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Kramatorsk stremata spera nella controffensiva

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A Kramatorsk la guerra si vede negli scheletri dei capannoni e dei palazzi bombardati, si ascolta dalle esplosioni in lontananza, si tocca nei resti di un ordigno che ha sventrato l’ennesima scuola in città. E si incontra per strada, dove il viavai continuo di militari si alterna alla – poca – gente comune che prova a dare un senso di normalità a una città che si è ormai abituata alle sirene dell’allarme aereo che suonano in continuazione. “Se ci chiedete se abbiamo armi occidentali, non commentiamo”, scherzano alcuni soldati raccolti nel parcheggio di un supermercato. Qui vengono a fare provviste, prelevare, e c’è anche un negozio dove poter acquistare materiale tattico e zaini mimetici. Nessuno nasconde la stanchezza di una guerra che al fronte va avanti da mesi, senza sosta.

“Nessuno di noi ha ricevuto un cambio dall’inizio della guerra. Ma non lo vogliamo”, dice uno dei militari con un certo orgoglio. Tra tutti, il suo gruppetto è chiaramente il più duro di tutti: “Siamo un’unità offensiva”, ci tiene a sottolineare. “Non siamo qui per divertimento, siamo qui per finire il nostro lavoro. È questo il nostro obiettivo. E per farlo viviamo un giorno alla volta”. Indicando la parte anteriore del suo pick-up, mostra il parabrezza sfondato dai proiettili. Poi apre lo sportello posteriore e mostra alcuni lanciarazzi. “Non ci interessano le notizie su Bakhmut, sul fatto che potrebbe cadere. Noi siamo certi che stiamo facendo bene il nostro lavoro. Tutti i miei compagni credono nella vittoria, i miei figli anche, e combatteremo fino a ottenerla”.

Pochi passi più in là, un altro capannello di soldati è più realista, ma non meno fiducioso. “La situazione è molto difficile al fronte, ci sono momenti positivi e altri negativi, ma siamo tutti ottimisti”, dice un ufficiale. “Naturalmente siamo umani e siamo stanchi, lo vedo negli occhi dei miei commilitoni”. Ma guarda già alla controffensiva: “Nessuno di noi sa quando e dove inizierà, ma tutti ci speriamo e la aspettiamo. C’è un grandissimo lavoro dietro e non dobbiamo avere fretta, dobbiamo essere calmi e lavorare passo dopo passo”. Facendo pochi metri si raggiunge la vasta piazza Myru. Troppo grande ormai per una città svuotata dalla guerra. Qui si affaccia il consiglio municipale, ma l’ingresso principale è sbarrato dai sacchi di sabbia. Si deve entrare dal retro e si va direttamente sotto terra, dove ormai si trovano gli uffici. Ululano ancora le sirene mentre scendiamo le scale per incontrare il sindaco, Oleksandr Honcharenko.

Anche qui gli occhi guardano al fronte di Bakhmut, a soli 20 chilometri in linea d’aria. “Le forze armate stanno difendendo e tenendo la città dallo scorso settembre” e “noi speriamo che fermino i russi lì perché siamo consapevoli che le prossime città sarebbero Kostantinovka, Chasiv Yar, Druzivka e poi Kramatorsk e Sloviansk. Per evitare questa possibilità devono continuare a fare il loro lavoro, anche se purtroppo costa tantissime vite”, dice. Intanto, “stiamo chiedendo costantemente ai nostri cittadini e sfollati di non tornare”. Il programma governativo delle evacuazioni “sta funzionando”, ma in città ci sono ancora circa 80 mila persone, anche bambini. “Un popolo forte”, sottolinea il sindaco, ricordando come la città si è rialzata anche dopo il bombardamento della stazione ferroviaria che ad aprile dello scorso anno uccise 60 civili. “E’ stato il momento più triste della storia della nostra comunità”.

