’ piu’ sicura dopo la tensione innescata dall’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, centrato da un drone proprio nella capitale irachena. Ed il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, in un colloquio definito “articolato e franco” con il collega Usa Mark Esper, ha invitato l’alleato “alla moderazione, al dialogo ed al senso di responsabilita’” ed a coordinarsi in futuro per “poter continuare l’impegno della coalizione anti-Daesh all’interno di una cornice di sicurezza per i nostri militari”. Da parte sua, Esper ha ringraziato il ministro (‘thank you minister Guerini’, ha twittato ndr) e ha definito “importante” la decisione dell’Italia di restare in Iraq, ribadendo che gli americani non vogliono lasciare il Paese. Ma il blitz Usa contro Soleimani ha provocato una serie di decisioni. La Nato ha annunciato il ritiro temporaneo di parte del suo personale schierato nel Paese mediorientale. Analoga decisione da parte della Germania, del Canada e della Croazia. I francesi, come gli italiani, invece resteranno. Union 3 ospita il comando della coalizione internazionale anti-Isis impegnata nell’operazione ‘Inherent resolve’: circa 1.800 militari di vari Paesi presenti. La base e’ ora piu’ che mai un possibile obiettivo di attacchi ed i vertici della coalizione hanno pianificato la dislocazione di parte degli assetti per motivi di sicurezza. Gli italiani interessati dal trasferimento sono una quarantina, a quanto si apprende: in prevalenza carabinieri, piu’ alcuni soldati dello staff del comandate del contingente nazionale, generale Paolo Attilio Fortezza; circa 30 sono stati portati in luoghi piu’ protetti, sempre nella capitale; dieci ad Erbil. Lo Stato Maggiore della Difesa ha spiegato che la pausa delle attivita’ addestrative e la dislocazione dei militari rientrano “nei piani di contingenza per la salvaguardia del personale impiegato”. Dunque, nessuna interruzione “della missione e degli impegni presi con la coalizione” ma una decisione che dipende “dalle misure di sicurezza adottate”. L’allertamento e le misure di sicurezza, viene precisato, “sono decise a livello di coalizione internazionale in coordinamento con le varie nazioni partner”. Sul problema sicurezza Guerini ha insistito anche nel suo colloquio con Esper. “Con circa 1000 uomini in Iraq, oltre 1000 in Libano nella missione Unifil e poco meno di 1000 in Afghanistan – ha ricordato – l’Italia e’ fra i Paesi piu’ impegnati per la stabilita’ della regione”. E’ dunque importante, ha sottolineato, “far fronte in maniera coordinata agli sviluppi futuri” per continuare l’impegno in “una cornice di sicurezza per i nostri militari”. Le priorita’ per l’Italia, ha sottolineato, “sono la stabilita’ della regione e dell’Iraq e la necessita’ di mettere in atto ogni sforzo per preservare i risultati della lotta a Daesh conseguiti in questi anni”. Dopo gli Usa l’Italia e’ il Paese che fornisce il maggior numero di militari alla coalizione. Sono poco piu’ di 900: un terzo e’ schierato in Kuwait, il resto in Iraq, tra Erbil – dove 450 militari italiani addestrano i peshmerga curdi – Kirkuk (una novantina) e Baghdad (una cinquantina, in prevalenza impegnati nella Task Force Police che addestra le forze di sicurezza irachene). E insieme all’Iraq, ci sono altre tre missioni che preoccupano i vertici militari italiani: Libia, Libano ed Afghanistan. Per ora i contingenti restano nei teatri, ma le misure di sicurezza sono state innalzate ai massimi livelli: ridotte le uscite e controlli rigidi all’ingresso dei compound.

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‘Chora è una moschea’, scintille Erdogan-Mitsotakis

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La moschea di Kariye a Istanbul, un tempo chiesa ortodossa di San Salvatore in Chora e tesoro del patrimonio bizantino, diventa tempio della discordia tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier greco Kyriakos Mitsotakis, nel giorno della visita del leader ellenico ad Ankara proprio per confermare la stagione di buon vicinato tra i due Paesi dopo decenni di tensioni. Le divergenze sulla moschea si sono riaccese nei giorni scorsi, dopo che il 6 maggio scorso San Salvatore in Chora, chiesa risalente al V secolo e tra i più importanti esempi dell’architettura bizantina di Istanbul, è stata riaperta dopo lavori di restauro durati quattro anni.

Convertita in moschea mezzo secolo dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani del 1453, Chora è stata trasformata in un museo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Turchia cercò di creare una repubblica laica dalle ceneri dell’Impero Ottomano. Ma nel 2020 è nuovamente diventata una moschea su impulso di Erdogan, poco dopo la decisione del presidente di riconvertire in moschea anche Santa Sofia, che come Chora era stata trasformata in un museo. La riapertura aveva suscitato malcontento ad Atene, con Mitsotakis che aveva definito la conversione della chiesa come “un messaggio negativo” e promesso alla vigilia del suo viaggio ad Ankara di chiedere a Erdogan di tornare sui suoi passi in merito. Una richiesta respinta al mittente: “La moschea Kariye nella sua nuova identità resta aperta a tutti”, ha confermato Erdogan in conferenza stampa accanto a Mitsotakis.

