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‘Putin è paranoico e si autoisola, ma non è malato’

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Come un monarca preoccupato che chi gli gravita attorno possa volerlo morto, il presidente russo Vladimir Putin ha un sistema di sicurezza che rasenta la paranoia. Il cibo viene cucinato solo per lui da un apposito chef, per poi essere ispezionato attraverso dei test eseguiti dal Biological safety centre. Ingegneri e vigili del fuoco viaggiano con lui per studiare la relativa documentazione tecnica e controllare che le strutture siano a norma. Tutti i suoi dipendenti sono stati costretti a vaccinarsi contro il Covid e le restrizioni, per chi sta vicino allo zar, sono ancora in vigore.

Il racconto che fa a Dossier Center l’ex capitano del servizio di guardia della Federazione russa (Fgs), Gleb Karakulov, avrebbe del fiabesco, se non si parlasse di Putin. Con il presidente russo, Karakulov ha lavorato fino a metà ottobre del 2022, quando poi è scappato: si tratta dell’ufficiale dell’intelligence di grado più alto nella storia recente di Mosca ad aver disertato. “Abbiamo ancora un presidente che si autoisola”, spiega l’ex capitano mentre racconta delle misure di prevenzione adottate dal leader russo: “Dobbiamo osservare una rigida quarantena per due settimane prima di qualsiasi evento, anche quelli della durata di 15-20 minuti”. Dopo aver passato questa trafila si può essere considerati puliti e, solo allora, si è autorizzati a lavorare nella stessa stanza di Putin. Karakulov spiega che tutti sono costretti a sottoporsi regolarmente a screening sanitari e a esami medici, “gli assistenti del presidente eseguono test Pcr più volte al giorno”.

A dispetto delle voci che sono state diffuse in questi mesi, però, Putin non sarebbe malato. “Non ho idea del perché – dice lo 007 -, probabilmente è solo preoccupato per la sua salute. Se ha problemi, devono essere dovuti alla sua età”. Problemi che non sarebbero “nulla di troppo serio”: secondo Karakulov, lo zar “gode insomma di una salute migliore di molte altre persone della sua età”. Dal racconto di Karakulov emerge un presidente infaticabile. Da quando ha iniziato a lavorare con lui, nel 2009, lo zar ha saltato soltanto un paio di viaggi di lavoro a causa delle sue condizioni di salute, prima molto frequenti. Dal 2020, però, con l’arrivo della pandemia, gli spostamenti hanno cominciato drasticamente a ridursi, Putin “è rimasto nel suo bunker e forse ha fatto solo uno, massimo tre viaggi di lavoro all’anno”.

Il suo programma di lavoro è comunque molto intenso, spiega Karakulov, e durante i suoi viaggi lo zar “non va a letto fino alle 2 o 3 del mattino”. Un’accortezza estrema, ovviamente, è riservata agli spostamenti, fatti attraverso dei mezzi specifici creati apposta per lui, come un treno con le caratteristiche di un normale convoglio russo, e alle comunicazioni. Putin guarda solo la televisione russa e non usa il cellulare: “In tutti i miei anni di servizio, non l’ho visto una volta con un telefonino”.

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Zelensky finisce nella lista dei ricercati di Mosca

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La foto segnaletica è precedente alla guerra, scattata quando indossava ancora camicia e giacca, senza la barba e la mimetica che dal febbraio 2022 sono diventate simbolo del suo ruolo di guida della resistenza ucraina. In una mossa a sorpresa, Volodymyr Zelensky è finito sulla lista dei ‘most wanted’ del ministero dell’Interno russo, dopo che nei suoi confronti è stato aperto un non meglio specificato procedimento penale. Nel database infatti il presidente ucraino, nemico numero uno dello zar Vladimir Putin, è ricercato ai sensi di “un articolo” del codice penale russo. Quale sia resta un mistero, mentre il ministero degli Esteri ucraino ha liquidato la faccenda come l’ennesima “prova della disperazione della macchina statale e della propaganda russa, che non ha altre scuse degne di nota da inventare per attirare l’attenzione”.

Secondo Kiev, l’unico mandato d’arresto “del tutto reale e soggetto a esecuzione in 123 Paesi del mondo” è quello emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin con l’accusa di crimini di guerra. E sui media ucraini corre l’ipotesi che l’inserimento di Zelensky nella lista dei ricercati nasca proprio dal desiderio di vendetta per quel mandato internazionale, uno schiaffo senza precedenti mai digerito dallo zar. Oltre a Zelensky, il ministero dell’Interno russo ha emesso un ordine di arresto anche per l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko e l’ex ministro ad interim della Difesa e attuale rettore dell’Università nazionale di difesa dell’Ucraina, Mikhail Koval. Anche per loro mancano i reati contestati, così come avvenuto in altri ordini di arresto nei mesi scorsi. Dall’inizio dell’invasione, sono diversi infatti i politici e personaggi pubblici stranieri inseriti nella lista nera di Mosca che conta decine di migliaia di voci.

