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“In vita mia solo violenza”, i diari del mostro del Circeo

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featured, Stupro di gruppo, 6 anni ,calciatore, Portanova

“Se mi guardo indietro vedo solo una sequela di reati e violenza. Ma questa è stata la mia vita. Non mi piace l’idea della vita borghese cui ero destinato, e perciò va bene così”. Dal 2016 Angelo Izzo, il mostro del Circeo, ha iniziato a scrivere. E non ha più smesso: migliaia di pagine che vanno a comporre un diario dell’orrore, brutale e fino ad oggi inedito. Quelle pagine sono il cuore di ‘Io sono l’uomo nero – dal Circeo a Ferrazzano la storia mai raccontata di Angelo Izzo e dei suoi crimini’ (Rai Libri). Un libro duro e crudo nonostante la “censura” che, come dice la stessa autrice Ilaria Amenta – giornalista del Gr Radio, da oltre vent’anni in Rai – si è resa necessaria, non solo per motivi editoriali.

“C’è un altro limite, non valicabile. Nella prosa di Izzo ci sono lo stesso sadismo, la stessa presunzione di impunità, lo stesso disprezzo che caratterizzano il suo agire criminale… Per non permettere a Izzo di perpetrare il suo delitto e continuare a violare le vittime c’era la necessità… di un filtro che comunque non tradisse la fedeltà dell’originale. I dettagli più scabrosi e macabri, li lasciamo all’autore, agli autori, narcisi del male”. Il libro nasce per caso. L’autrice aveva contattato un’associazione che si occupa di invalidità civile visto che la madre era stata ricoverata dopo una brutta caduta e uno degli operatori, un giorno, le confessò di avere nel cassetto alcuni memoriali di Izzo, avuti a sua volta da un suo assistito che aveva avuto diversi guai con la giustizia ed era stato in carcere con lui. ‘Io sono l’uomo nero’ “nasce dunque ‘grazie’ a quelle pagine” ma “da quelle pagine – scrive l’autrice – prende tutta la distanza possibile, perché quelle pagine sono un documento sull’orrore di una mente, di un gruppo di persone, che ha lasciato cicatrici indelebili”.

Nel libro ci sono i racconti del primo stupro commesso, nella primavera del 1974, un anno e mezzo prima del massacro del Circeo; le descrizioni dei suoi amici – il “mio gruppo di drughi formato da fanatici dell’ultraviolenza” – e quella delle rapine in banca: “Ci sembrava facilissimo, ci esaltava e dava alla testa. Erano proprio una droga per noi, ci sentivamo davvero invulnerabili”. E c’è il racconto in prima persona dell’orrore che il 29 settembre del 1975 dovettero subire Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Le due ragazze “erano lì perché le volevamo uccidere, non violentarle. Nessuno l’ha ipotizzato e capito” dice Izzo prima di raccontare per filo e per segno quelle 36 ore nella villa al Circeo. Racconto che è stato, appunto, tagliato. “Ho dovuto e voluto censurare” scrive Amenta che poi aggiunge: “Non è stato facile trascrivere queste pagine, ho vissuto le sevizie con Rossella e Donatella, ero stanca e sfinita con Rosaria e Donatella… L’orrore e il raccapriccio sono diventati i sentimenti dominanti. Mi sono chiesta se avessi voglia e forza di andare avanti. Ho deciso di farlo per tentare di entrare nella testa del mostro e per ricordare Rosaria e Donatella prima di tutto, ma anche tutte le battaglie che, dai quei fatti, i movimenti femministi e non solo hanno cavalcato”.

Izzo oggi ha 67 anni ed è in carcere dove sta scontando il suo secondo ergastolo, quello per il delitto di Ferrazzano in cui uccise Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina. E anche questo è raccontato nei dettagli. Ma perché pubblicare tutto questo orrore? “Per provare a capire come un’anima possa attraversare la linea del bene senza riuscire a tornare indietro e come – dopo aver scontato trent’anni di carcere per il massacro del Circeo – si possa compiere lo stesso delitto con la stessa identica efferatezza. Senza un minimo accenno di pentimento” prova a spiegare Amenta. Un’assenza di pentimento che è chiarissima, scorrendo le parole scritte dal mostro del Circeo. “Avevo pure collaborato con la giustizia, ma l’ho fatto per uscire, per poi tornare a commettere reati di fuori. Non ho mai voluto fare altro”.

