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Ragazzi di Kiev, stanchi della guerra ma costretti a vincere

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Podil. Centralissimo quartiere hipster di Kiev. È un bel tardo pomeriggio di sole, con temperature innaturalmente miti. Complice il coprifuoco, la movida si anticipa. I bar sono pieni, i ragazzi si godono i dehors. La guerra infuria al fronte ma la capitale sta vivendo un momento di grazia, una specie d’estate di San Martino priva di bombardamenti. Ai tavolini si discute spesso di politica e molti accettano volentieri di condividere i propri pensieri, con estrema trasparenza. “Io sono stanco della guerra, vorrei che finisse il prima possibile”, dice Zilya. “Ormai non possiamo più vivere o lavorare normalmente”. Quasi tutti la pensano come lui. Ma da qui a capitolare, ce ne corre.

“Siamo stanchi sì ma non possiamo che vincere, è importante per il nostro Paese”, spiega Kate, che insiste a parlare in inglese – l’amica la filma col telefonino con l’intenzione di mostrare il video al prof – e già che c’è si anglicizza pure il nome. Tanya, riposto lo smartphone, crede che quella della stanchezza sia una mossa della propaganda russa, per fiaccare gli aiuti da parte degli alleati occidentali. “Che potrebbero fare un po’ di più per noi”. “La guerra sta durando troppo e inizia a pesare, è vero”, riflette Ilya. “Ma dobbiamo raggiungere la vittoria che meritiamo”.

Le trattative di pace dunque sono un tabù. Con qualche sfumatura, però. Sasha è netto. “Assolutamente no. Ma io sono del Donbass, il conflitto per me è iniziato nove anni fa: mi dispiace che la guerra sia arrivata a Kiev ma la mia vita non è cambiata poi di tanto”. Tanya prende la domanda da lontano. “All’inizio della guerra i negoziati erano una possibilità, perché credevamo che la gente in Russia avrebbe potuto fare qualcosa, scendendo in piazza, votando… insomma, influenzando il corso degli eventi. Ora confidiamo solo nel nostro esercito”. Arina punta il dito contro Mosca. “Ci bombarda, uccide i nostri bambini, come facciamo a trattare con uno Stato terrorista?”. Ilya invece guarda più concretamente al futuro. “Dobbiamo capire quale prezzo siamo disposti a pagare, come popolo, per la vittoria. Cosa accadrà se avremo centinaia di migliaia di morti? O milioni? Non sono disposto ad aprire i negoziati ora ma se il prezzo sarà troppo alto allora sì”.

Il suo amico, Oleksander, gli dà corda fino a un certo punto. “Tutte le condizioni che l’Ucraina ha posto prima che le negoziazioni inizino devono essere rispettate: non riesco a vedere altre possibilità al momento”. Quando si passa a Zelensky i cuori si scaldano. “Non posso dire nulla di male, non credo che altri avrebbero potuto fare meglio al suo posto”, confida Kate. “Gli hanno offerto più volte di scappare ma non ci ha abbandonati e per questo merita rispetto”, nota Zilya. “Poi certo, si può fare sempre meglio”. Sasha confida di non aver votato per Zelensky. “Ma dal 24 febbraio lo sostengo al 99%”. Ilya non ha nulla da recriminare sulla politica estera ma “sulla corruzione mi sarei aspettato di più da lui”. “Ecco – aggiunge – vorrei che si concentrasse maggiormente sulle indagini ai danni dei pezzi grossi”. Oleksander sul punto nota un cambiamento. “Guarda, da qualche mese si dedica di più alla politica interna. E per forza, si parla già di elezioni il prossimo anno…”.

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Kiev, nonostante l’escalation per ora non serve evacuare Kharkiv

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“Nonostante l’escalation al confine, non ci sono motivi per evacuare la città di Kharkiv in questo momento. Sappiamo chiaramente quali forze il nemico sta utilizzando nel nord del nostro territorio regionale. Certo, gli attacchi russi possono aumentare, ma al momento non c’è alcuna minaccia per il centro regionale”. Lo ha dichiarato ai media nazionali il governatore della regione dell’Ucraina orientale Oleg Sinegubov.

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Baidu, la direttrice delle pubbliche relazioni e i suoi video choc per i dipendenti bullizzati

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Nel mondo delle pubbliche relazioni, dove il carisma e la gentilezza sono spesso percepiti come requisiti fondamentali, Qu Jing, ex direttore delle public relations di Baidu, ha scosso l’opinione pubblica con dichiarazioni che delineano un panorama lavorativo spietato. Le sue parole, trasmesse tramite una serie di video su Douyin, il TikTok cinese, hanno evidenziato un approccio impietoso alla gestione del personale: nessun fine settimana libero, lavoro fino a 50 giorni consecutivi e minacce di licenziamento permanente.

Queste dichiarazioni hanno rapidamente acceso un dibattito acceso sui social media cinesi, dove molti hanno criticato il suo stile di leadership, considerandolo inappropriato e dannoso per l’immagine aziendale. Nonostante il tentativo di ritrattare e scusarsi per le affermazioni fatte, il danno era già stato arrecato, culminando in un calo del 2% delle azioni di Baidu in borsa e nella successiva rimozione di Qu Jing dal suo ruolo.

