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Renzi cambia rotta: attacco a Meloni con “L’influencer” e apertura a Conte per il 2027

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L’ex premier Matteo Renzi abbandona ogni ambiguità verso Giorgia Meloni con un attacco frontale nel suo nuovo libro “L’influencer”. In parallelo, il leader di Italia Viva compie una svolta strategica aprendo all’alleanza con Giuseppe Conte in vista delle elezioni del 2027, convinto che senza i voti dell’ex premier 5 Stelle sia impossibile battere il centrodestra. Una mossa che segna un cambio di strategia dopo anni di tensioni con Conte e pone nuove sfide per Elly Schlein e il Pd nel difficile tentativo di riunire un fronte d’opposizione eterogeneo.

Attacco diretto a Meloni nel libro “L’influencer”

Matteo Renzi ha deciso di sfidare apertamente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, mettendo fine a ogni ambiguità nei suoi confronti. Il veicolo di questo attacco politico è “L’influencer”, il libro pubblicato a marzo in cui l’ex premier demolisce l’immagine e l’operato della leader di Fratelli d’Italia. Renzi accusa Meloni di comportarsi “più da influencer che da presidente del Consiglio”, sottolineando come spesso privilegi la propaganda e la visibilità social rispetto alle risposte sui dossier critici. Nel libro Renzi ripercorre alcuni episodi emblematici: ad esempio, mentre infuriava il dibattito sui dazi internazionali, Meloni era impegnata in uno show mediatico con il maestro pasticciere Iginio Massari – un comportamento che Renzi cita per evidenziare la sua critica. All’interno di “L’influencer” trovano spazio anche vicende delicate come il caso Paragon, uno scandalo sulle intercettazioni: Renzi accusa Meloni di aver mantenuto il silenzio e di aver evitato chiarimenti parlamentari sul tema, insinuando che la premier abbia privilegiato la tutela della propria immagine e dei suoi alleati politici a discapito della trasparenza. Con questa pubblicazione, il leader di Italia Viva formalizza dunque un attacco frontale a Meloni, segnando la fine di ogni tregua o tono mite nei confronti del governo di destra.

Svolta strategica: alleanza con Conte per il 2027

Parallelamente all’affondo contro Meloni, Renzi ha lanciato un chiaro messaggio sul piano delle alleanze in vista delle prossime elezioni politiche, previste nel 2027. Durante la presentazione del suo libro e in recenti dichiarazioni pubbliche, il senatore fiorentino ha sostenuto che l’unico modo per battere il centrodestra sarà costruire un’ampia coalizione di opposizione, includendo anche il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Renzi ha infatti riconosciuto che i voti del M5S saranno determinanti: con circa un 10% di consensi stimato, il partito di Conte può decidere le sorti della sfida elettorale. “Il discrimine è se Conte deciderà di starci oppure no – ha spiegato Renzi –. Se resterà fuori per marcare le differenze, regalerà altri cinque anni di governo a Giorgia Meloni”. In sostanza, secondo Renzi, senza un accordo con l’ex premier pentastellato l’opposizione rischia di presentarsi divisa e dunque perdente contro la destra. Si tratta di una svolta strategica notevole per il leader di Italia Viva: dopo il fallimento del cosiddetto “terzo polo” centrista (il progetto politico portato avanti assieme a Carlo Calenda a inizio legislatura), Renzi sembra ora convergere sulla linea del “campo largo” progressista. Ha dichiarato di essere pronto a fare la sua parte in una coalizione che vada da Italia Viva fino al M5S, passando per il Pd e la sinistra verde, mettendo da parte preclusioni ideologiche in nome dell’obiettivo comune di offrire un’alternativa al governo Meloni.