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Last Banner, aumentano le condanne per gli ultrà della Juventus

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Sugli ultrà della Juventus la giustizia mette il carico da undici. Resta confermata l’ipotesi di associazione per delinquere, l’estorsione diventa ‘consumata’ e non solo più ‘tentata’, le condanne aumentano. Il processo d’appello per il caso Last Banner si chiude, a Torino, con una sentenza che vede Dino Mocciola, leader storico dei Drughi, passare da 4 anni e 10 mesi a 8 anni di carcere; per Salvatore Ceva, Sergio Genre, Umberto Toia e Giuseppe Franzo la pena raggiunge i 4 anni e 7 mesi, 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 mesi, 3 anni e 11 mesi. A Franzo viene anche revocata la condizionale.

La Corte subalpina, secondo quanto si ricava dal dispositivo, ha accettato l’impostazione del pg Chiara Maina, che aveva chiesto più severità rispetto al giudizio di primo grado. Secondo le accuse, le intemperanze da stadio e gli scioperi del tifo furono, nel corso della stagione 2018-19, gli strumenti con cui le frange più estreme della curva fecero pressione sulla Juventusper non perdere agevolazioni e privilegi in materia di biglietti. Fino a quando la società non presentò la denuncia che innescò una lunga e articolata indagine della Digos. Già la sentenza del tribunale, pronunciata nell’ottobre del 2021, era stata definita di portata storica perché non era mai successo che a un gruppo ultras venisse incollata l’etichetta di associazione per delinquere. Quella di appello si è spinta anche oltre.

Alcune settimane fa le tesi degli inquirenti avevano superato un primo vaglio della Cassazione: i supremi giudici, al termine di uno dei filoni secondari di Last Banner, avevano confermato la condanna (due mesi e 20 giorni poi ridotti in appello) inflitta a 57enne militante dei Drughi chiamato a rispondere di violenza privata: in occasione di un paio di partite casalinghe della Juve, il tifoso delimitò con il nastro adesivo le zone degli spalti che gli ultrà volevano per loro e allontanò in malo modo gli spettatori ‘ordinari’ che cercavano un posto. Oggi il commento a caldo di Luigi Chiappero, l’avvocato che insieme alla collega Maria Turco ha patrocinato la Juventus come legale di parte civile, è che “il risultato, cui si è giunti con una azione congiunta della questura e della società, è anche il frutto dell’impegno profuso per aumentare la funzionalità degli stadi”. “Senza la complessa macchina organizzativa allestita in materia di sicurezza – spiega il penalista – non si sarebbe mai potuto conoscere nei dettagli ciò che accadeva nella curva”. Fra le parti civili c’era anche Alberto Pairetto, l’uomo della Juventus incaricato di tenere i rapporti con gli ultrà.

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Malore in caserma, muore vigile del fuoco

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Ha accusato un malore nella notte tra domenica e lunedì nella caserma dei vigili del fuoco del Lingotto a Torino ed è morto dopo circa un’ora all’ospedale delle Molinette, dove era stato ricoverato. L’uomo, Samuele Del Ministro, aveva 50 anni ed era originario di Pescia (Pistoia). In una nota i colleghi del comando vigili del fuoco di Pistoia ricordano come Del Ministro avesse iniziato il suo percorso nel corpo nazionale dei vigili del fuoco con il servizio di leva, per poi entrare in servizio permanente nel 2001, proprio al comando provinciale di Torino, da cui fu poi trasferito al comando di Pistoia.

