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‘Ndrangheta, parla il pentito Maurizio Pasquale De Carlo: ecco chi teneva i rapporti con la politica

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“In seno alla famiglia De Stefano, i soggetti che tenevano i rapporti con la politica erano l’avvocato Giorgio De Stefano e Franco Chirico. Noi giovani della cosca venivamo il piu’ delle volte tenuti all’oscuro dei rapporti con i politici, in quanto si trattava di questioni compromettenti”. La collaborazione con la giustizia di Maurizio Pasquale De Carlo puo’ provocare un terremoto all’interno della famiglia mafiosa di Archi. Le sue dichiarazioni, rese il 21 settembre scorso davanti al sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Walter Ignazitto, sono state depositate stamattina nel processo “Gotha” che si sta celebrando con il rito abbreviato davanti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria dove sono imputati l’avvocato Giorgio De Stefano, condannato in primo grado a 20 anni di carcere, e il nipote Dimitri De Stefano, condannato a 13 anni e 4 mesi, figlio del boss don Paolino e fratello del capocosca Giuseppe. De Carlo ha raccontato ai pm i suoi rapporti con De Stefano, e di quando lo accompagnava a casa dello zio. “I rapporti tra l’avvocato e la famiglia De Stefano – ha riferito – erano molto buoni. Anche se il primo era molto riservato. Ne’ Dimitri, ne’ Giovanni mi parlavano mai dell’avvocato De Stefano. Erano discorsi che non si potevano affrontare”. Il nuovo collaboratore di giustizia ha confermato anche quanto emerso dall’inchiesta “Gotha” condotta dai carabinieri del Ros. “Dimitri De Stefano – ha riferito a verbale – era meno operativo dei fratelli, ma portava qualche ambasciata agli affiliati. Ricordo pure che incontrava il fratello Carmine durante la latitanza. Lo accompagnai io stesso un paio di volte”.

Nel verbale ci sono molti omissis su alcuni nomi che adesso sono al vaglio della Dda. Come quello di un soggetto a cui il boss Giovanni De Stefano aveva dato 40 mila euro “prima di essere arrestato”. “Non so – ha detto il pentito – come avesse recuperato questo denaro, che senz’altro derivava da qualcuna delle sue attivita’ illecite”. Il collaboratore di giustizia era un imprenditore che, secondo i pm, curava gli interessi della cosca nel settore dell’edilizia. Al proposito De Carlo ha raccontato di un appalto di circa 200 mila euro relativo a un cantiere ad Archi. Era il 2007 o il 2008 quando De Carlo ricevette la visita di Giorgino De Stefano – compagno di Silvia Provvedi, ex partecipante al Grande Fratello in tv -, uno dei principali indagati nell’inchiesta “Malefix”. Stando al verbale, quest’ultimo gli disse che “aveva mandato un’ambasciata suo fratello Giuseppe, all’epoca latitante, il quale aveva stabilito che il lavoro doveva essere fatto in societa’ con loro”. “Quando Giuseppe De Stefano – ha aggiunto il collaboratore – diceva che i lavori dovevano farsi in societa’, in realta’ mi imponeva una ‘mazzetta’, solo che, essendo io un soggetto intraneo alla cosca, non veniva usata questa terminologia e si preferiva un approccio piu’ ‘garbato’. In realta’ mi si chiedeva di dare il 50% dei proventi, senza che i De Stefano conferissero alcuna quota di capitale, né contribuissero con apporti lavorativi di alcun genere”.