Le vecchie ruggini tra Renzi e Conte

L’apertura di Renzi a un’alleanza con Giuseppe Conte segna un cambio di tono sorprendente, considerando le profonde ruggini che hanno caratterizzato il rapporto tra i due negli ultimi anni. Matteo Renzi e Giuseppe Conte, entrambi ex presidenti del Consiglio, sono stati a lungo ai poli opposti dell’arena politica italiana, protagonisti di scontri personali e politici molto duri. Nel gennaio 2021 fu proprio Renzi, allora leader di una piccola ma decisiva forza di maggioranza, a ritirare l’appoggio parlamentare al secondo governo Conte, provocandone la caduta in piena pandemia. Questo strappo ha lasciato un segno indelebile: Conte e i suoi sostenitori considerano Renzi il responsabile di aver fatto cadere un esecutivo in un momento critico per il Paese, mentre Renzi rivendica tuttora quella scelta come necessaria per “dare all’Italia un governo più solido” (la mossa aprì infatti la strada al governo Draghi). Da allora, lo scambio di accuse non si è mai davvero placato. Renzi negli anni scorsi non ha risparmiato giudizi tranchant su Conte, definendolo implicitamente incapace di guidare il Paese e ironizzando sul suo stile politico. Celebre fu, ad esempio, la frase di Renzi “su Giuseppe Conte non ho sospetti, ma solo certezze”, alludendo senza troppi giri di parole alla sfiducia totale nelle capacità e nell’affidabilità dell’avvocato foggiano.

Più di recente, Renzi ha attribuito l’astio di Conte nei suoi confronti proprio a quella crisi di governo: “Conte mi odia perché l’ho mandato a casa”, ha detto in un’occasione, bollando il Movimento 5 Stelle come una “succursale di Poltrone e Sofà” per sottolineare – con sarcasmo – che a suo dire i pentastellati sarebbero interessati solo alle poltrone di potere. Dal canto suo, Giuseppe Conte non è stato da meno nel replicare con toni durissimi. Il leader del M5S ha definito Renzi “una mina vagante” o addirittura “una mina a orologeria”, a significare che la presenza di Renzi in un’alleanza sarebbe un elemento destabilizzante pronto a esplodere da un momento all’altro. “Renzi finora si è vantato di avermi fatto cadere in piena pandemia, e oggi vorrebbe presentarsi come interlocutore privilegiato? La politica per noi è una cosa seria” ha sbottato Conte qualche mese fa, respingendo l’ipotesi di collaborare con il leader di Italia Viva. Parole come “inaffidabile” ricorrono spesso quando l’ex premier grillino parla di Renzi, a sottolineare una fiducia praticamente nulla. Questo pregresso di forti contrasti personali e politici rende evidente quanto sia ripida la strada verso una riconciliazione autentica tra i due leader.

Un “campo largo” da costruire tra diffidenze e differenze

L’idea di un fronte comune anti-Meloni – il famoso “campo largo” – si scontra dunque con le diffidenze incrociate e le differenze identitarie tra le varie componenti dell’opposizione. Oltre al duello personale Renzi-Conte, c’è da considerare la eterogeneità programmatica: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Azione di Calenda, la sinistra di Alleanza Verdi e Sinistra sono forze con visioni spesso distanti su temi economici, sociali e istituzionali. Negli ultimi anni, queste formazioni si sono presentate divise alle elezioni – emblematico il caso del 2022, quando la rottura delle trattative tra Enrico Letta e Giuseppe Conte portò Pd e M5S a correre separati, mentre Renzi e Calenda formarono un terzo polo a sé stante. Il risultato fu la netta vittoria del centrodestra, favorito dalla frammentazione dei suoi avversari. Ora la lezione sembra chiara a tutti gli attori del centrosinistra: divisi si perde, uniti forse si può competere. Eppure, passare dalla teoria ai fatti non è semplice. Conte, almeno finora, ha mantenuto un veto esplicito su Renzi, dichiarando di non voler alcuna alleanza con chi reputa inaffidabile e lontano dai valori del M5S.

D’altra parte, anche parte dell’elettorato e dei quadri del Pd guarda con diffidenza all’eventuale riavvicinamento con Renzi, leader che nel 2019 ha lasciato il Partito Democratico per fondare una propria formazione e che viene ricordato da alcuni più per i personalismi divisivi che per lo spirito unitario. Inoltre, il recente strappo tra Renzi e Calenda – con la fine anticipata del progetto di Terzo Polo – aggiunge un ulteriore pezzo al mosaico: Azione oggi si mostra molto critica verso il M5S e difficilmente potrebbe convivere sotto lo stesso tetto con i grillini. Renzi, nel criticare Carlo Calenda, ha preso le distanze dalla sua linea anti-5Stelle (“in democrazia non si cancellano gli avversari, si prendono i voti” ha detto, riferendosi all’idea di Calenda di “cancellare” politicamente il M5S), però resta da vedere se altri centristi lo seguiranno su questa strada.

