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Cultura

L’India di Ghandi tradita dalla politica nel mondo post-covid tra immense povertà, nazionalismo, autoritarismo e giochi di guerra

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Possiamo far finta di niente, ma l’India ci riguarda. Molto da vicino. Certo, certo. L’attenzione è puntata sui due scenari maggiori che si disputano l’ordine del mondo post-covid: la salute pubblica e l’economia. Si capisce fin troppo bene il perché. Eppure, un terzo scenario va imponendo la sua pregnanza in questa crisi già così complessa. Si tratta della geopolitica, ossia l’insieme delle condizioni in cui avranno corso le relazioni internazionali nei prossimi mesi, con molteplici conseguenze a lungo termine, non sempre prevedibili. 

Per questo vale la pena continuare nella presentazione delle “schede” che tentano di inquadrare le prospettive in cui gli attori principali andranno a muoversi, cercando di trarre il massimo vantaggio dalle condizioni di gioco. E ciò, non solo in rapporto agli “interessi nazionali”, ma altresì in rapporto agli interessi dei guppi dirigenti: singole personalità, partiti politici, istituzioni di controllo, gruppi di pressione, conglomerati economici. Queste costellazioni di potere evidentemente intendono rafforzarsi, rendere sempre più stabile e prolungare la propria permanenza nelle posizioni di comando.

          Dopo la Russia e la Cina, gettiamo così uno sguardo all’India. Stiamo parlando del 3° Paese al mondo per numero di contagiati e ricoverati per coronavirus, 5° per numero di morti. E, sull’altro versante, stiamo parlando del 5° produttore di ricchezza nazionale annua, a ridosso della Germania, tuttavia con diseguaglianze sociali spaventose, che lo pongono ben al 152 posto per reddito pro-capite. E portatore di un capitalismo globalitario particolarmente spregiudicato, come mostra qui da noi ArcelorMittal, con la questione dell’Ilva: altro che “invasione mite” come sostenne una decina d’anni fa la scrittrice americana di origini indiane Mira Kamdar, con qualche venatura di fin troppo facile romanticismo.

Con i suoi 1,4 miliardi di abitanti, è lo Stato più densamente popolato al mondo dopo la Cina. Questi due Paesi, culle di due tra le civiltà più antiche, sofisticate e affascinanti del mondo, sono confinanti ma non coltivano affatto rapporti di buon vicinato. Su antiche ruggini si innestano nuovi contenziosi, per impulso dell’ideologia nazionalista che ha portato a Delhi l’attuale premier Narendra Modi, leader del Partito del Popolo Indiano, a sua volta punta di lancia della destra nel sub-continente.

Narendra Modi. Primo Ministro e leader del Partito del Popolo Indiano 

          Di fatto l’India si sente in guerra con la Cina: un conflitto aperto e totale. Intanto una guerra d’armi che ha il suo epicentro nei remoti spazi himalayani dove, a 4.200 m di altitudine, si fronteggiano le due armate. L’odio che i contendenti accumulano reciprocamente dal lontano 1962, termine di un’altra guerra, è esploso da ultimo il 15 giugno scorso. E, pensate un po’, per rispettare alla lettera il “cessate il fuoco” imposto dai trattati internazionali, i soldati si sono affrontati a mani nude, senza sparare un colpo. Risultato: 20 morti da parte indiana, un numero imprecisato perché non dichiarato, da parte cinese. Modi si è subito recato sui luoghi, si capisce, per dare quella testimonianza di patriottismo che i suoi sostenitori anti-musulmani, anti-cinesi e anti-tutti si aspettano da lui, come fosse l’unica faccenda che veramente conti: altro che miseria e covid! C’è andato naturalmente accompagnato dal suo braccio esecutivo, il generale Bipin Rawat, capo di stato maggiore delle armate indiane. Il militare sembra dettare la linea al governo col suo linguaggio bellicista e, per di più,  iper-sovranista: è lui che parla addirittura di un “vaccino indiano” che darà al Paese l’orgoglio di aver sconfitto il coronavirus in nome e a vantaggio del mondo intero. Sì avete capito bene: la geopolitica ridotta a una farsa, che l’assenza di politiche pubbliche idonee a fronteggiare l’epidemia rende prospettiva unica possibile per Nuova Delhi. Nel frattempo, Rawat coordina le forze di terra, di mare e dell’aria -come si diceva un tempo e come quelli che giocano alla guerra ancora dicono riempiendosi la bocca- per lanciarle all’attacco del nemico cinese, pronto a discendere lo Stretto di Malacca attraverso cui si accede dall’Oceano Indiano al Mar di Cina. 