Nel luglio 2018 avrebbe informato i boss delle cosca Cacciola-Grasso di Rosarno che i carabinieri stavano per eseguire l’operazione “Ares” e che sarebbero finiti in carcere. Con l’accusa di concorso esterno con la ‘Ndranghetastamani un ex poliziotto e’ stato arrestato dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria Si tratta di un ex sovrintendente, G.C. di 45 anni, in servizio fino allo scorso mese di agosto nel posto di polizia di Frontiera marittima all’interno del porto di Gioia Tauro. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere e’ stata emessa dal gip Tommasina Cotroneo, su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gaetano Calogero Paci e del pm Sabrina Fornaro. L’indagine che ha portato all’arresto dell’ex poliziotto – denominata Antenora – scaturisce da quanto accaduto la notte del 9 luglio 2018 quando la Dda di Reggio Calabria aveva emesso un fermo di indiziato di delitto nei confronti di 38 soggetti appartenenti o contigui alle cosche Cacciola e Grasso. Quella notte sette indagati sfuggirono all’arresto e tra questi Rosario Grasso, elemento di spicco e rampollo del clan. I sette latitanti, nel giro di pochi mesi, sono stati tutti catturati e la Dda e’ riuscita anche a individuare le connivenze che gli avevano consentito di darsi alla fuga. In particolare, stando all’inchiesta, quella notte il giovane boss ed i suoi piu’ stretti collaboratori erano stati avvertiti con una telefonata inviata da un appartenente alle forze dell’ordine sull’apporto del quale i componenti della cosca avevano potuto contare sino a quel momento. Dopo numerosi accertamenti, condottI con la collaborazione del Reparto Indagini Tecniche del Ros dei carabinieri, l’autore e’ stato identificato nell’ex poliziotto originario della provincia reggina, ma residente in Sicilia. Dalle indagini, inoltre, e’ emerso che l’ex sovrintendente non avrebbe favorito la cosca solo in quell’occasione, ma avrebbe rappresentato un supporto indispensabile per l’ingresso nel porto di Gioia Tauro di ingenti quantitativi di cocaina provenienti dal Sudamerica. Per farlo, G.C. sarebbe stato sistematicamente retribuito e per questo, oltre all’accusa di concorso esterno con la ‘Ndrangheta, la Dda gli contesta anche la corruzione propria e la partecipazione ad associazioni dedite al narcotraffico internazionale.

“E’ stata un’indagine lunga e complessa che ha richiesto uno sforzo tecnico imponente ai carabinieri del gruppo di Gioia Tauro e dell Ros centrale con esame ed incroci di migliaia e migliaia di dati telefonici che hanno consentito di individuare il telefono da cui e’ partito il messaggio che all’epoca avvisava Rosario Grasso dell’operazione in corso e che e’ costato il mancato arresto di ben 7 latitanti nell’operazione Ares, tutti successivamente catturati, e di riferire l’uso dell’apparecchio stesso all’indagato”. Lo ha detto il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, in merito all’operazione “Antenora” che ha portato stamattina all’arresto di un ex poliziotto in servizio nel porto di Gioia Tauro. “Anche grazie alle dichiarazioni raccolte da altro indagato nel procedimento Ares, proprio uno di quelli sfuggiti inizialmente alla cattura, – ha aggiunto il Procuratore – e’ stato possibile ricostruire il coinvolgimento del soggetto arrestato, all’epoca in cui era in servizio nel porto di Gioia Tauro, in alcuni grossi traffici di sostanze stupefacenti riferibili a due pericolose organizzazioni criminali di’ narcotrafficanti, gia’ oggetto di processi a Torino ed a Palmi”.

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Chico Forti in Italia: tra buona condotta e benefici, ipotesi libertà vigilata

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In Italia Chico Forti potrebbe ottenere la libertà condizionale. Lo conferma l’avvocato Alexandro Tirelli, già consulente dello zio di Forti e presidente delle Camere penali internazionali. Un beneficio che si può concedere “dopo 26 anni dall’applicazione dell’ergastolo e se il condannato resipiscente ha dimostrato condotta irreprensibile”. L’ordinamento italiano, spiega Tirelli, “non prevede il ‘fine pena mai’ per un omicidio volontario, ovvero l’ergastolo ostativo e Forti negli Stati Uniti è stato condannato al ‘lifetime without parole’, corrispondente appunto al fine pena mai.