Mettere insieme forze così diverse richiederebbe un compromesso programmatico solido – un’agenda comune su temi chiave come lavoro, ambiente, diritti e magari un “contratto di coalizione” sul modello tedesco – oltre che un patto di non aggressione personale tra leader che finora si sono combattuti aspramente. La sfida è enorme: creare una coalizione credibile senza perdere pezzi importanti lungo la strada o senza scoraggiare gli elettori più radicali o quelli più moderati.

Il ruolo di Elly Schlein e le incognite per il PD

In questo scenario di possibili nuove alleanze e tensioni irrisolte, un ruolo cruciale spetta a Elly Schlein. La segretaria del Partito Democratico, in carica dal 2023, si trova al centro del progetto di costruzione di un’alternativa al governo Meloni. Schlein sin dal suo insediamento ha lanciato appelli all’unità del centrosinistra, cercando punti di convergenza soprattutto con il Movimento 5 Stelle su temi sociali come il salario minimo, la transizione ecologica e la difesa dei diritti civili. La leader democratica sa che il Pd – attualmente accreditato attorno al 20-25% dei consensi – è la forza principale dell’opposizione, ma da solo non basta per vincere. Per questo non ha chiuso la porta a nessuno: né alla sinistra più radicale né ai riformisti come Calenda e Renzi, nonostante le differenze ideologiche.

Tuttavia, Schlein deve muoversi in un campo minato. Da un lato, un’alleanza troppo sbilanciata a sinistra con il M5S potrebbe spaventare l’elettorato centrista e moderato che il Pd ancora rappresenta in parte; dall’altro, riabbracciare figure come Renzi (che molti elettori di sinistra guardano con sospetto o risentimento) comporta il rischio di alimentare malumori nella base progressista. La stessa Schlein, pur avendo condiviso sorrisi e persino un simbolico abbraccio con Renzi in occasioni pubbliche recenti, è consapevole delle difficoltà: dovrà garantire che un eventuale patto di coalizione sia “coerente e credibile”, come lei stessa ha ribadito, per evitare che le contraddizioni interne esplodano durante la campagna elettorale o peggio durante un ipotetico governo. Inoltre c’è la questione della leadership della coalizione: Renzi ha suggerito di scegliere il candidato premier tramite elezioni primarie aperte oppure automaticamente assegnando la guida al partito più votato. In entrambi i casi il Partito Democratico di Schlein, essendo la formazione maggiore, avrebbe buone chance di esprimere la leadership – ed è probabilmente anche per questo che Renzi, realisticamente, la indica come possibile “capitano” della squadra anti-Meloni. Ma accettare l’apporto di Renzi significa anche accettarne la presenza ingombrante e imprevedibile: Schlein dovrà valutare attentamente se i benefici elettorali di un fronte largo superano i possibili costi in termini di coesione e fiducia tra alleati.

La nuova strategia di Matteo Renzi ridisegna il panorama dell’opposizione italiana: da un lato un attacco senza veli al governo di Giorgia Meloni, dall’altro un’inedita mano tesa ai vecchi avversari per unire le forze nel 2027. Resta da vedere se questo disegno ambizioso riuscirà a concretizzarsi. La strada verso un campo largo unitario è tutta in salita, costellata di ostacoli personali e politici. Nei prossimi mesi, la capacità dei leader dell’opposizione – Renzi, Conte, Schlein e gli altri – di superare diffidenze reciproche e trovare una visione comune sarà messa alla prova. L’esito non è scontato: potrebbe nascere un’alleanza ampia in grado di contendere la guida del Paese alla destra, oppure le divisioni potrebbero prevalere ancora una volta, lasciando campo libero al centrodestra di Giorgia Meloni. Quel che è certo è che il dibattito è ormai aperto e la partita per il 2027 è già iniziata nelle strategie e nelle mosse di oggi.