          Ma la guerra è globale, abbiamo detto. La scorsa settimana Delhi ha vietato ben 59 app cinesi, tra cui le popolarissime Weibo, WeChat e, soprattutto, TikTok: 120 milioni di utenti, il più grande mercato del mondo. Del resto, i 2/3 del mercato indiano dei telefonini è coperto da cellulari cinesi. Il linguaggio delle autorità è dei più espliciti: “la nostra decisione intende assicurare la sicurezza e la sovranità del cyberspazio indiano…giacché queste applicazioni portano pregiudizio all’integrità dell’India, alla sua difesa, alla sicurezza dello Stato e all’ordine pubblico”.  Miele acustico per le orecchie di Trump: un asse Nuova Delhi-Washington in funzione anti-Pekino si va profilando con una nettezza  e un’aggressività sempre più marcata. 

        Questa guerra commerciale, del resto, investe anche i preparati di base che l’India importa dalla Cina per fabbricare i medicinali efficaci e a basso costo per i quali la sua industria farmaceutica primeggia sui mercati mondiali. Temendo che la Cina possa bloccare o in qualche modo rallentare i rifornimenti per questa che è considerata un’industria strategica, Delhi vuole provare a produrseli da sola. 

          Frattanto, il confinamento drastico e generalizzato dei mesi scorsi ha inchiodato milioni di migranti nelle grandi megalopoli dove a getto continuo si riversano per vivere dei piccoli mestieri, alla giornata. Niente più lavoro, nessuna alternativa al giaciglio di strada, niente da mangiare. La carità arriva dove può, le organizzazioni internazionali di aiuto e di soccorso sono allo stremo. Lo Stato, soddisfatto della sua arroganza populista, è assente. Questa gente riprende la via di casa con disperazione, a piedi perché gli autobus e i treni sono fermi. Migliaia di Km verso i loro Stati d’origine: Uttar Pradesh, Bihar, i più poveri dell’India. Lo spirito di Gandhi è qui, e non si rassegna: ma la politica tradisce…

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Nei papiri di Ercolano il luogo di sepoltura di Platone

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Dai papiri di Ercolano riemerge il luogo esatto della sepoltura di Platone nell’Accademia ad Atene: era situato nel giardino a lui riservato (un’area privata destinata alla scuola platonica) vicino al cosiddetto Museion o sacello sacro alle Muse. Lo rivela il papirologo Graziano Ranocchia dell’Università di Pisa, presentando alla Biblioteca Nazionale di Napoli i risultati di medio termine del progetto di ricerca ‘GreekSchools’ condotto con il Consiglio Nazionale delle Ricerche. La scoperta è racchiusa in mille parole nuove o diversamente lette del papiro contenente la Storia dell’Accademia di Filodemo di Gadara.

L’aumento del testo (pari al 30% in più rispetto alla precedente edizione del 1991) corrisponde all’incirca alla scoperta di 10 nuovi frammenti di papiro di media grandezza. Il testo rivela che Platone fu venduto come schiavo sull’isola di Egina già forse nel 404 a.C., quando gli Spartani conquistarono l’isola o, in alternativa nel 399 a.C., subito dopo la morte di Socrate.

Finora si era creduto che Platone fosse stato venduto come schiavo nel 387 a.C. durante il suo soggiorno in Sicilia alla corte di Dionisio I di Siracusa. I testi parlano anche della sua ultima notte, ma non solo. Diverse nuove letture forniscono un nuovo quadro delle circostanze della corruzione dell’oracolo di Delfi da parte del filosofo accademico Eraclide Pontico. Viene inoltre corretto il nome di Filone di Larissa in ‘Filione’ (allievo del grammatico Apollodoro di Atene per due anni e dello stoico Mnesarco per sette anni), che morì a 63 anni in Italia durante una pandemia influenzale.