L’anno scorso, i russi hanno dichiarato ricercati l’allora capo delle forze armate Valery Zaluzhny e l’allora comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky, oggi a capo dei militari di Kiev. E proprio a seguito dell’ordine di arresto emesso contro Putin è finito nell’elenco dei ricercati anche Rosario Aitala, il giudice italiano responsabile di quel mandato. A febbraio, è stato aggiunto il nome della premier estone Kaja Kallas insieme a quelli di altri funzionari dei paesi baltici. Per loro la motivazione è stata resa nota ma suona draconiana: “Falsificazione della storia”. Mentre la Russia mischia la guerra con la giustizia interna, lo scontro prosegue in Ucraina, dove il tempo stringe per Zelensky che chiede “decisioni tempestive e adeguate sulla difesa aerea dell’Ucraina, fornitura tempestiva di armi ai nostri soldati”.

Secondo il leader ucraino, “solo questa settimana i terroristi hanno compiuto più di 380 attacchi contro le nostre città e regioni”. Un uomo è morto e cinque persone sono rimaste ferite negli attacchi di Mosca dell’ultima giornata sulla martoriata Kharkiv mentre le forze di Kiev continuano ad attaccare le regioni russe di confine: cinque feriti nell’ultimo raid su Belgorod. Nel frattempo giungono raccapriccianti resoconti delle politiche portate avanti dai russi nei territori del Donbass, dove anche i neonati innocenti sono vittime della guerra: il capo dell’amministrazione militare del Lugansk, Artem Lysogor, ha annunciato che da lunedì prossimo le madri che partoriscono negli ospedali della regione dovranno dimostrare la cittadinanza russa di almeno uno dei genitori del neonato affinché quest’ultimo possa essere dimesso dall’ospedale. Una norma – sottolinea il think tank americano Isw – che rappresenta una palese violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.

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Xi lunedì da Macron a Parigi per blandire l’Ue

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Il presidente cinese Xi Jinping torna in Europa per la prima volta in cinque anni in un tour segnato dalle inedite tappe di Francia, Ungheria e Serbia. La visita avviene quando Pechino preme per evitare che si apra anche un fronte commerciale con l’Ue dopo quello con gli Usa, mentre l’atteggiamento di Bruxelles verso la Cina si sta irrigidendo per i casi di spionaggio, le accuse di campagna di disinformazione, il rafforzamento delle relazioni bilaterali e il sostegno della leadership comunista alla Russia nella guerra all’Ucraina, e il dossier di Taiwan.

La prima tappa sarà a Parigi per i 60 anni di relazioni ufficiali bilaterali. Lunedì incontrerà il presidente Emmanuel Macron e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Assente il cancelliere tedesco Olaf Scholz che, malgrado le pressioni dell’Eliseo per un vertice congiunto, si recherà in Lituania e Lettonia. Nella recente telefonata con il consigliere diplomatico di Macron, Emmanuel Bonne, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha lanciato un appello chiedendo a Parigi di spingere l’Ue “a perseguire una politica positiva e pragmatica verso la Cina” sulla visione comune di “indipendenza e autonomia” (dagli Usa) e di opposizione “a divisione del mondo e scontro tra campi”, nel resoconto dato da Pechino.

“La leadership cinese è abbastanza chiara su ciò che vuole – ha notato Abigael Vasselier, a capo delle relazioni estere di Merics, think tank tedesco focalizzato sulla Cina, in un briefing online -. Pechino non può permettersi di avere sempre più restrizioni sul mercato europeo, ma allo stesso tempo non ha un’offerta per l’Europa in questo momento”.

E la ragione è dovuta “alla vicinanza delle elezioni presidenziali Usa”, ha notato Francois Godement dell’Istitut Montaigne, in un forum dell’Atlantic Council. Xi, in altri termini, ha come priorità l’attività di lobbying contro le indagini anti-sovvenzioni dell’Ue, a partire da quelle sui veicoli elettrici che hanno preso di mira i produttori Byd, Saic e Geely, accusati di non aver fornito informazioni sufficienti. Pechino ha esportato verso l’Ue e-car per 11,5 miliardi di dollari nel 2023, in base alle stime di Rhodium Group, e il varo di dazi sarebbe un duro colpo.

Per altro verso, Xi punterà a stabilizzare le relazioni bilaterali, in una fase di rapporti Usa-Ue molto stretti dopo la guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, per evitare una saldatura transatlantica anche sul fronte commerciale. La frustrazione Ue verso Pechino è massima: una delle richieste di lunga data – di Macron e Scholz (che poche fa settimane era a Pechino) – alla Cina era di fare pressione su Putin per chiudere il conflitto contro Kiev.

“A due anni dall’inizio della guerra, gli europei hanno capito che questo non accadrà”, ha notato Vasselier. Anzi, sta avvenendo il contrario: Russia e Cina rafforzano i legami militari anche su Taipei. “Vediamo, per la prima volta, che si esercitano insieme in relazione a Taiwan”, ha detto Avril Haines, a capo del National Intelligence, durante l’audizione di giovedì al Congresso americano. Dopo la Francia, Xi andrà in Serbia (7-8 maggio), dove avrà colloqui con il presidente Aleksandar Vucic.

