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Cinema

“The Walking Liberty”, Alessandro Rak ci spiega l’ultimo capolavoro sfornato dalla factory napoletana Mad Entertainment

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Nel palazzo in cui De Sica girò “L’oro di Napoli” e “Matrimonio all’italiana”, in Piazza del Gesù Nuovo a Napoli, da un’idea del produttore Luciano Stella, nasce nel 2010 MAD Entertainment, giovane ed innovativa factory di musica, animazione e documentari. Il cuore della factory è il cinema d’animazione per adulti e in questi anni la MAD ha sfornato due piccoli capolavori: prima ‘L’arte della felicità’, premiata nel 2014 agli European Film Awards come miglior film d’animazione, poi ‘Gatta Cenerentola’, che ha trionfato ai David di Donatello del 2018 nelle categorie miglior produttore e migliori effetti speciali visivi. In questi mesi è in lavorazione “The Walking Liberty”, terza opera della MAD Entertainment. A firmare la regia, così come nei due film precedenti, è Alessandro Rak, che, oltre a parlarci del progetto, ci ha spiegato come nasce un film d’animazione e com’è proseguita la lavorazione durante il lockdown provocato dal Covid-19.

Alessandro Rak. Il regista del film d’animazione prodotto da Mad Entertainment

Come nasce il progetto “The Walking Liberty”?

L’idea che ci ha ispirato è stata quella di una giungla, che è lo sfondo su cui si muovono i protagonisti della nostra storia. C’è anche il romanzo di Steinbeck “Uomini e topi”, del quale ci attraeva il rapporto che si instaura fra i due personaggi principali. Il titolo del film invece fa riferimento al mezzo dollaro americano d’argento, su cui era incisa la figura di una donna che cammina, rappresentazione della libertà in cammino, the walking liberty, appunto. Finita fuori corso, è diventata una moneta usata dai maghi per la prestidigitazione. Ci piaceva l’idea che il destino dei personaggi fosse legato alla sorte, al tiro di una moneta. E poi è una storia che ha proprio nella libertà il suo tema centrale.

Premio. La ‘Gatta Cenerentola’ trionfò ai David del 2018 nelle categorie miglior produttore e migliori effetti speciali visivi

In questi mesi di pandemia s’è parlato molto della natura che si riappropriava dei suoi spazi. Una tematica presente anche nel vostro film, in lavorazione da ben prima del Covid.

Sì, la nostra è un’ambientazione futuristica, in cui la natura rigogliosa ha ripreso vigore e si riappropria della terra. Nel film ci sono anche un sacco di personaggi che girano con le mascherine; è stato surreale vedere la gente vestita come i personaggi del nostro film. Su questo sfondo si muovono i due protagonisti, Yaya, una ragazzina nemmeno maggiorenne, e Lennie, un ragazzone un po’ tonto di due metri e trenta. E’ la storia di questi due personaggi che cercano il loro posto nel mondo.

Durante il lockdown avete continuato a lavorare al film, ognuno da casa propria. Ci racconta com’è andata? Che cosa cambia rispetto al lavoro in studio?

A noi piace tanto lavorare insieme alla MAD. Abbiamo fatto tanti sforzi per dare vita ad una realtà sul territorio con persone del territorio, proprio perché ci piace la compresenza, la complicità che si crea lavorando insieme, nello stesso studio. In altre realtà del cinema d’animazione si lavora a distanza e si è quindi costretti a passare per il foglio macchina, che va compilato per riuscire a coordinare il lavoro e avere un quadro chiaro sull’avanzamento della produzione. Con il lockdown siamo stati costretti anche noi allo smart working e a quell’approccio burocratico, che ci piace un po’ meno. Stiamo lavorando per completare il film entro la fine del 2020, questo è il nostro obiettivo.

Come cambierà il cinema nei prossimi mesi?

Credo che  le produzioni subiranno un forte rallentamento perché non è semplice in questo momento programmare nel medio e lungo termine. Il Governo è attendista e decide di settimana in settimana sul da farsi e anche il nostro settore di riflesso si trova a vivere la stessa condizione di  incertezza.

Come nasce la sua collaborazione con il produttore Luciano Stella?

E’ iniziato tutto con ‘L’arte della felicità’. Mi chiamò Luciano Stella e mi chiese se volessi fare un film d’animazione dal titolo ‘L’arte della felicità’; lui ci teneva molto. Gli dissi che avremmo potuto provarci. Il cinema d’animazione è un percorso lungo, che coinvolge tante persone per almeno un paio d’anni; ha dei costi non da poco. Neanche glielo dico il budget che avevamo a disposizione, ma era una cifra irrisoria, ridicola; eppure con quel progetto indipendente arrivammo a vincere l’Oscar europeo come miglior film d’animazione. Io e Luciano, insieme a tutte le altre persone della squadra che mettemmo in piedi, ci inventavamo sempre una soluzione, trasformando gli ostacoli in punti di forza. Alla fine riuscimmo a concludere il film, per noi era già un’impresa.

