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Capire la crisi Ucraina

Il capitalismo del nuovo millennio

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Sembrava che, dopo anni e anni di disastrosa sovraccumulazione e quindi di stagnazione economica, quando dei soldi non si sapeva letteralmente che fare, come impiegarli nel ciclo produttivo senza ficcarsi in troppo rischiose avventure speculative: ebbene, sembrava che la grande macchina dell’accumulazione del capitale avesse trovato una sua strada, con tanto di denominazione: “Transizione ecologica”. Chiara nella sua direzione, inequivoca nei principi ispiratori. Investimenti, tecnologia, profitti: tutti sotto le colorate bandiere del verde. Basta con un atteggiamento puramente estrattivo nei confronti dell’ambiente. Avanti con il rispetto dei processi ambientali che garantiscono la durabilità della vita su questo pianeta, umana e non.

E’ bastato un niente per farci ripiombare nelle radici medievali del capitalismo, la spirale mefitica della epidemia-guerra-carestia. Abbiamo visto tutti come il Covid si sia tradotto in profitti alluvionali per le case farmaceutiche –Pfizer in testa- e come ormai una dura battaglia di civiltà si stia combattendo -in perdita, temo- su uno dei marchingegni giuridici essenziali del capitalismo trionfante: il brevetto. Buono in sé, intendiamoci, quando garantisce la “giusta” remunerazione per l’intelligenza creativa e la sapienza imprenditoriale. Iniquo, invece, quando funziona come strumento cieco al servizio, appunto, dell’accumulazione, senza riguardo per la funzione sociale della produzione. Che nel caso dei farmaci poi, significa esclusione dei 3/4 dell’umanità povera dai benefici del vaccino. Possibile, ci si chiede, che la lotta alla malattia debba passare attraverso queste orride forche caudine della discriminazione tra esseri umani? Possibile che l’impegno per la durata e la qualità della vita debba sottostare agli impulsi di “spiriti animali” che ci riportano ogni volta al nostro originario, arcaico “cervello da rettile”?

La guerra, si capisce, è la componente non unica ma certo più drammatica della crisi ucraina. Quanti soldi si stanno mettendo su quel conflitto inconcludente, atrocemente anacronistico? A chi giova questa micidiale sconfitta della politica, che non si accontenta della divisione dei soggetti coinvolti in “buoni” e cattivi”, ma viceversa esige un’assunzione di responsabilità ben più articolata se si vuole trarre qualche lezione per il futuro. Una marea di risorse si muove intorno a questa guerra. Si è mossa da subito attorno a questa guerra. Stanziamenti speciali, dagli USA all’UE, per inviare armi, armi, armi. “Per la prima volta nella sua storia”, ha detto con non so quale orgoglio U. von der Leyen, “l’Europa compra armi e le invia a un Paese in guerra”. Una frase della quale, come europeo, non sono affatto fiero.

Ma ciò che dà il tono più profondo e, temo, più durevole a questa componente accumulativa del capitale del nuovo millennio, è certamente il discorso del cancelliere tedesco al Bundestag, domenica scorsa. O. Scholz ha annunciato al mondo, infatti, né più né meno che il riarmo della Germania, mettendo sul pacchetto la cifra stratosferica di 100 miliardi. Così, da un momento all’altro: sabato sera non si sapeva nulla, il mattino dopo, hop!, la colomba esce dal cappello e si mette a volare sopra una montagna di investimenti bellici: armamenti potenti e diversificati, installazioni, flotte aeree e marittime, logistica, catene di approvvigionamenti. Da dove vengono questi soldi? Dove li piglia il cancelliere?

Possibile che nel bilancio federale ci siano delle pieghe tanto profonde da dissimulare cifre colossali, pronte per la guerra? “Forse c’era un piano”: è l’opinione di un mio amico tedesco che non ha nessuna simpatia per il complottismo. In ogni caso, ci si può attendere una corsa generalizzata al riarmo, forse in forme meno eclatanti di quella tedesca. Ma mi aspetto che dalla Corea del Nord (e quindi del Sud) all’Iran, dalla Turchia al Giappone, dall’India all’Australia, si elencheranno fiumi di buoni motivi per alimentare gli apparati bellici di ciascuno. Tutti difensivi, per carità. Bellici, ma n.o.n. bellicisti. Eppure, sapete com’è. Se hai una pistola, prima o poi spari.