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Andrea Vianello lascia la Rai dopo 35 anni: “Una magnifica cavalcata, grazie a tutti”

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Dopo 35 anni di giornalismo, programmi, dirette e incarichi di vertice, Andrea Vianello (foto Imagoeconomica in evidenza) ha annunciato il suo addio alla Rai. L’annuncio è arrivato con un messaggio pubblicato su X, nel quale il giornalista ha comunicato di aver lasciato l’azienda con un «accordo consensuale».

Una lunga carriera tra radio, tv e direzioni

Nato a Roma il 25 aprile 1961, Vianello entra in Rai nel 1990 tramite concorso, dopo anni di collaborazione con quotidiani e riviste. Inizia al Gr1 con Livio Zanetti, poi al Giornale Radio Unificato, raccontando da inviato alcuni dei momenti più drammatici della cronaca italiana: dalle stragi di Capaci e via D’Amelio al caso del piccolo Faruk Kassam.

Nel 1998 approda a Radio anch’io, e successivamente a Tele anch’io su Rai2. Tra il 2001 e il 2003 è autore e conduttore di Enigma su Rai3, per poi guidare Mi manda Rai3 fino al 2010. Dopo l’esperienza ad Agorà, nel 2012 diventa direttore di Rai3.

Nel 2020 pubblica “Ogni parola che sapevo”, un racconto toccante della sua battaglia contro un’ischemia cerebrale che gli aveva tolto temporaneamente la parola, poi recuperata con grande determinazione.

Negli ultimi anni ha diretto Rai News 24, Rai Radio 1, Radio1 Sport, il Giornale Radio Rai e Rai Gr Parlamento. Nel 2023 viene nominato direttore generale di San Marino RTV, ma si dimette dopo dieci mesi. Di recente si parlava di un suo possibile approdo alla guida di Radio Tre.

Le parole d’addio: “Sempre con me il senso del servizio pubblico”

«Dopo 35 anni di vita, notizie, dirette, programmi, emozioni e esperienze incredibili, ho deciso di lasciare la ‘mia Rai’», scrive Vianello. «Ringrazio amici e colleghi, è stato un onore e una magnifica cavalcata. Porterò sempre con me ovunque vada il senso del servizio pubblico».

Il Cdr del Tg3: “Un altro addio che pesa”

Dura la reazione del Comitato di redazione del Tg3: «Anche Andrea Vianello è stato messo nelle condizioni di dover lasciare la Rai», scrivono i rappresentanti sindacali, parlando apertamente di “motivi politici”. «È l’ennesimo collega di grande livello messo ai margini in un progressivo svuotamento di identità e professionalità». E concludono con un appello: «Auspichiamo che questa emorragia si arresti, e che la Rai possa recuperare la sua centralità informativa e culturale».

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L’ex ministro De Lorenzo torna a percepire il vitalizio: sono stato un perseguitato politico

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Francesco De Lorenzo (foto Imagoeconomica in evidenza), 87 anni, ex ministro della Sanità della Prima Repubblica, torna a percepire il vitalizio parlamentare grazie alla riabilitazione concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. Una cifra importante tra arretrati e pensione, che giunge 31 anni dopo l’arresto per Tangentopoli e una condanna definitiva a 5 anni per associazione a delinquere e corruzione.

«Ho pagato più di tutti, ho subito una persecuzione»

«Sono stato il capro espiatorio perfetto» ha dichiarato De Lorenzo al Corriere del Mezzogiorno, rivendicando la correttezza del proprio operato. Secondo l’ex ministro, i magistrati dell’epoca avrebbero voluto colpire un simbolo e lui si prestava bene al ruolo, specie dopo la riforma della sanità che vietava il doppio lavoro ai medici. «Non ho mai preso una lira per me – ha aggiunto – la Cassazione ha riconosciuto che i soldi finivano interamente al Partito Liberale».