Yaya e Lennie. Sono i protagonisti di #TheWalkingLiberty, lungometraggio ambientato in uno scenario post-apocalittico dove la natura ha ripreso vigore e ha coperto i resti della nostra civiltà

A quel punto che cos’è successo?

Poi la MAD si è strutturata ed è diventata una realtà del cinema d’animazione, un fatto che abbiamo accolto con gioia, ma non era preventivato. All’inizio dovevamo solo fare quel film. Da lì è nata la MAD e poi si sono aperti altri scenari; fummo invitati come evento di apertura alla settimana della critica a Venezia, abbiamo acquisito credibilità in un tempo assai breve. Ci siamo buttati subito su un altro progetto, “Gatta Cenerentola”. Nel frattempo la MAD ha incominciato ad aprirsi anche ad altre produzioni, non solo animate. E’ iniziato tutto da quel film e poi è venuto fuori di tutto e di più.

Quali sono le fasi attraverso cui vede la luce un film d’animazione?

Per un film d’animazione ci vogliono in genere due o tre anni. C’è un tempo di pensiero e di scrittura, una fase di riflessione e poi di sperimentazione sulle tecniche da adottare. Quando hai una sceneggiatura approvata, si può iniziare lo storyboarding del film, i primi schizzi dei personaggi e delle scenografie. Dopo lo storyboard, che è una sorta di fumetto, ci sono layout e videoboard. Dal layout parte infine il processo di animazione vero e proprio, che significa andare a lavorare fotogramma per fotogramma; l’animazione è solo la parte finale di un processo preparatorio molto lungo.

In Italia si fanno pochissimi film d’animazione; pensate di essere riusciti a dimostrare che si tratta di un linguaggio universale e non di un genere riservato solo ai più piccoli?

In un certo senso abbiamo sdoganato il genere in Italia e ci siamo anche tolti le nostre soddisfazioni in fatto di visibilità. Credo però che per cambiare faccia ad un settore ci vogliano più realtà, una non basta. Il film d’animazione per adulti per ora rimane un prodotto un po’ più di nicchia, anche se a livello globale, anche attraverso le piattaforme di streaming, sta sempre più incominciando a prendere piede. Inoltre c’è un problema legato ai finanziamenti: solo di recente sono state destinate percentuali accettabili di fondi al cinema d’animazione. Penso che pian piano questo settore stia crescendo e noi abbiamo senz’altro partecipato a questo cambiamento.

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Oppenheimer sbanca agli Oscar, il film su papà della bomba atomica fa incetta di premi

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‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan sbanca gli Oscar: la pellicola porta a casa 7 statuette su 13 candidature, ma tutte le piu’ importanti – film, regia, attori maschili protagonista e non protagonista – e aggiunge premi prestigiosi a quello gia’ assegnato dal pubblico. Basato sul libro vincitore del premio Pulitzer ‘American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer’ di Kai Bird e Martin J. Sherwin, frutto di due decenni di ricerche, il film di Christopher Nolan parla di una delle figure piu’ geniali e controverse del XX secolo considerato il padre della bomba atomica.

In ‘Oppenheimer’ Nolan racconta in un film di tre ore, per meta’ in bianco e nero che ha incassato quasi un miliardo di dollari (958 milioni), la parabola e i dilemmi morali del grande fisico che fu a capo del Progetto Manhattan, attivato in gran segreto dagli Usa nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, mentre le sorti del conflitto sembravano ancora favorire al Germania nazista. Il governo americano scelse il brillante scienziato, nato nel 1904 da genitori tedeschi di origini ebraiche, a capo del team riunito nei laboratori di Los Alamos, nel deserto del New Mexico. Un grande organizzatore, carismatico e competente, che paradossalmente fu ‘perseguitato’ fin dall’inizio della sua missione da sospetti di tradimento per le sue simpatie per il comunismo.

Nel suo team il regista inglese ha voluto alcuni collaboratori storici che, come lui, tornano a casa con l’Oscar: i produttori Emma Thomas e Charles Roven, il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema, con cui gia’ aveva girato ‘Interstellar’, ‘Dunkirk’ e ‘Tenet’. E Jennifer Lame per il montaggio e il compositore Ludwig Goransson (gia’ Oscar per ‘Black Panther’).
Oltre al neo premio Oscar Cillian Murphy, ‘Oppenheimer’ ha un grande cast, a partire da Robert Downey Jr. (anche lui premiato con l’Oscar) nei panni del capo della Atomic Energy Commission, Lewis Strauss.