I due Paesi hanno una lunga amicizia, soprattutto dal 1999, quando la Nato bombardò l’ambasciata della Repubblica popolare a Belgrado, causando tre vittime cinesi. I leader commemoreranno i fatti di 25 anni fa, con prevedibili stoccate a Nato e Occidente.

Il presidente cinese sarà poi a Budapest (8-10 maggio), dove il premier Viktor Orban è al potere da 14 anni con posture sempre più autoritarie. L’Ungheria si divide tra Ue-Nato e legami diplomatici e commerciali con le autocrazie. Orban era l’unico leader Ue al forum Belt and Road Initiative di ottobre 2023: vide Xi e Putin, rafforzando il ruolo dell’Ungheria di ‘gate europeo’ della Repubblica popolare, confermato dal maxi-impianto di batterie per veicoli elettrici da 8 miliardi di dollari del colosso cinese Catl.

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Hamas avverte: l’intesa solo con la fine della guerra

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Le trattative al Cairo per una tregua a Gaza e il rilascio degli ostaggi restano ancora in bilico e nulla è dato per scontato, dopo che Hamas ha gelato i colloqui al termine di una giornata che aveva visto spiragli positivi su una possibile intesa. L’ottimismo filtrato dalla capitale egiziana – con i mediatori che parlavano di “progressi significativi” – si è attenuato in serata, quando un alto funzionario israeliano ha frenato gli entusiasmi accusando il gruppo palestinese di “vanificare gli sforzi” per l’intesa insistendo sulla precondizione di mettere fine alla guerra.

Un alto funzionario di Hamas ha infatti sottolineato che il gruppo “non accetterà in nessuna circostanza” una tregua a Gaza che non includa esplicitamente la fine completa dell’offensiva sulla Striscia. E ha accusato il premier israeliano Benyamin Netanyahu di “ostacolare personalmente” gli sforzi per raggiungere un accordo di tregua a causa di “interessi personali”. Da parte sua, lo Stato ebraico – hanno avvertito da Gerusalemme – “non accetterà in nessun caso la fine della guerra come parte di un accordo per il rilascio dei propri ostaggi”. Il nodo resta quindi sempre lo stesso, ma la delegazione di Hamas arrivata al Cairo continua a discutere lo schema generale dell’intesa con i mediatori egiziani e del Qatar.

Nelle informazioni contraddittorie sull’andamento dei colloqui, Barak Ravid del sito Axios aveva riferito della possibilità di Hamas di portare a termine la prima fase dell’accordo (il rilascio umanitario di ostaggi) senza un impegno ufficiale da parte di Israele a porre fine alla guerra. Secondo il quotidiano saudita Asharq, in cambio la fazione palestinese avrebbe solide garanzie dagli Stati Uniti sul cessate il fuoco, il completo ritiro dell’Idf dalla Striscia dopo le prime due fasi dell’intesa e la promessa che l’esercito israeliano non continuerà i combattimenti dopo il definitivo rilascio dei circa 130 ostaggi ancora a Gaza. Ma Israele ha continuato per tutto il giorno a invitare alla prudenza.

Una fonte dello Stato ebraico ha sottolineato che si “sta aspettando con ansia di vedere la posizione finale di Hamas, ma che le informazioni non sono ancora arrivate”. Poi ha insistito sostenendo che “alla luce dell’esperienze passate, anche se Hamas dice che sta seguendo lo schema, i piccoli dettagli e le riserve che presenterà potrebbero far naufragare l’accordo”. Per questo finora nessuna delegazione di Israele si è recata in Egitto, dove andrà – è stato spiegato – solo “se ci sarà una risposta da parte di Hamas che abbia un orizzonte per i negoziati”. Anche Benny Gantz, il ministro del Gabinetto di guerra, ha invitato alla pazienza confermando che i palestinesi ancora non hanno dato una risposta definitiva ai mediatori.

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken – dopo aver bocciato di nuovo l’intenzione di Israele di entrare a Rafah che comporterebbe “danni inaccettabili” – ha osservato che al momento “Hamas è l’unico ostacolo al cessate il fuoco a Gaza”. Mentre uno dei consiglieri del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, Taher Nunu, ha riaffermato che “qualunque accordo da raggiungere deve includere la completa e totale fine dell’aggressione e il pieno ritiro dell’occupazione da Gaza”. Nella ridda di notizie riguardanti la possibile intesa, il quotidiano saudita Asharq – ripreso dai media israeliani – ha ipotizzato che Israele sia disposto anche a rilasciare Marwan Barghouti, il leader palestinese di Fatah condannato a vari ergastoli per terrorismo. A patto che vada a Gaza e non in Cisgiordania.

Ma di un tema così spinoso in Israele non c’è alcuna conferma ufficiale. Fatto sta che le pressioni internazionali affinché l’accordo si faccia, dopo Israele, si stanno concentrando su Hamas. Il Qatar, ha rivelato Times of Israel, sarebbe pronto ad accettare la richiesta degli Usa di espellere da Doha la leadership di Hamas, tra cui Haniyeh stesso, se i leader della fazione continuassero a rifiutare l’intesa. Una richiesta, ha fatto sapere il Washington Post, consegnata da Blinken il mese scorso.

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