Il caso di Qu Jing non è un’eccezione nel settore tecnologico cinese, noto per la sua “cultura del lavoro” estremamente esigente. Infatti, la famosa pratica “996” – lavorare dalle 9 del mattino alle 9 di sera, sei giorni alla settimana – è stata pubblicamente elogiata da figure di spicco come Jack Ma di Alibaba, che la descrive come una “benedizione” per il settore hi-tech.

Tuttavia, la reazione pubblica alle parole di Qu Jing sottolinea una crescente sensibilità alle questioni di equilibrio tra vita lavorativa e personale e ai diritti dei lavoratori in Cina. Mentre il settore continua a prosperare sull’innovazione e il duro lavoro, i metodi di gestione del personale e la cultura aziendale stanno diventando sempre più il centro del dibattito pubblico.

La vicenda ha evidenziato la tensione tra le aspettative tradizionali di sacrificio personale e le richieste di un ambiente di lavoro più umano e rispettoso dei diritti individuali. In un’epoca in cui l’opinione pubblica può influenzare significativamente la percezione e il successo di un’azienda, Baidu e altre compagnie tecnologiche potrebbero dover riconsiderare non solo come motivano e gestiscono il loro personale, ma anche come comunicano i loro valori al mondo esterno.

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L’Onu rilancia l’adesione della Palestina, ira Israele

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L’Onu rilancia la membership piena della Palestina e scatena l’ira di Israele. L’Assemblea Generale ha adottato a maggioranza dei due terzi una risoluzione che migliora lo status palestinese garantendogli diversi diritti aggiuntivi, ma non quello di voto. “La Palestina è qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite in conformità con l’articolo 4 della Carta”, si legge nel testo, che invita il Consiglio di Sicurezza a “riconsiderare favorevolmente la questione”.

Il via libera del Cds (dove gli Usa il mese scorso hanno posto il veto) è infatti condizione necessaria per un’eventuale approvazione piena da parte dell’Assemblea. Ma la risoluzione approvata prevede comunque alcuni privilegi aggiuntivi per la Palestina, ad esempio quello di essere seduti tra gli Stati membri in ordine alfabetico, oppure di presentare proposte, emendamenti e sollevare mozioni procedurali in Assemblea (non concessi all’altro Stato osservatore non membro, la Santa Sede, né all’Unione Europea).

I palestinesi non avranno invece il diritto di voto, né potranno presentare la propria candidatura per i principali organi Onu come il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio Economico e Sociale (Ecosoc) o il Consiglio per i Diritti Umani. La risoluzione è stata approvata a larghissima maggioranza, con 143 sì, 9 no e 25 astensioni, tra cui l’Italia e altri Paesi europei come Germania, Gran Bretagna, Albania, Bulgaria, Austria, Croazia, Finlandia, Olanda e Svezia. Mentre i nove che hanno votato contro sono Stati Uniti, Israele, Ungheria, Repubblica Ceca, Argentina, Palau, Nauru, Micronesia, Papua Nuova Guinea. Il ministro degli Esteri dello Stato ebraico Israel Katz ha bollato la mossa come una “decisione assurda”: “Il messaggio che l’Onu manda alla nostra regione in sofferenza è che la violenza paga”, ha tuonato, parlando di “un premio ai terroristi di Hamas”. L’ambasciatore Gilad Erdan ha rincarato la dose sottolineando che “questo giorno rimarrà ricordato nell’infamia. Avete aperto le Nazioni Unite ai nazisti moderni”, ha denunciato, parlando di uno “Stato terrorista palestinese che sarebbe guidato dall’Hitler dei nostri tempi”.

“State facendo a pezzi la Carta Onu con le vostre mani”, ha detto ai Paesi che hanno votato a favore, passando simbolicamente alcune pagine del documento in un tritacarte. Gli Stati Uniti, invitati da Tel Aviv a fermare immediatamente i finanziamenti all’organizzazione internazionale, hanno spiegato che il loro voto contrario “non riflette l’opposizione allo Stato palestinese”. “Siamo stati molto chiari nel sostenerlo e nel cercare di portarlo avanti in modo significativo – ha affermato l’ambasciatore Robert Wood -. Si tratta invece di un riconoscimento del fatto che la statualità potrà derivare soltanto da un processo con trattative dirette tra le parti. Resta la nostra opinione che le misure unilaterali alle Nazioni Unite e sul campo non porteranno avanti questo obiettivo”.

Anche l’Italia, come ha sottolineato il rappresentante permanente, l’ambasciatore Maurizio Massari, “condivide l’obiettivo di una pace globale e duratura che potrà essere raggiunta solo sulla base di una soluzione a due Stati”, ma ritiene che “tale risultato debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti”. “Dubitiamo che l’approvazione della risoluzione odierna contribuirà all’obiettivo di una soluzione duratura al conflitto. Per questo motivo abbiamo deciso di astenerci”, ha aggiunto Massari spiegando la posizione italiana. Il delegato palestinese Ryad Mansour, da parte sua, ha affermato che “votare per l’esistenza della Palestina non è contro nessuno Stato, ma è un investimento nella pace”. “La nostra bandiera sventola alta e orgogliosa in tutto il mondo – ha aggiunto – ed è diventata un simbolo di chi crede nella libertà”.

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