Poi Emily Blunt nella parte della moglie del fisico, Matt Damon in quelli del generale che diresse il Progetto Manhattan, Leslie Groves, e Florence Pugh nei panni di Jean Tatlock, l’amante dello scienziato, oltre a Gary Oldman nel ruolo del presidente Harry Truman (poco piu’ di un cameo, ma davvero magnifico) e Kenneth Branagh in quello di Niels Bohr, il padre della fisica quantistica.

Nel suo film, Christopher Nolan traccia un ritratto a volte un po’ didascalico e non privo di qualche inesattezza o omissione (il rapporto con Albert Einstein un po’ esagerato e quello con Enrico Fermi troppo sottovalutato) di Robert Oppenheimer, unica persona, il solo scienziato, in grado secondo il generale di brigata Leslie Groves che lo scelse come direttore del laboratorio della bomba di motivare gli scienziati di Los Alamos e di farsi seguire nel progetto forte del suo carisma e della sua tenacia. Oppenheimer colpi’ il generale per l’ampiezza delle sue conoscenze e, soprattutto, per quella che Groves considerava la sua praticita’. Piu’ di ogni altro scienziato con cui il generale aveva parlato, Oppenheimer sembrava capire cosa bisognava fare per passare da teorie astratte ed esperimenti di laboratorio alla realizzazione di una bomba nucleare.

Una cosa che tra tutti aveva capito forse il solo generale Groves che difese sempre Oppenheimer dagli attacchi di Fbi, servizi segreti e fanatici anticomunisti che ne chiedevano la sostituzione. Groves sapeva bene che Oppenheimer era un uomo eccezionale perfette per guidare il laboratorio. Non si trattava solo di un problema di fisica, infatti, bisognava realizzare un’impresa ingegneristica senza precedenti, che doveva progredire mentre si stavano ancora risolvendo i problemi teorici di base.

 

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Addio a Paolo Taviani, con Vittorio rigore e impegno civile

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Rigore e impegno civile: questa la cifra dei Taviani, la coppia più affiatata di tutte, quei fratelli toscani che scesero a Roma negli anni ’50 per cambiare il mondo e riuscirono a cambiare il cinema italiano. Dopo la scomparsa di Vittorio, il 15 aprile 2018, se ne va oggi a 92 anni, nella clinica villa Pia di Roma, dopo una breve malattia, anche Paolo. Lunedì 4 marzo la cerimonia laica funebre alla Promototeca del Campidoglio, dalle 10 alle 13. Il suo ultimo film, in solitario, “Leonora addio”, presentato in concorso a Berlino nel 2022, segue il rocambolesco viaggio delle ceneri di Pirandello, da Roma ad Agrigento, a quindici anni dalla sua morte: “Siamo cresciuti insieme io e Vittorio e sempre lavorando”, ha raccontato Paolo in quella occasione.

“Sento ancora dietro di me il suo fiato. Anche a lui piaceva molto il set e mi ricordo ci litigavamo le scene, quando toccava a me e avevo finito di girare cercavo la sua approvazione e confesso l’ho fatto anche adesso in questo primo film senza di lui”. Quel suo ultimo film lo ha voluto in bianco e nero, come in un ideale ritorno agli esordi di quel cinema, firmato Paolo & Vittorio Taviani, che fin dagli anni ’50 ha tracciato un’ideale linea di confine tra il magistero del Neorealismo e un nuovo cinema realista, volutamente ideologico e poetico insieme. Nati a San Miniato, vicino a Pisa, da una famiglia borghese, con padre avvocato e antifascista, i Fratelli Taviani arrivano a Roma con un’idea ben chiara nella testa: fare il cinema, suggestionati dalla scoperta di “Paisà” (Rossellini è il maestro dichiarato), emozionati da “Ladri di biciclette”.

“Quando il film uscì – ha raccontato Paolo – fu un altro innamoramento, e come in ogni innamoramento la fidanzata la si vuole vicina. Ma in provincia i film appaiono e si dileguano, i film italiani in particolare in quegli anni. E noi due l’abbiamo inseguito, quel film, in bicicletta, in treno, da Pisa a Pontedera a Livorno a Lucca. L’abbiamo visto e rivisto perché avevamo deciso di riscrivere a memoria la sceneggiatura, con i dialoghi, i carrelli, gli stacchi: volevamo possedere quel linguaggio”.

