E’ in una nuova formazione geopolitica, correntemente denominata Indo-Pacifico, che si gioca la partita cruciale del riassetto globalitario del mondo. Come, a quali velocità, in quali differenziate spazialità, seguendo quali percorsi transcalari, e come funzionerà la macchina delle produzioni economiche, delle strategie politiche, delle innovazioni tecnologiche, delle espansioni culturali? Insomma, come si profilerà “l’egemonia” intuita da A. Gramsci nel corso di questo XXI secolo, e quale sarà la sua cartografia? Come si distribuirà sulla superficie terrestre, con quali effetti locali? Chi, quando e in che modo pagherà la fattura? Quale sarà la nuova geografia della ricchezza e della povertà, dove sarà la gente con un’aspettativa di vita alla nascita di un secolo e coloro che arriveranno a malapena, se tutto va bene, alla metà degli anni?
In questa ottica è vitale per gli Stati Uniti, il principale player dell’Indo-Pacifico insieme alla Cina, smantellare una volta per tutte la possibilità di una qualsiasi saldatura tra l’Unione Europea e la Russia: saldatura volta a formare quella che il geografo inglese Halford Mackinder chiamava Heartland, sostenendo che il controllo dell’Heartland, appunto, avrebbe consentito il controllo del mondo. Il disegno americano sta avendo successo a quanto pare, se traguardiamo la guerra che si combatte fisicamente in Ucraina alla luce della geopolitica dell’Indo-Pacifico. L’indebolimento dell’UE e della Russia è di tutta evidenza. Così come profondo e, nel lungo periodo, perfino drammatico è il fossato di incomprensione e finanche di odio (la russofobia!), che si sta scavando tra questi due spazi geopolitici, Europa ed Eurasia. I quali cessano, in tal modo, di essere competitivi sulla scena mondiale, iniettando il dubbio che possano persino mantenere intatta la loro sovranità.
In tale contesto, si posizionano nuovi player. Tra i primi, l’India e il Brasile, ossia in pratica quel che resta del BRICS, il blocco di grandi Paesi comprendente il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica. L’India e il Brasile, così, diventano punti di riferimento di quanti non hanno voglia di prendere posizione tra USA e Cina. E men che meno intendono riconoscersi nei “valori dominanti” di un Occidente che, alleando ”la guerra e la virtù”, come sostiene il ricercatore e giornalista americano C. Mott su “Le Monde diplomatique” di gennaio, ha una irrefrenabile tendenza a spacciare per “considerazioni virtuose”, appunto, di portata universalistica (diritto dei popoli, difesa della libertà), quelle che sono soltanto le sue ambizioni strategiche e le sue proiezioni economiche.
Accanto a questi, si muovono anche attori minori, per riqualificare nei nuovi scenari i loro ruoli regionali. Alcuni sono ben visibili, come i Paesi islamici, seppure di diversa osservanza, quali la Turchia, l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo, l’Iran. Quest’ultimo tenta di uscire in tutti i modi dall’isolamento in cui l’ha cacciato la sua politica repressiva e lancia reti ovunque può pescare: ad esempio favorendo intese con il Venezuela, altro grande produttore di risorse energetiche. Altri attori sono più discreti, ma non per questo meno importanti. In piena area indo-pacifica, ad esempio, è in atto il riarmo giapponese, che segna la rimozione di un autentico tabù –come il riarmo tedesco, del resto- dopo la disastrosa conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Nonostante la sua Costituzione espressamente pacifista che all’art. 9 proclama di “rinunciare per sempre alla guerra”, il Giappone conta ormai di raddoppiare le spese militari in cinque anni, portandole al 2% di un PIL che vale tre volte quello italiano ed è il terzo al mondo, dopo quello statunitense e quello cinese. Un programma, quello nipponico, che più d’un osservatore reputa “oneroso e controverso”, oltretutto privo di un adeguato piano finanziario. Ma un altro player indo-pacifico di notevole importanza, la Corea del Sud, si preoccupa del militarismo giapponese in ascesa.
A Seul si invocano misure “preventive” per contrastare la nuova linea di Tokyo. Senza risparmiare critiche agli USA che non riescono ad armonizzare le alleanze di cui sono perno, con entrambi i Paesi. Washington ha una decina di basi militari nell’Indo-Pacifico, senza contare quelle in suolo statunitense (Guam, Hawaii): dall’Australia alla Malesia, dalla Papuasia alle Filippine. Le più importanti si trovano appunto in Giappone, (2 basi, con 56.000 soldati) e una in Corea del sud, con più o meno la metà degli effettivi. L’Australia, tradizionale “gendarme” dell’Occidente che chiude a Sud l’Indo-Pacifico, moltiplica le sue spese militari, a fronte di una crescita stagnante (0,9% nel 2022) e di un’inflazione che ha superato il 6%. In più, l’isola-continente del Pacifico Sud deve affrontare nell’ambito dell’alleanza AUKUS con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, una contraddizione patente nei riguardi della Cina, che è il primo partner commerciale e il più incombente dei suoi potenziali nemici.
Nel frattempo, la Corea del Nord ha buon gioco nel sostenere, in un’area che si avvia a diventare un vero e proprio arsenale, il suo diritto alla difesa, con lo sviluppo dei programmi missilistici. Dal loro canto, la Cina e la Russia, che in tempi diversi hanno subito la dolorosa morsa dell’imperialismo del Sol Levante, non stanno certo solo a guardare…..