Lì ha già scontato tra i 24 e i 25 anni di detenzione, quindi allo scadere del 26/o anno di prigionia (ergastolo nominale, ndr) potrebbe chiedere di essere liberato e ottenere la libertà vigilata”. Dunque, “potrebbe uscire dal carcere e cominciare il periodo di cinque anni di libertà vigilata al termine del quale, se non avrà commesso ulteriori reati, potrà ottenere la piena libertà, cioè il fine pena”. Il surfista e produttore televisivo trentino, fu condannato nel 2000 all’ergastolo “lifetime without parole” da un tribunale della Florida per l’omicidio premeditato di un imprenditore australiano, quindi, “avendo già scontato ormai 24 anni, ritengo che il Tribunale di sorveglianza debba riconoscergli i benefici di legge: uno sconto di pena di tre mesi per ogni anno di pena sofferta in prigione”, spiega il legale.

E ricorda che “se l’amministrazione Trump, come quella di Biden, sono sempre state favorevoli, per quanto riguarda il caso Forti, all’applicazione del trattato tra i due Paesi in base al quale una persona condannata in Italia o negli Stati Uniti può scontare una parte residuale della pena in patria, Ron DeSantis, governatore della Florida, è sempre stato contrario”. In punta di dottrina, Forti non è stato estradato, gli è soltanto stato concesso di venire in Italia per scontare il residuo della pena. “Gli americani quando decisero di consegnarlo all’Italia – spiega Tirelli – imposero la condizione che venisse rispettata la sentenza americana. Condizione, come dicevo, dal mio punto di vista irrealizzabile: non si può irrogare una pena non prevista dal codice. In Italia l’ergastolo ostativo è inflitto solo per omicidi di mafia o fatti internazionali”.

C’è un’altra eventualità: in caso di “problemi di salute potrebbe anche arrivare un provvedimento clemenziale”. Il legale è convinto che uno degli ostacoli superati nelle trattative per il rilascio, sia stato che Forti accettasse il verdetto della giustizia americana e “non diffamasse il sistema di giustizia americano”. Condizione quest’ultima da rispettare anche una volta giunto in Italia. “Credo questa sia stata la chiave di volta ed infatti Forti, che fino a dicembre si dichiarava innocente, ha poi accettato il verdetto della giustizia americana. Oggi è finalmente in Italia”, conclude il legale.

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Atti di bullismo su una carabiniera, la denuncia alla procura militare

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Un presunto atto di bullismo in caserma a Modena, ai danni di una giovane carabiniera, è stato segnalato dal sindacato Nsc. “Auspichiamo una ferma indagine della Procura ordinaria e militare”, dice il segretario generale dell’Emilia-Romagna Giovanni Morgese su Facebook. Il sindacato Nsc non fornisce dettagli su quanto avvenuto, parla di “gesto intollerabile” e dice già che valuterà la costituzione di parte civile.

L’episodio oggetto della segnalazione, secondo quanto si è potuto apprendere, sarebbe avvenuto nei giorni scorsi, all’ingresso di una caserma, quando un superiore avrebbe apposto dei tratti di penna con un “visto”, sulla fronte della carabiniera. Un gesto che sarebbe emerso in un contesto ancora da definire, ma sarebbe circolato con foto in chat e che è stato oggetto di una relazione all’Autorità da chi l’ha saputo.

La Procura Militare, informata nell’immediatezza dall’Arma, avrebbe nei giorni scorsi disposto gli indispensabili approfondimenti investigativi per comprendere le esatte circostanze e le motivazioni del riferito gesto mentre l’Arma ha già avviato le procedure interne per la valutazione disciplinare del personale coinvolto nella vicenda e il suo trasferimento in altre sedi. Anche la Procura ordinaria di Modena si sarebbe attivata, aprendo un fascicolo e disponendo indagini.