“Dal mio punto di vista Kramatorsk non sarà una seconda Bakhmut”, è convinto Honcharenko, “anche se il rischio per i nostri cittadini sta aumentando”: per questo “abbiamo bisogno delle armi occidentali, che arrivano, ma ce ne servono di più per fermare i russi”. In ogni caso, “sono convinto che alla fine di questa guerra anche l’Ucraina avrà una nuova festa” come quella del 25 aprile in Italia, dice il sindaco. “Spero che avremo il giorno della vittoria sui rashisti”, la parola che qui in Ucraina unisce Russia e fascisti. Ma se militari e autorità ostentano fiducia, è soprattutto la paura che si incontra tra la gente comune che si affretta tra le strade silenziose della città. Perché le bombe cadono, come quelle che nella notte hanno sventrato l’edificio di una scuola lasciando enormi crateri nel giardino. Già il 22 luglio dello scorso anno un’altra scuola fu bombardata, a pochi minuti di auto di distanza.

“Quel giorno era molto presto di mattina”, ricorda Margarita, 52 anni, che vive poco lontano. Era appena tornata a casa dopo essere stata 4 mesi in Polonia. Ma nonostante tutto, non vuole andarsene più. “La nostra più grande paura è la situazione a Bakhmut, se i nostri soldati si ritireranno”, dice, mentre a pochi passi suo nipote gioca vicino ai resti della scuola bombardata. “E anche noi stiamo aspettando la controffensiva”, aggiunge fiduciosa. Ci prova con tutte le sue forze, Kramatorsk, a ritagliarsi quella speranza necessaria ad andare avanti, a sopravvivere ad una guerra che sembra non finire mai.

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Lukashenko sta costruendo una mega residenza in Russia

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Una società privata legata al presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, sta costruendo un’enorme residenza con un hotel, ristoranti e chalet sulle montagne vicino a Sochi, in Russia: lo riporta The Insider, che cita un’inchiesta congiunta dei giornalisti dell’emittente polacca Belsat e dell’associazione delle ex forze di sicurezza bielorusse Belpol. Secondo quest’ultima, il nuovo complesso – che sorgerà su un terreno di oltre 97.248 metri nel villaggio di Krasnaya Polyana – è destinato al leader bielorusso. Dall’inchiesta è emerso infatti che il progetto coinvolge i suoi più stretti collaboratori e viene finanziato con fondi riconducibili a Lukashenko.

Secondo i giornalisti di Belsat il presidente bielorusso si trasferirà in questa proprietà dopo aver lasciato l’incarico: Lukashenko avrebbe deciso di costruire una residenza fuori dalla Bielorussia dopo le elezioni e le successive proteste del 2020. Nel villaggio di Krasnaya Polyana ci sono alcune tra le più esclusive ed eleganti stazioni sciistiche del Paese, tra cui quella di Roza Khutor, che ha ospitato alcune gare delle Olimpiadi invernali 2014. E la nuova residenza promette di non essere da meno, con piscine, una “sicurezza armata” e maniglie delle porte placcate in oro. Il progetto prevede la costruzione di 12 immobili – tra cui un hotel e diversi chalet – con una superficie totale di 7.374 metri quadrati. L'”edificio principale”, destinato al proprietario, dovrebbe occupare un terzo della superficie edificabile totale.

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Re Carlo torna in pubblico e sorride, ‘sto bene’

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Un ritorno a mezzo servizio sulla scena degli impegni pubblici che non scioglie tutte le incognite, ma certo fa tirare un sospiro di sollievo al Regno Unito. Re Carlo III riavvolge il film di questo inizio d’anno maledetto per la monarchia britannica e si ripresenta alla platea dei sudditi per il primo appuntamento ufficiale fra la gente da oltre tre mesi, dopo la diagnosi di cancro svelata urbi et orbi a febbraio e i risultati “molto incoraggianti” (parola dei suoi medici) d’una prima fase di terapie tuttora in corso. Una rentrée all’insegna dei sorrisi e del contatto umano per il monarca 75enne, affiancato dall’inseparabile regina Camilla, pilastro della sua vita. Ma pure un momento altamente simbolico, vista la meta prescelta per la visita d’esordio di questa sorta di nuovo inizio, nel rispetto di quanto preannunciato da Buckingham Palace venerdì: l’University College London Hospital e l’annesso Macmillan Cancer Centre, istituto oncologico d’eccellenza sull’isola dove la coppia reale si è soffermata a parlare fitto fitto con medici, infermieri e soprattutto pazienti, non senza far rilanciare dalla viva voce di Sua Maestà un accorato messaggio a favore della prevenzione, dei controlli, delle cure “precoci” come armi “cruciali” per affrontare una malattia che non fa distinzioni fra teste coronate e non.

