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Politica

Taglio dei deputati, il 7 ottobre l’approvazione definitiva e poi parte la giostra della legge elettorale

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Il taglio dei parlamentari, croce per Pd, Leu e Iv, e delizia per M5s, approda in Aula alla Camera il 7 ottobre per l’approvazione definitiva. Un passaggio delicato dell’accordo di governo, sui cui Luigi Di Maio aveva messo in dubbio l’affidabilita’ dei Dem, appare superato positivamente. In quella data partiranno in Senato anche altre riforme chieste dal Pd per bilanciare il taglio di senatori e deputati, su cui c’e’ un accordo di massima ma che devono essere dettagliate e dovrebbe essere chiarito almeno il modello di riforma elettorale a cui la maggioranza punta. Sul fronte del centrodestra la Lega ha visto appoggiata da Fdi e Fi la richiesta che i Consigli Regionali a guida centrodestra chiedano un referendum che elimini dal Rosatellum la parte proporzionale, cosa che Silvio Berlusconi aveva inizialmente detto di non volere. Alla riforma che taglia linearmente il numero di senatori (da 315 a 200) e deputati (da 630 a 400) manca il solo voto della Camera, che puo’ dire si’ o no, senza possibilita’ ormai di modifiche. Dopo di che se entro tre mesi nessuno chiedera’ un referendum sara’ legge dello Stato. Un cavallo di battaglia di M5s portato avanti con l’appoggio della Lega nei primi 14 mesi di legislature, con la ferma opposizione del centrosinistra che pero’ nell’accordo di governo ha accettato di approvarlo. Esultano tutti gli esponenti pentastelalti, da Luigi Di Maio, a diversi ministri (Federico D’Inca’, Fabiana Dadone, Riccardo Fraccaro) e parlamentari. Il Pd si accinge dunque a deglutire un boccone indigesto: “Noi siamo persone serie e di parola”, ha detto il capogruppo Graziano Delrio. “La fiducia – ha aggiunto – deve essere la caratteristica di questa maggioranza”. E se la “fiducia deve essere la caratteristica di questa maggioranza” ha aggiunto Delrio, e’ importante che per quel 7 ottobre siano presentati in Commissione a Palazzo Madama, in forma di emendamenti alla legge sul voto dei 18enni per il Senato, “quelli che nel programma di governo abbiamo definito le garanzie e i contrappesi”; accanto a questi occorrera’ avviare la riforma dei Regolamenti “insieme ovviamente ad una bozza di legge elettorale che non e’ pronta”. Sulla legge elettorale, ha confermato Delrio, si procedera’ con tempi piu’ dilatati (“non c’e’ bisogno di correre”) anche perche’ il Pd deve chiarirsi le idee, mentre M5s, Leu e Iv sono orientati per un modello proporzionale: lunedi’ scorso al gruppo della Camera Nicola Zingaretti ha avanzato l’ipotesi di un proporzionale con sbarramento alto o, all’opposto, un doppio turno, che favorisce le coalizioni. In ogni caso per i primi di ottobre la maggioranza demo-grillina un accordo che produca “una bozza” la dovra’ trovare. Sulle riforme costituzionali da presentare in Senato le idee sono invece piu’ chiare: parificazione dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato; partecipazione dei Presidenti di Regione alle sedute del Senato quando vota sulla Autonomia; sfiducia costruttive (in caso di legge proporzionale); riduzione del numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica. La Lega che oggi in Senato ha continuato la sua opposizione muscolare occupando i banchi del governo, ha condotto sulle proprie posizioni anche gli alleati nei Consigli Regionali. In Veneto, Lombardia, Sardegna e Friuli i Consigli hanno votato la decisione di chiedere il referendum sul Rosatellum per abrogare la parte proporzionale. Fi, che con Berlusconi aveva chiesto di mantenere una parte proporzionale, si e’ adeguata, facendo votare un ordine del giorno che propone il Presidenzialismo. Domani dovrebbero giungere i si’ dei Consigli di Piemonte, Liguria, e Abruzzo (ma bastano cinque) il che consentira’ di presentare entro lunedi’, come annunciato da Roberto Calderoli, la richiesta di referendum.

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Politica

Pressing per le dimissioni, Meloni valuta caso Santanchè

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Un rinvio a giudizio non comporta “in automatico” le dimissioni. E non sarebbero nell’aria scelte “immediate”. Ma bisogna valutare bene se il clamore attorno ai processi in cui è coinvolta Daniela Santanché non “indebolisca” la sua azione come ministro. E, a ruota, non possa recare danno all’azione di governo. E’ attorno a questi concetti che ai piani alti dell’esecutivo si riflette sul caso della titolare del Turismo, rinviata a giudizio per falso in bilancio e su cui pende un’altra richiesta di andare a processo per truffa all’Inps legata alla cassa Covid. Giorgia Meloni starebbe ancora riflettendo sul da farsi, convinta che la sfida della guida del Paese sia “talmente grande” da non potersi permettere scivoloni. O inciampi legati a questioni personali, come già accaduto con Gennaro Sangiuliano. La premier non ha ancora detto una parola in pubblico sulla vicenda, ma è assai probabile che abbia affrontato anche questo dossier con il presidente del Senato, da sempre amico e sponsor di Santanchè.