Ma la guerra russa in Ucraina, se ha messo in moto giganteschi meccanismi di riarmo con effetti di eguali proporzioni sul piano economico non meno che politico, minaccia di mettere fuori gioco l’intera “Transizione ecologica”. Prima a saltare, la decarbonizzazione. La Germania riattiva le sue centrali a carbone, in Italia riprendono le trivellazioni in Adriatico e dovunque si sospetterà una sacca di gas, pressione sull’Algeria e la Libia, ripresa di interesse per i giacimenti sub-oceanici del Canale di Mozambico, rigassificatori. L’energia nucleare, già grottescamente inserita nei discorsi che contano tra le energie verdi, secondo i canoni di uno spudorato greenwashing”, acquista un peso e un ruolo inarrestabile, con buona pace della versione anche più elementare del “principio di precauzione”. Insomma, la ridente green economy, la Rivoluzione verde del capitale –che pure ci aveva dato qualche speranza- è finita prima ancora di cominciare. Ci resterà di essa, se tutto va bene, solo una versione mediaticacon declamazioni greenwashing sempre più barocche.

Le carestie? Verranno. E non solo in Ucraina, per effetto diretto e immediato della guerra. Seguendo copioni magari inediti per i drammi delle morti per fame –milioni di morti!- che tuttavia questo Paese ahimé! già conosce a partire dalle carestie politiche staliniane del 1932-33. Ma altresì nel resto del mondo, dove l’abbandono della “Transizione ecologica” o il suo rallentamento, sarà scaricato addosso, in prima battuta almeno, alle popolazioni più vulnerabili. Non sto immaginando un’apocalisse prossima ventura, con bambini denutriti e profughi climatici che attraversano i mari su zattere di fortuna. Sto facendo una constatazione. Per dire che il lato giusto della Storia, su questo pianeta, nessuno può pretendere di sapere dove sia.  

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Zuppi, per l’Ucraina avere lo struggimento che ha il Papa

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“Papa Francesco ci chiede di non abituarci alla guerra. A me, come credo a tanti, ha commosso la commozione di papa Francesco l’8 dicembre a Piazza di Spagna, quando con tutto lo struggimento di far proprio il dolore del popolo ucraino, la sofferenza del popolo ucraino colpito dalla guerra, vi ricordate, non riusciva più ad andare avanti. Dobbiamo continuare ad avere quello stesso struggimento. Perché ogni giorno che passa è tante persone che muoiono, è un odio che diventa ancora più profondo, è un inquinamento che diventa ancora più insopportabile in tutto l’ambiente. E il rischio è che sia davvero una guerra mondiale, che nei suoi vari pezzi già coinvolge tanti”.

Lo ha detto il cardinale di Bologna e presidente della Cei Matteo Maria Zuppi intervenendo questo pomeriggio a Rimini, nella prima giornata del 44/o Meeting per l’amicizia fra i popoli, alla tavola rotonda moderata da Bernhard Scholz sulla Fratelli tutti. La missione di pace affidatagli dal Papa, ha detto Zuppi, “nasce da questo. Papa Francesco ci insegna a struggerci per la pace, a cercare tutti quanti i modi: spingere, trovare quello che può essere utile, ascoltare, manifestare la vicinanza, vedere gli spazi che possono favorire una composizione”. Secondo il cardinale, “questo non significa tradimento. Mi spiego. La pace richiede la giustizia, e richiede la sicurezza. Cioè non ci può essere una pace ingiusta, anche perché sarebbe la premessa di una continuazione dei conflitti. Dev’essere una pace giusta. E non dimentichiamo naturalmente che c’è un aggressore e c’è un aggredito”.