Accolti già fuori dall’ospedale da fan e curiosi, e poi fra le corsie da mazzi di fiori e auguri, Carlo e Camilla hanno cercato in tutti i modi di dare un’immagine incoraggiante, se non proprio da business as usual. “Non sei solo”, hanno fatto sapere al monarca alcuni dei presenti, in uno scenario in cui a tratti il primogenito di Elisabetta II – da oggi neo patrono del Cancer Research UK – è parso scambiare confessioni intime, persino qualche inusuale contatto fisico fatto di strette di mani prolungate con i malati: quasi come un paziente tra i pazienti. “Sto bene”, ha detto fra l’altro a una di loro, Asha Miller, in chemioterapia, rispondendo all’affettuoso “come si sente?” che la donna gli aveva rivolto stando a quanto da lei stessa raccontato più tardi ai giornalisti. Mentre vari testimoni hanno riferito di aver visto un re emozionato, ma “pieno di energia”. Parole che suggellano gli spiragli di ottimismo alimentati in queste ore dai vertici politici del Paese come da diversi commentatori dei media mainstream dopo le congetture allarmistiche di certa stampa scandalistica Usa.

Anche se sullo sfondo restano gli elementi di prudenza suggeriti dagli stessi comunicati di palazzo, che per i prossimi mesi si limitano per adesso ad evocare una ripresa parziale dell’attività pubblica di rappresentanza dinastica del sovrano: “calibrata con attenzione” e soggetta a conferme da formalizzare di volta in volta in relazione a eventi chiave quali la tradizionale parata di giugno di Trooping the Colour, l’agenda della visita di Stato a Londra della coppia imperiale del Giappone, o quella d’un viaggio in Australia di due settimane fissato orientativamente per ottobre. Già dalla settimana prossima, intanto, a rubare la scena in casa Windsor sarà un fugace rientro in patria del principe ribelle Harry, in arrivo entro l’8 maggio dall’autoesilio americano per partecipare al decimo anniversario degli Invictus Games, giochi sportivi riservati ai militari mutilati che egli patrocina sin dalla fondazione. Anche se non si sa se nell’occasione vi sarà spazio per un nuovo faccia a faccia fra padre e figlio, dopo la visita fatta di getto dal duca di Sussex al genitore a febbraio all’indomani della notizia della diagnosi di un cancro la cui natura resta per ora imprecisata.

Viaggio in cui del resto il principe cadetto – come confermato da una sua portavoce – non sarà accompagnato da Meghan, né dai figlioletti Archie e Lilibet, salvo ricongiungersi con la consorte in una successiva missione in Nigeria, Paese del Commonwealth. E che tanto meno sembra poter preludere a un disgelo col fratello maggiore William. Il tutto mentre rimane ad oggi ignota qualsiasi scadenza su un potenziale ritorno in pubblico anche della 42enne principessa di Galles, Kate, moglie dell’erede al trono, colpita a sua volta da un cancro di tipo non specificato reso noto nel toccante video alla nazione di marzo, due mesi dopo una delicata operazione all’addome. E reduce da una celebrazione privatissima, strettamente familiare, del suo 13esimo anniversario di matrimonio: il più difficile, in una favola regale divenuta dolorosa realtà.