Anche se l’incontro, ci tengono a precisare da entrambe le parti, era in programma da tempo e fa parte degli abituali confronti tra i due. Meloni si confronta con La Russa all’ora di pranzo a Palazzo Chigi dove era arrivata molto presto, di rientro da Washington. E da dove se ne andrà a metà pomeriggio, spegnendo le aspettative di chi immaginava già un faccia a faccia con la stessa Santanchè. In diversi in Parlamento sono convinti che una “moral suasion di Ignazio” possa essere la chiave per convincere la ministra a un passo indietro che nessuno, oramai si sente più di escludere. La scelta personale e prima di un redde rationem con la premier, è uno dei ragionamenti che già alcuni esponenti di Fdi starebbero facendo,consentirebbe peraltro un’uscita meno traumatica a Santanchè, che però, la momento non sembrerebbe intenzionata a lasciare.

Lei, nel frattempo, resiste al suo posto e, anzi, liquida come “cose surreali” le voci che si rincorrono di sue imminenti dimissioni, tanto che qualcuno la dava in tempi stretti a Palazzo Chigi per annunciarle. “Io sono a Milano, impegnata in una riunione importante, non ho niente da aggiungere”, liquida la questione la ministra. All’inizio della prossima settimana, peraltro, ha in programma una missione in Arabia Saudita, quando il Villaggio Italia per la Amerigo Vespucci sarà allestito a Gedda. Lì potrebbe incrociarsi con la premier, anche se l’agenda di Meloni però spesso viene chiusa all’ultimo minuto. Resta un fatto che le due non si siano ancora incontrate – né sentite, secondo i più. E che le voci che si sono levate a sua difesa dal suo stesso partito si contino su poco più di una mano. Dalle prime file dell’esecutivo solo il ministro Guido Crosetto, interpellato al Senato, invita ad “aspettare il corso della giustizia”, dichiarandosi “il più garantista che esista nel Parlamento italiano”.

E chi a taccuini chiusi prende le parti della ministra ricorda anche che è l’altra accusa, quella di truffa all’Inps, a essere più pesante. E che a quel processo la ministra avrebbe legato già a suo tempo una eventuale riflessione sulle dimissioni. Di una eventuale sostituzione “non si parlerà prima di marzo”, dicono i più possibilisti, ricordando che il 29 gennaio la Cassazione deciderà se il processo sulla cassa Covid vada celebrato a Milano o a Roma. Se il fascicolo dovesse essere spostato ci potrebbe essere qualche settimana in più. Sempre che la premier – si commenta in ambienti della maggioranza – non decida diversamente prima.

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Von der Leyen suona la sveglia, ‘l’Ue ora cambi marcia’

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Davos, Strasburgo, Bruxelles. La prima risposta Ue a Donald Trump ha diverse sfaccettature, anche geografiche. Ma ha soprattutto un punto dal quale partire: il tempo del ‘calma e gesso’ è finito, serve una risposta ponderata ma rapida. E’ toccato a Ursula von der Leyen, dal palco di Davos, riprendere le redini della politica comunitaria all’alba di una nuova era. E la presidente della Commissione, pur senza tradire alcuna preoccupazione, ha mandato un messaggio chiaro: “Il mondo pensato 25 anni fa non è più una realtà. Il mondo oggi è in competizione, l’Ue deve cambiare marcia per crescere”.

Il primo discorso pubblico dopo la grave polmonite della numero uno dell’esecutivo comunitario era particolarmente atteso. Von der Leyen non si è tirata indietro. Ha difeso gli accordi di Parigi sul clima dai quali Trump ha ritirato gli Usa. Ha ribadito il pieno sostegno all’Ucraina a prescindere da Washington. Ha annunciato il primo viaggio della Commissione in India, tassello cruciale delle partnership globali di Bruxelles. E, soprattutto, ha confermato che la settimana prossima la Commissione varerà la Bussola per la Competitività, figlia del report di Mario Draghi. Il piano ha molteplici obiettivi: ridurre il gap sull’innovazione, accelerare sulla decarbonizzazione, aumentare la produttività, semplificare le regole, stoppare la fuga dei cervelli. Non sarà un documento coercitivo ma una roadmap dalla quale la Commissione farà derivare un complesso di norme.