Ma sono modelli che poi si sono trasformati in consapevolezza interiore, tanto che i due fratelli hanno sempre negato di avere un solo riferimento e di amare soprattutto il confronto con la letteratura; anche la collaborazione con Valentino Orsini (al loro fianco all’esordio) e con il produttore più fedele (l’ex partigiano Giuliani De Negri) è sempre stato più un confronto ideologico che una guida estetica. Dal sodalizio sono nati film che hanno segnato la storia del cinema come il profetico “Sovversivi” sulla fine della fiducia cieca nel comunismo reale e il visionario “Sotto il segno dello scorpione” a cavallo con la repressione in Cecoslovacchia; hanno anticipato il fallimento dell’utopia rivoluzionaria attingendo alla storia del Risorgimento con “San Michele aveva un gallo” e “Allosanfan”. Nel 1977 hanno vinto la Palma d’oro con “Padre padrone” e otto anni dopo trionfano ancora a Cannes con il loro più grande successo, “La notte di San Lorenzo” (Premio speciale della giuria). È dell’84 il loro incontro con Pirandello e le novelle di “Kaos” seguito nel ’98 da “Tu ridi”; nel 2012 dopo una lunga parentesi che li ha visti confrontarsi con il racconto televisivo, hanno vinto il Festival di Berlino con “Cesare deve morire”.

L’ultima collaborazione è del 2017 con “Una questione privata” che Paolo dirige da solo, mentre il fratello Vittorio è costretto a rimanere a casa per la malattia che lo avrebbe portato via pochi mesi dopo. Da allora Paolo Taviani si è definito “un mezzo regista” perché metà di lui non c’era più sul set, si sentiva “un impiegato del cinema perché in fondo – spiegava – Vittorio ed io lavoriamo da sempre con certe regole e un certo ritmo, magari nel tempo rallentato dall’età che avanza ma sempre guidato da un rigore di fondo come quello degli impiegati di una volta. I film cambiano, io molto meno e continuo a pensare che facciamo questo mestiere perché se il cinema ha questa forza, di rivelare a noi stessi una nostra stessa verità, allora vale la pena di metterci alla prova”. Con oltre venti film alle spalle (senza contare documentari, pubblicità e qualche corto disperso come l’ultimo episodio di “Tu ridi”) altrettanti premi maggiori e un Leone d’oro alla carriera (nel 1986), i due fratelli hanno dimostrato che passione, costanza, rigore e fedeltà al reale possono essere premiati.

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Alessandro Magno è gay? La Grecia contro Netflix

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La Grecia è scesa in campo contro Netflix per un docudrama britannico su Alessandro Magno che suscita controversie sulla rappresentazione della relazione tra il grande condottiero macedone e il suo generale Efestione come un amore omosessuale. Lina Mendoni, ministra della Cultura del governo di Atene, ha bollato la serie televisiva “Alexander, the making of a god” (Alessandro, la creazione di un dio) come “una fiction di qualità estremamente bassa e pessimo contenuto, piena di inesattezze storiche”. Riguardo alla descrizione dei due protagonisti come gay, Mendoni ha sottolineato che “non c’è alcuna menzione nelle fonti dell’epoca di un rapporto che vada oltre l’amicizia”.

La questione è giunta al dibattito in Parlamento, dove Dimitris Natsiou, presidente di Niki, un partito cristiano ortodosso greco di estrema destra, ha condannato il serial come “deplorevole, inaccettabile, antistorico”, sostenendo che “l’obiettivo subliminale è dare un’idea dell’omosessualità come perfettamente accettabile nei tempi antichi, una tesi priva di basi”.

Sulle questioni sollevate dalle rappresentazioni storiche e sessuali della serie, gli specialisti offrono opinioni divergenti. Il professor Lloyd Llewellyn-Jones, docente di storia antica all’università di Cardiff, sostiene che “le relazioni fra persone dello stesso sesso erano decisamente la norma attraverso tutto il mondo greco”. Viceversa, Thomas Martin, docente di storia greco-romana al College of the Holy Cross, Massachusetts, nota che Omero non ha mai identificato Alessandro ed Efestione come amanti nell’Iliade, benché tale interpretazione sia stata avanzata successivamente.

Mentre alcuni esperti, come Martin e Christopher Blackwell della Furman University, ritengono che i rapporti omosessuali non fossero diffusi al tempo di Alessandro il Macedone, altri come Robin Lane Fox di Oxford sostengono che l’amore tra uomini non fosse fuori dalla norma. Tuttavia, tutti concordano sul forte legame tra Alessandro e il generale, testimoniato dalla testimonianza dei contemporanei.

La ministra Mendoni riconosce la complessità del concetto di amore nell’antichità ma respinge l’idea di intraprendere azioni contro Netflix, affermando che “non è compito del governo censurare, sull’arte ognuno può avere diverse opinioni”.

Questa controversia non è isolata: l’anno scorso, il ministro delle antichità egiziano criticò Netflix per la scelta di far interpretare Cleopatra da un’attrice nera nella serie “Queen Cleopatra”. Inoltre, la serie “The Crown” è stata oggetto di polemiche per presunte distorsioni storiche nella rappresentazione della famiglia reale inglese.

La discussione su come rappresentare accuratamente la storia attraverso i mezzi di intrattenimento continua a sollevare domande complesse sulla verità storica, l’interpretazione artistica e le sensibilità moderne.

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