Per circa vent’anni ha prestato servizio nella sede distaccata di Montecatini Terme (Pistoia), specializzandosi in tecniche speleo alpino fluviali e tecniche di primo soccorso sanitario. Ha partecipato a tante fasi emergenziali sul territorio nazionale: dal terremoto a L’Aquila, all’incidente della Costa Concordia all’Isola del Giglio, fino al terremoto nel centro Italia. “Un vigile sempre in prima linea – si legge ancora -, poi il passaggio di qualifica al ruolo di capo squadra con assegnazione al comando vigilfuoco di Torino e a breve sarebbe rientrato al comando provinciale di Pistoia. Del Ministro lascia la moglie e due figli”.

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Nei campi 200 milioni di danni, razzia cinghiali

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Vigneti e uliveti, ma anche pascoli e prati, campi di mais e cereali, coltivazioni di girasole, ortaggi: è lunga la lista della razzia compiuta dalla fauna selvatica “incontrollata” dove i cinghiali, con una popolazione che ha raggiunto i 2,3 milioni di esemplari sul territorio nazionale, costituiscono il pericolo maggiore. La conseguenza sono 200 milioni di euro di danni solo nell’ultimo anno all’agricoltura italiana. La Puglia, con oltre 30 milioni di euro e 250mila cinghiali, e la Toscana con oltre 20 milioni di cui l’80% a causa dei 200mila cinghiali, sono le regioni che hanno pagato di più. Questa la fotografia scattata dalla Coldiretti in occasione delle 96 Assemblee organizzate in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con la partecipazione di oltre 50mila agricoltori, per celebrare dai territori gli 80 anni dell’associazione agricola.

In particolare, secondo la mappa realizzata da Coldiretti, nel Lazio i danni stimati dai soli cinghiali (100mila esemplari) superano i 10 milioni di euro e in alcuni casi riguardano anche l’80% del raccolto. Oltre 10 milioni di euro i danni stimati in Calabria. Un fenomeno che si sta espandendo anche ad aree prima meno frequentate come quelle del Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia (20mila esemplari) e in Valle d’Aosta dove i cinghiali si sono spinti fino a quote che superano i 2mila metri. Pesante la situazione in Emilia Romagna dove solo nel Reggiano si stimano almeno 50mila esemplari; “dramma” sul fronte seminativi (specie per mais e girasole) in Umbria con una popolazione stimata di circa 150mila cinghiali. Sei milioni di euro i danni in Basilicata e 5 in Piemonte.

Qui la superficie danneggiata nel 2023 è stata di 34.432 ettari. Colpiti anche l’Abruzzo (i capi superano ampiamente le 100mila unità) con 4,5 milioni di euro di risarcimenti richiesti nel 2022, il Molise (40mila cinghiali) e la Campania (stimati danni per circa oltre 4 milioni di euro). Critica la situazione in Sardegna soprattutto a ridosso delle aree protette mentre in Sicilia non ci sono territori immuni e salgono i costi per la difesa, come i recinti elettrici. In Liguria da tempo i cinghiali si sono spinti fino alla costa e tanti i danni non solo alle colture ma anche ai tipici muretti a secco. Nelle Marche il 75% dei danni in agricoltura da fauna selvatica è causato dai cinghiali. Tra risarcimenti alle aziende agricole e da incidenti stradali la Regione spende circa 2 milioni di euro all’anno.

Risarcimenti, lamentano gli agricoltori, che arrivano spesso dopo molti anni e solo in minima parte. “Non coprono mai il valore reale del prodotto distrutto, con la conseguenza – rileva Coldiretti – che molti rinunciano a denunciare”. Cinghiali e fauna selvativa anche causa di incidenti, 170 nel 2023, ricorda l’associazione agricola, secondo l’analisi su dati Asaps, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. A questo si aggiunge l’allarme della peste suina africana, non trasmissibile all’uomo, che i cinghiali, ricorda Coldiretti, rischiano di diffondere nelle campagne mettendo in pericolo gli allevamenti suinicoli e con essi un settore che, tra produzione e indotto, vale circa 20 miliardi di euro e dà lavoro a centomila persone. Da qui la richiesta dalle Assemblee Coldiretti “di mettere un freno immediato alla proliferazione dei selvatici, dando la possibilità agli agricoltori di difendere le proprie terre. Mancano, infatti, i piani regionali straordinari di contenimento”.

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