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La Giornata del Libro con Maraini, tra letture e rose

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Incontri con scrittori, reading, presentazioni di libri, letture condivise, spettacoli, convegni. Esplodono le iniziative per la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, istituita dall’Unesco, che si celebra il 23 aprile, giorno della scomparsa di Shakespeare, Cervantes e Garcilaso de la Vega, tra i sommi autori della letteratura universale. In Catalogna si festeggia San Giorgio (Sant Jordi) ed è tradizione che il 23 aprile gli uomini regalino una rosa alle donne e vengano contraccambiati con un libro. Dall’Italia parte ‘Una nave di libri per Barcellona’ che in questa edizione, la XII, ha a bordo oltre 500 passeggeri in viaggio da Civitavecchia per raggiungere la capitale della Catalogna che è un trionfo di rose e di libri.

A bordo della nave, con ospite d’onore lo scrittore spagnolo Juan Gomez Barcena, scrittori e artisti fra i quali Gabriella Genisi, Giampaolo Simi, Roberto Riccardi, Carola Carulli, Anna Maria Gehnyei, Peppe Millanta e Francesca Andronico. La cantautrice Patrizia Cirulli, che ha musicato e interpretato poesie di Garcia Lorca, Frida Kahlo, Quasimodo, D’Annunzio, Alda Merini, Eduardo De Filippo, duetterà con l’attore Gino Manfredi che leggerà alcuni brani di questi grandi poeti. Nella Giornata mondiale del libro si alza anche il sipario sulla quattordicesima edizione del Maggio dei Libri con la regina della letteratura italiana, Dacia Maraini, che il 23 aprile sarà in dialogo, al Centro per il Libro e la Lettura a Roma, con il professore e saggista Guido Vitiello, che alla lettura ha dedicato il suo ultimo lavoro, La lettura felice (Il Saggiatore). A fare gli onori di casa il presidente del Cepell Adriano Monti Buzzetti e il direttore Luciano Lanna.

Il 23 aprile è un importante nastro di partenza anche per l’inaugurazione a Strasburgo, città simbolo e casa dell’Unione Europea, del suo 2024 in veste di Capitale mondiale del Libro Unesco 2024: il 26 aprile ci sarà una serata speciale dedicata ai libri italiani condotta dalla scrittrice e insegnante Kareen De Martin Pinter. Organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo, l’appuntamento si inserisce nella Grande Lettura che sarà il filo conduttore della settimana inaugurale (23-28 aprile) di Strasbourg, Capitale Mondiale del Libro Unesco. La lettura è protagonista, tra Giornata mondiale e Salone del Libro, dal 9 al 13 maggio a Torino, delle iniziative di TikTok che l’11 maggio al Lingotto annuncerà i vincitori della prima edizione dei TikTok Book Awards. Negli ultimi anni, #BookTok ha catturato l’attenzione con quasi 32 milioni di post creati utilizzando l’hashtag, ma quest’anno l’orizzonte si amplia al SalTo24 intrecciandosi con le 7 aree tematiche del Salone approfondite con alcuni live di conversazioni e interviste.

Tra gli eventi in tutta Italia spiccano quelli di Torino che legge, la manifestazione nata per celebrare la Giornata mondiale del Libro, organizzata dal Forum del Libro con la Città di Torino, le Biblioteche civiche e le circoscrizioni, dedicata quest’anno alla lettura ad alta voce condivisa. Per la Giornata arriva anche Bing Bunny, protagonista di una delle serie animate più amata dai bambini e dalle bambine in età prescolare, con 5 miliardi di visualizzazioni su YouTube, che sarà al centro di una campagna di sensibilizzazione e promozione della lettura condivisa.