“E dev’essere una pace sicura – ha proseguito -, cioè che possa permettere alle persone di guardare con speranza al futuro. Poi certamente la sicurezza richiede il coinvolgimento di tutti, mai dare per scontato. Davvero se vuoi la pace prepara la pace. E’ questo il grande impegno che dobbiamo con consapevolezza e responsabilità cercare”. Nella missione, poi, “c’è l’attenzione soprattutto per la parte umanitaria, quindi i bambini ucraini che sono in Russia, provare a capire che cosa si può fare e quindi anche il ritorno di chi deve ritornare nelle proprie famiglie, nelle proprie case”. “E i frutti? – si è chiesto lo stesso Zuppi – Purtroppo la guerra lacera con profondità e qualche volta con rapidità, ma la guerra è sempre una preparazione, c’è sempre in terreno di coltura, c’è sempre una gestazione, non dobbiamo mai dimenticare. Sicuramente questo ci richiede, richiederà la capacità di mettere insieme tanti soggetti che possano spingere per trovare la pace”.

“Personalmente – ha detto ancora – lo vivo con una grande consapevolezza: quanta gente prega per la pace. E devo dire che questo mi dà, per certi versi, ancora più responsabilità, una responsabilità che ci coinvolge tutti quanti, ma anche il senso di una grande invocazione che ci spinge, ci deve spingere, ci spingerà anche nelle prossime settimane, nei mesi prossimi se serve, a trovare la via della pace, a rispondere a quel vero desiderio di tutti che è di liberarci della violenza e di fare tesoro di questa pandemia perché finalmente si possa combattere la guerra e si possa immaginare un mondo senza guerra”.

Per Zuppi, questa “non è un’ingenuità. ‘Ma come? con quello che succede? Anzi, con la tentazione del riarmo?’ – ha detto -. Ma a maggior ragione, come con la pandemia del Covid dobbiamo far tesoro, dobbiamo anche sapere far tesoro di questo e cercare tutti gli strumenti che possano comporre i conflitti. Perché il dialogo non è tradire le ragioni, non è accettare una pace ingiusta, ma è trovare una pace giusta e sicura, però non con le armi bensì con il dialogo. E questo credo che sia davvero indispensabile per questa tragica guerra in Ucraina e in tanti pezzi della guerra mondiale”. Nel corso della tavola rotonda, il cardinale ha ascoltato anche quattro testimonianze di imprenditori o operatori nel campo sociale sul tema dell'”amicizia operativa”, e ha voluto sottolineare come anche “l’amicizia sociale è costruzione di pace: è liberare da tanta rabbia, da tanto odio, da tanto individualismo. Questo discorso dell’amicizia sociale credo che papa Francesco ce lo rilanci perché altrimenti non c’è futuro. Quindi la Laudato sì per la casa comune, perché altrimenti non c’è più l’uomo che non ce la fa più a vivere, e la casa che non può essere una casa di estranei, ma Fratelli tutti”.

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L’India non invita Kiev al G20, ‘non è tema del summit’

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Dietro le quinte l’adagio si ripete da tradizione: il G20 non è palcoscenico per la sicurezza internazionale. E, fedele alla sua politica di non allineamento, l’India padrona di casa lo certifica con un segnale inequivocabile: a Delhi il 9 e 10 settembre l’Ucraina non ci sarà. Una scelta utile, nella visione del ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, a mantenere i riflettori puntati sui Paesi emergenti. Ma che lascia presagire tensioni e lunghi negoziati tra le diplomazie per arrivare a una dichiarazione finale capace di fare riferimento alla guerra e alle sue conseguenze al cospetto anche di Mosca, invitata di diritto al forum politico. Seppur con l’incognita della presenza, ancora tutta da confermare ma data assai improbabile, del presidente Vladimir Putin, sempre esposto al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.

Pubblicata sul sito della presidenza del G20 a poco più di tre settimane dal summit, la lista confezionata da Delhi conta ventinove ospiti: oltre ai consueti venti Paesi più industrializzati, l’invito è stato esteso anche alla Spagna, in qualità di membro permanente, ai Paesi Bassi, e poi a Bangladesh, Nigeria, Mauritius, Egitto, Oman, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Scorrendo l’elenco, dell’Ucraina nemmeno l’ombra. Del resto, si è giustificato il capo della diplomazia indiana, il G20 “non è il Consiglio di sicurezza dell’Onu, è una piattaforma focalizzata sulla crescita globale” che “deve restare al centro dell’attenzione”.