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Netanyahu: entreremo a Rafah con o senza accordo

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Rafah resta nel mirino di Benyamin Netanyahu, con o senza accordo con Hamas per una tregua di lunga durata. Nonostante l’ottimismo per un’intesa che nelle prossime 48 ore si dovrebbe concretizzare nelle trattative al Cairo, il premier israeliano insiste – almeno a parole – nel rivendicare la necessità dell’operazione militare nella città più a sud di Gaza, piena di sfollati palestinesi. Durante un incontro con i rappresentanti delle famiglie dei circa 130 ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas dal 7 ottobre scorso, Netanyahu ha ribadito che “l’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere tutti i nostri obiettivi è inaccettabile”. “Noi – ha spiegato – entreremo a Rafah e annienteremo tutti i battaglioni di Hamas presenti lì, con o senza un accordo, per ottenere la vittoria totale”.

Una mossa tuttavia che deve fare i conti con la netta opposizione degli Stati Uniti, che non vogliono l’operazione di terra, oltre che dell’Onu (“sarebbe un’escalation intollerabile”, secondo il segretario generale Guterres), e con lo spettro di possibili mandati di arresto per crimini di guerra da parte della Corte penale internazionale dell’Aja sia per il premier sia per altri membri della leadership politico-militare di Israele. Non a caso Netanyahu ha denunciato che la Corte non ha “alcuna autorità su Israele” e che gli eventuali mandati sarebbero “un crimine d’odio antisemita”.

Spetta ora al segretario di Stato Usa Antony Blinken alla sua ennesima missione, da stasera, in Israele spingere sull’accordo che sembra in dirittura d’arrivo e fare della ventilata iniziativa della Cpi il grimaldello con Netanyahu per rimuovere dal tavolo l’operazione militare a Rafah, per la quale l’Idf ha già i piani pronti. Le indiscrezioni sull’intesa riportate dal Wall Street Journal prevedono due fasi: la prima con il rilascio di almeno 20 ostaggi in 3 settimane per un numero imprecisato di prigionieri palestinesi; la seconda include un cessate il fuoco di 10 settimane durante le quali Hamas e Israele si accorderebbero su un rilascio più ampio di ostaggi e su una pausa prolungata nei combattimenti che potrebbe durare fino a un anno. Un obiettivo così importante, a quasi 7 mesi dall’inizio della guerra, che ha spinto Blinken a rivolgersi direttamente ad Hamas per chiedere alla fazione palestinese di accettare “senza ulteriori ritardi” la proposta.

Lo spettro dell’Aja per Israele sta assumendo intanto contorni sempre più netti visto che gli investigatori della Cpi, secondo la Reuters, hanno raccolto testimonianze tra il personale dei due maggiori ospedali di Gaza. “Le fonti, che hanno chiesto di non essere identificate per la delicatezza dell’argomento, hanno riferito che gli investigatori della Cpi hanno raccolto testimonianze dal personale che ha lavorato nel principale ospedale di Gaza City, l’Al Shifa, e nel Nasser, il maggior nosocomio di Khan Younis”. “La possibilità che la Cpi emetta mandati di arresto per crimini di guerra contro comandanti dell’Idf e leader di Stato, è uno scandalo su scala storica”, ha ribattuto Netanyahu.

“Sarà la prima volta che un Paese democratico, che lotta per la propria esistenza secondo tutte le regole del diritto internazionale, verrà accusato di crimini di guerra. Se dovesse accadere – ha tuonato il primo ministro israeliano – sarebbe una macchia indelebile per tutta l’umanità. Un crimine d’odio antisemita, che aggiungerebbe benzina all’antisemitismo”. Al 207esimo giorno di conflitto intanto, si comincia a intravedere la concretezza della continuità degli aiuti umanitari a Gaza. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza americana John Kirby ha fatto sapere che “il molo temporaneo per l’ingresso di aiuti a Gaza sarà completato nei prossimi giorni” dato che i lavori di costruzione stanno procedendo “molto velocemente”. Il Centcom ha anche diffuso le immagini del molo costruito al largo della costa della Striscia. Le foto mostrano l’equipaggio di diverse navi militari impegnato nella costruzione della piattaforma, che avrà un costo di circa 320 milioni di dollari.

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