“Come ho detto al premier greco, abbiamo aperto al culto e alle visite la nostra moschea dopo un attento lavoro di restauro in conformità con la decisione che abbiamo preso nel 2020”, ha sottolineato. “Ho discusso con Erdogan della conversione della chiesa di San Salvatore in Chora e gli ho espresso la mia insoddisfazione”, ha indicato in risposta il leader greco, aggiungendo che questo “tesoro culturale” deve “rimanere accessibile a tutti i visitatori”. Nulla di fatto dunque sul tentativo di Atene di riscrivere il destino del luogo di culto. Ma nonostante le divergenze in merito, la visita di Mitsotakis ad Ankara segna un nuovo passo nel cammino di normalizzazione intrapreso dai due Paesi, contrapposti sulla questione cipriota e rivali nel Mediterraneo orientale. A dicembre i due leader hanno firmato una dichiarazione di “buon vicinato” per sancire una fase di calma nei rapporti iniziata dopo il terremoto che ha ucciso più di 50.000 persone nel sud-est della Turchia, all’inizio del 2023. “Oggi abbiamo dimostrato che accanto ai nostri disaccordi possiamo scrivere una pagina parallela su ciò che ci trova d’accordo”, ha sottolineato Mitsotakis accanto a Erdogan, confermando la volontà di “intensificare i contatti bilaterali”. Perché “l’oggi non deve rimanere prigioniero del passato”.

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Un video per raccontare la lotta al tumore ovarico

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Le donne colpite dal tumore ovarico raccontano, condividono le loro paure, le loro speranza e allo stesso tempo chiedono maggiore attenzione verso questa grave patologia. L’iniziativa è realizzata dalle donne dell’associazione ALTo attraverso un video che da oggi, in occasione della Giornata mondiale contro il tumore ovarico, è disponibile su You Tube.

Il tumore ovarico è il settimo tumore più comune tra le donne a livello mondiale e costituisce l’ottava causa di morte per cancro femminile. Solo in Italia sono circa 6mila le donne che ogni anno ricevono una diagnosi di tumore ovarico. “Ogni donna che combatte contro il cancro ovarico ha una storia unica da raccontare e attraverso questo video vogliamo dare loro voce – spiega Maria Teresa Cafasso, presidente dell’Associazione ALTo – vogliamo mostrare al mondo intero la loro forza e determinazione e allo stesso tempo sensibilizzare sull’importanza della conoscenza precoce, dell’accesso ai trattamenti e della necessità di approvare nuovi farmaci per la cura delle frequenti recidive che spesso colpiscono le donne affette da questa malattia”.

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Nell’inchiesta su Toti l’ombra di una talpa

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Nell’inchiesta sul presunto comitato d’affari e corruzione che ha portato all’arresto (ai domiciliari) del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti spunta l’ombra di una talpa. E’ un aspetto su cui lavorano gli investigatori della guardia di finanza, coordinati dai pm Federico Manotti e Luca Monteverde, alla luce di quanto emerso dalle intercettazioni ambientali.

E’ il 30 settembre 2020. I fratelli Arturo Angelo Testa e Italo Maurizio Testa, iscritti a Forza Italia in Lombardia e da ieri sospesi dal partito, vengono a Genova per incontrarsi con alcune persone della comunità riesina. A quell’incontro si avvicina un uomo con la felpa e il cappellino.

“Viene riconosciuto in Umberto Lo Grasso (consigliere comunale totiano). Che dice a Italo Testa: “Vedi che stanno indagando, non fate nomi e non parlate al telefono …. Stanno indagando”. In tutta risposta Italo Maurizio Testa afferma: “si lo so, non ti preoccupare …. L’ho stutato (“spento” in dialetto siciliano, ndr)”. Questa condotta, scrive il giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni, “appare in tal modo integrare il delitto di favoreggiamento personale, avendo il predetto – avvisando i fratelli Testa a non parlare al telefono essendo in corso indagini (“stanno indagando”) – fornito un aiuto in favore dei predetti ad eludere le investigazioni a loro carico”.

Ma chi ha avvisato Lo Grasso? Una ipotesi è che vi sia appunto una talpa visto che Stefano Anzalone, totiano anche lui e indagato nell’inchiesta, è un ex poliziotto che ha dunque agganci tra le forze dell’ordine. L’altra ipotesi è che si possa trattare di una sorta di millanteria dello stesso Anzalone che dopo le elezioni voleva togliersi di torno i fratelli Testa e non onorare le promesse fatte in cambio dei voti.

Tutti gli indagati citati in questo articolo sono da considerare presunti innocenti.

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