Il gioiellino è il focus di Nati per Leggere sulla lettura in famiglia fin da piccoli, e prima ancora nella pancia della mamma che “è una delle più semplici pratiche quotidiane che un genitore può adottare per far crescere bene il proprio bambino o la propria bambina” con consigli di lettura a seconda delle fasce d’età. Per esempio dai 3-4 anni, i bambini amano molto le storie che parlano della vita quotidiana, in cui possono confrontarsi con la loro realtà di gioco, di scuola, di esperienza. Il progetto promosso dall’idolo Bing si chiama Le buone abitudini e ha già coinvolto oltre 8 milioni di famiglie italiane nella promozione del benessere dei bambini 0-6 anni.

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Cambio al vertice della Scala, arriva Ortombina

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Se ne va Dominique Meyer e arriva Fortunato Ortombina, resta Riccardo Chailly fino al 2026 per poi passare il testimone, anzi la bacchetta, a Daniele Gatti: sulla futura guida della Scala “finalmente è arrivata una decisione”. “Finalmente” è l’aggettivo usato dal sindaco di Milano Giuseppe Sala in apertura della conferenza stampa con cui ha annunciato la scelta come sovrintendente di Ortombina, a conclusione di una vicenda lunga oltre un anno, andata avanti a indiscrezioni, veti, decreti legge e colpi di scena. “Una soluzione eccellente, frutto di una collaborazione istituzionale” ha detto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, con cui inizia “una fase nuova” che segna il ritorno di un sovrintendente italiano dopo tre stranieri. “Abbiamo fatto tutto per il bene della Scala” ha assicurato Sala.

Mantovano, classe 1960, diplomato al Conservatorio di Parma, laureato in Lettere, studioso di musicologia, Ortombina è stato professore d’orchestra e corista del Regio di Parma, la lavorato all’Istituto di Studi Verdiani, e poi in vari teatri italiani prima di approdare proprio alla Scala dove è stato coordinatore artistico dal 2003 al 2007. Dal 2007 è alla Fenice di Venezia inizialmente come direttore artistico e poi dal 2017 anche come sovrintendente. Una duplice carica che probabilmente manterrà anche a Milano. Sulle sue competenze nessuno ha avuto da ridire. Forse l’unica perplessità è che “passerà dal guidare una gondola a un transatlantico”, come ha ironizzato qualcuno nei corridoi. Anche la Cgil ha riconosciuto le sue “capacità” in una nota in cui però esprime “preoccupazione” per la progettualità a lungo periodo del teatro. Ortombina al Piermarini inizierà dal primo settembre il lavoro come sovrintendente designato affiancando nella fase iniziale il sovrintendente in carica Dominique Meyer.

Il mandato del manager francese, ufficialmente partito nel giorno in cui il teatro ha chiuso per covid nel 2020, terminerà il prossimo 28 febbraio. Lui sarebbe voluto rimanere più a lungo perché, come ha detto nel marzo del 2023, dopo aver messo “a posto la Ferrari” avrebbe voluto “guidarla un po’”. Almeno un anno era la proposta uscita dall’ultimo cda. Ma dopo il confronto con il ministro Sangiuliano, alla fine gli è stato proposto di restare quattro mesi in più, fino al 1 agosto quando compirà 70 anni (una scelta, ci ha tenuto a precisare Sala, slegata dal decreto legge che prevede quella come età massima per i sovrintendenti e che per la Scala, in virtù della sua autonomia, non vale).

Meyer ha assicurato che resterà al suo posto fino alla fine del mandato, mentre rifletterà sulla proposta della proroga. Chi rimarrà fino a metà 2026 è il direttore musicale Riccardo Chailly, che inaugurerà le prossime due stagioni (il prossimo 7 dicembre con La Forza del destino e nel 2025 con Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Sostakovic) prima di lasciare il compito nel 2026 a Gatti. Sul suo arrivo c’è già l’accordo anche se formalmente sarà Ortombina a proporre al cda la sua nomina a direttore musicale. E dovrà essere Ortombina anche a proporre la nomina di un direttore generale, figura cancellata da Meyer ma che Sala ha consigliato al futuro sovrintendente di ripristinare. La proposta comunque non sarà fatta a questo cda, in scadenza a febbraio, ma al futuro. E anche sulla nomina dei nuovi consiglieri si giocherà una partita importante. Ma questa è un’altra storia.

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