«Vitalizio? È un diritto, come stabilito dalla Boldrini»

De Lorenzo ha ribadito che la richiesta del vitalizio è legittima: «La delibera del 2015 firmata da Laura Boldrini prevede la restituzione in caso di riabilitazione. Io l’ho ottenuta, come altri prima di me». A pesare sulla sua memoria, anche la condanna della Corte dei Conti per danno d’immagine: «Ho dovuto vendere la mia casa di Napoli per affrontare le conseguenze economiche di quella sentenza, pur non avendo causato alcun danno erariale».

Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica

Arrestato a Napoli nel 1994, De Lorenzo fu al centro di uno dei più noti scandali di Tangentopoli. «Durante la stagione giudiziaria serviva un terzo nome dopo Craxi e Andreotti, e io ero perfetto», ha detto. Ricorda con amarezza il clima di quegli anni: «Mi ritrovai contro i medici per la riforma e contro i malati per i tagli alla sanità. Il bersaglio ideale».

«Non ho mai tradito per salvarmi»

«Mi venne chiesto di accusare altri ministri, anche Berlusconi – racconta – ma non l’ho mai fatto». Critico nei confronti della magistratura, De Lorenzo ha sottolineato le irregolarità nel suo arresto e nella gestione del processo. «I miei coimputati si avvalevano della facoltà di non rispondere. Il mio processo è stato un coro di muti».

Rapporti con il passato: «Non sento più nessuno»

Con i vecchi compagni di partito come Paolo Cirino Pomicino e Giulio Di Donato i contatti si sono interrotti: «Ho chiuso ogni rapporto con loro», ha ammesso De Lorenzo. Nonostante l’età, conserva ancora una voce lucida e battagliera: «Sono malato di giustizia, non dimentico quello che ho subito».

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Addio a Giancarlo Gentilini, lo “Sceriffo” di Treviso simbolo della Lega Nord

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È morto a 95 anni Giancarlo Gentilini (foto Imagoeconomica in evidenza), storico sindaco e vicesindaco di Treviso, conosciuto come “lo Sceriffo” per la sua spilla simbolo di ordine, disciplina e rispetto delle leggi. Figura centrale della Lega Nord, è stato per vent’anni un riferimento assoluto per la città e per il movimento federalista e nordista. Gentilini si è spento ieri all’ospedale di Treviso, dopo un improvviso malore. Aveva appena trascorso le festività pasquali con familiari e amici.

Dal 1994 un’era politica fuori dagli schemi

Eletto per la prima volta nel 1994, in piena frattura con la Prima Repubblica, Gentilini ha rappresentato il primo grande esperimento amministrativo della Lega Nord in Veneto. La sua leadership ha ispirato generazioni di sindaci padani. Rimasto in carica fino al 2013, ha saputo imprimere un’impronta personale, carismatica e controversa al governo della città, definendosi “al servizio del mio popolo”.

Una vita di provocazioni e polemiche

Uomo fuori dagli schemi, Gentilini è stato amato e odiato. Amatissimo dal suo elettorato, detestato dalle opposizioni per uscite spesso offensive: frasi contro immigrati, rom, comunità omosessuale, disegni di teschi agli incroci pericolosi e panchine rimosse per evitare che vi si sedessero stranieri. La sua comunicazione era brutale, talvolta al limite del razzismo, ma efficace. Una figura che ha spesso messo in difficoltà anche la sua stessa Lega, incapace di contenerne la dirompenza.

L’ultimo capitolo di una vita sorprendente

Nel 2017 ha perso la moglie, e l’anno successivo, a 89 anni, si è risposato. Un uomo che non ha mai smesso di sorprendere, nel bene e nel male. Sempre fedele alla sua immagine, sempre diretto, spesso divisivo, ma instancabile e coerente con il proprio sentire.

Il cordoglio delle istituzioni

Tra i primi a ricordarlo, Luca Zaia, presidente del Veneto: «È stato un grande amministratore, ha saputo intercettare i sentimenti del popolo. Ha fatto la storia di Treviso e del Veneto». Lorenzo Fontana, presidente della Camera, ha parlato di «dedizione totale alla città». Il sindaco di Treviso, Mario Conte, ha espresso il dolore dell’intera comunità: «Il nostro Leone è andato avanti. Ha scritto la storia».

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