Nel suo intervento a Davos, von der Leyen ha anticipato tre punti cardine del piano: una unione dei capitali “liquida e profonda”, una feroce sburocratizzazione, un’autonomia energetica che premi le rinnovabili e abbassi i costi. Piano che ha un grande assente: la previsione di debito comune. Su questo punto von der Leyen deve fare i conti con le divisioni interne all’Ue e, soprattutto, deve attendere il voto in Germania del 23 febbraio. Ma la sensazione, a Bruxelles, è che con Trump a Washington sia arrivato anche il tempo dell’azione. Il 26 febbraio il Clean Industrial Deal chiuderà un cerchio che, nelle prossime settimane, si arricchirà anche del Libro Bianco sulla Difesa. E gli Usa? “Siamo pronti a negoziare sul commercio” ma “rimarremo sempre fedeli ai nostri principi. Proteggere i nostri interessi e sostenere i nostri valori: questo è il modo europeo”, ha sottolineato von der Leyen.

“Siamo pronti a reagire ai dazi, siamo uniti”, ha rimarcato a margine dell’Ecofin a Bruxelles il vicepresidente della Commissione con delega all’Industria, Stephane Sejourné. La presidente della Commissione, dopo Davos, è attesa a Strasburgo. Alla prima Plenaria del 2025, com’era prevedibile, sono stati due i convitati di pietra: Trump e il suo braccio destro, Elon Musk. Ed è proprio all’interno dell’Eurocamera che si annida uno dei maggiori rischi legati al nuovo corso americano, quello di una frattura interna all’Ue. I Patrioti e AfD, nei dibattiti che in Aula si sono succeduti prima su X e poi sulle relazioni Ue-Usa, si sono schierati nettamente con Trump. Meno definito l’atteggiamento dei Conservatori, chiamati a destreggiarsi tra il dialogo con i partiti pro-Ue e un’alleanza con Trump che nella foto di Giorgia Meloni alla cerimonia di insediamento ha la sua plastica raffigurazione.

Anche i Popolari hanno scelto un basso profilo, evitando l’attacco frontale a Musk ma avvertendo Trump che, se si vuol parlare con Bruxelles, tocca farlo con loro e non con i Patrioti. Liberali e Socialisti hanno invece eretto la loro trincea: “Il saluto nazista di Musk è agghiacciante, non gli permetteremo di portare l’Europa all’estrema destra”, è stato l’attacco di S&D. La presidente Roberta Metsola in realtà non ha escluso di invitare il tycoon, come richiesto da 40 eurodeputati delle destre. Per la maltese più che arroccarsi serve rinverdire l’immagine dell’Ue. E, anche per questo, al Pe è andato in scena per la prima volta un test: non dare la lista dei relatori in Aula per non innescare il fuggi fuggi di chi non parla. “E’ andata bene, oggi erano presenti in 148” nei dibattiti principali, ha commentato Metsola.

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Politica

Terzo mandato, De Luca: confido su decisione della Consulta, non nel partito dei cafoni

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“In questi anni abbiamo sottratto alla marginalità le aree interne come l’Alta Irpinia: anche per questa ragione dico che il lavoro enorme che abbiamo prodotto non deve essere interrotto e deve continuare”. È ‘unico accenno che indirettamente il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, concede ai cronisti che lo interrogano sul terzo mandato, a margine del suo incontro con sindaci e amministratori dell’Alta Irpinia svoltosi stamattina a Sant’Angelo dei Lombardi. Successivamente, nella intervista pubblica al direttore di Itv, Franco Genzale, De Luca ha aggiunto “di confidare nella decisione che assumerà la Corte Costituzionale” e, in riferimento al caso del presidente del Veneto, Luca Zaia, in corsa per il quarto mandato e sostenuto dal suo partito, ha sottolineato: “Zaia sta in un partito nel quale evidentemente non ci sono molti cafoni, io sto in un partito nel quale ci sono fin troppi cafoni”.

Sui temi del territorio, De Luca ha poi valorizzato il lavoro della regione Campania a favore delle zree interne: “Soltanto per viabilità e mobilità abbiamo investito un miliardo di euro: risorse che l’Irpinia non ha mai visto”. Il governatore ha poi confermato gli impegni che riguardano il completamento di opere fondamentali, “come la Lioni-Grottaminarda, l’elettrificazione della linea ferroviaria Salerno-Avellino-Benevento e la terza corsia del raccordo autostradale Avellino-Salerno”. Dura la posizione di De Luca sulle origini della crisi idrica che da mesi soffre la provincia di Avellino: “Anni di gestioni all’insegna di porcherie clientelari -dice riferendosi alle gestioni dell’Alto Calore- i cui responsabili andrebbero fucilati alla schiena”.

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