Anche il sindacato Unarma è intervenuto, con il segretario provinciale Antonio Loparco: “Pensavamo subito ad uno scherzo, oppure ad una scena di un film comico. Pensiamo che la cosa, come riportata, sia davvero molto grave. Da genitori e coniugi, non immaginiamo l’effetto che può provocare ai familiari della carabiniera appena hanno appreso la notizia. Una cosa inaudita senza precedenti. Che provoca un discredito irreparabile all’Arma dei Carabinieri”.

L’avvocato Luca Camaggi, difensore dell’ufficiale in questione, in una nota ha detto che pur non volendo entrare nel merito, il suo assistito “intende precisare che la narrazione che degli stessi è stata data è quanto di più distante dai principi e dai valori che hanno sempre guidato il suo agire. Siamo certi che nelle sedi opportune ci sarà modo di offrire una ricostruzione veritiera dell’episodio, da non potersi certo ricondurre a gesti ridicolizzanti o offensivi della collega del comandante”. Sempre a Modena, è di ieri la notizia della richiesta di rinvio a giudizio per il tenente colonnello Giampaolo Cati, accusato di stalking ai danni di 11 sottoposti al centro ippico dell’Accademia militare, con condotte sessiste e umilianti. A marzo, ancora nella città emiliana, due ufficiali dell’Arma sono stati trasferiti dopo il caso dei video del brigadiere che picchiava persone fermate.

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Ucciso a 5 mesi dal pitbull, procura apre un’inchiesta

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Per il neonato ucciso ieri dal cane di casa, un pitbull, la procura di Vercelli ha aperto un fascicolo per appurare eventuali responsabilità. Il piccolo Michele, 5 mesi, era stato azzannato dall’animale nel tardo pomeriggio, mentre era nel cortile di casa a Palazzolo (Vercelli) con la nonna che lo accudiva, mentre i genitori si erano allontanati come accadeva ogni tanto, per la spesa o per seguire dei lavori di risistemazione di un’altra casa. La nonna ora è in ospedale a Vercelli, per lievi ferite riportate durante l’aggressione avvenuta da parte del cane, ma soprattutto perché sotto shock per l’accaduto.

Il bambino era stato improvvisamente assalito dal cane di proprietà dei genitori: l’animale aveva puntato più volte alla parte posteriore del collo e al cranio. Titolare dell’indagine è il sostituto procuratore Michele Paternò e al momento è stato disposto il sequestro del cane, Nerone, un pitbull di otto anni, per motivi di sicurezza e per verificare un’eventuale indole pericolosa. L’animale ora si trova quindi in un canile della zona. L’inchiesta è indirizzata anche all’accertamento di eventuali negligenze da parte dei proprietari del cane e ieri sera sarebbero stati portati via dall’abitazione dove la coppia viveva con bebè e nonna, altri due cani di proprietà della famiglia.

Erano stati gli stessi genitori, una volta rientrati in casa, a lanciare l’allarme e a portare il figlio in fin di vita verso l’elisoccorso, atterrato nel campo sportivo del paese per un tentativo estremo di salvarlo. Animalisti e associazioni dei consumatori hanno reagito chiedendo nuovamente di regolamentare “con urgenza la detenzione di determinate razze o simil-razze” come sottolinea ad esempio l’Oipa. I casi simili infatti si ripetono, dal bambino di un anno morto a Eboli, ad altre due aggressioni finite senza conseguenze estreme nel Foggiano, ai danni di una bimba e di un’adolescente, di cui era stata data notizia proprio ieri.

Viene inoltre evidenziato dal Codacons come “l’aver eliminato la lista delle 17 razze di cani a rischio introdotta dall’ ex ministro Sirchia ha di fatto cancellato qualsiasi obbligo per i loro proprietari, con conseguenze negative sul fronte della sicurezza”, chiedendo un “patentino per i cani potenzialmente pericolosi”. Dall’Aidaa, che esprime vicinanza alla famiglia, arriva intanto un appello anche per il pitbull: “Annunciamo fin da ora che faremo tutto il possibile per garantire salva la vita di quel cane, che in fondo si è solo comportato come il suo istinto gli ha suggerito”.

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