E il mancato invito, è il chiarimento, non mette certo in discussione le “relazioni buone e solide in campo economico, militare, tecnologico e di sicurezza alimentare” tra Delhi e Kiev, evidenziate anche dagli incontri – l’ultimo a margine del G7 di Hiroshima a maggio – tra il primo ministro Narendra Modi e il presidente Volodymyr Zelensky. L’esclusione dell’Ucraina – in discontinuità con la linea dettata nel novembre scorso anno dall’Indonesia al G20 di Bali – conferma però la fermezza dell’India nel mantenersi “indipendente” davanti al conflitto. E alimenta nuove polemiche intorno al supporto internazionale a Kiev all’indomani delle controverse parole del braccio destro di Jens Stoltenberg, Stian Jenssen, che aveva indicato la cessione di alcuni territori ucraini a Mosca come “una soluzione” per un’adesione del Paese alla Nato, facendo infuriare il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak.

Uscita di cui lo stesso Jenssen ha poi fatto mea culpa, definendola un “errore”, mentre la stessa Alleanza è corsa ai ripari riaffermando il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale ucraina. Da parte sua, l’India assicura il pieno impegno sulla scena del G20 per arrivare a un testo finale “ambizioso”. In queste settimane – con l’intera nazione che attende il grande evento puntellata di manifesti dallo slogan scelto dalla presidenza ‘One Earth. One Family. One Future’ – il lavoro degli sherpa è fitto e destinato a protrarsi fino all’ultimo minuto utile. Tra i corridoi del segretariato del G20 nella capitale indiana circola un cauto ottimismo per il successo finale delle trattative nel segno di quanto espresso a Bali. Oggi come ieri, è l’annotazione di Jaishankar, le conseguenze della guerra “continuano a dominare l’economia mondiale”.

E a colpire anche quel Sud globale di cui l’India vuole rappresentare “la voce” e le istanze, dando più spazio – in una formula ancora da definire – anche all’Unione africana con l’intento di “plasmare un nuovo ordine mondiale”. Nuove architetture, soprattutto economiche, che prima di approdare a Delhi saranno all’ordine del giorno anche del vertice dei Brics, il club degli emergenti o ex tali – capeggiati da Russia, Cina, India e Brasile – il 22-24 agosto in Sudafrica. Le loro priorità, nella visione indiana, dovranno essere ascoltate dalle economie più sviluppate a settembre. Nessuno spazio, nemmeno a margine, per nuovi colloqui di pace nel solco di Gedda.

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Grossi all’Onu presenta il piano per Zaporizhzhia

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Un piano in cinque punti per salvare la centrale nucleare di Zaporizhzhia. E’ quello che il direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi ha presentato all’Onu, parlando di “impegni essenziali per evitare il pericolo di un incidente catastrofico”. I cinque punti prevedono che non ci sia “nessun attacco da o contro la centrale nucleare, di non usare l’impianto come deposito o base per armi pesanti o personale militare, non mettere a rischio l’alimentazione esterna dell’impianto, proteggere da attacchi o atti di sabotaggio tutte le strutture, i sistemi e i componenti essenziali per il funzionamento sicuro e protetto, non intraprendere azioni che compromettano questi principi”. Grossi ha spiegato che “la situazione della sicurezza nucleare e della protezione di Zaporizhzhia continua ad essere estremamente fragile e pericolosa, le attività militari continuano nella regione e potrebbero aumentare molto considerevolmente nel prossimo futuro”.

Per questo, ha avvertito, “siamo fortunati che non si sia ancora verificato un incidente nucleare”. Tuttavia, al termine dell’incontro in Consiglio di Sicurezza, il direttore dell’Aiea ha sottolineato con soddisfazione che “oggi è un giorno positivo per la sicurezza della centrale” e che “è stato fatto un passo nella giusta direzione”. Pur precisando che bisogna essere cauti, si è detto incoraggiato dalle espressioni di sostegno al lavoro dell’Agenzia che ha ricevuto, incluso ai principi elaborati dopo intense consultazioni con Russia e Ucraina. Alle quali ha chiesto “solennemente di osservare questi cinque punti, che non vanno a scapito di nessuno ma a vantaggio di tutti”. Nel corso della riunione è poi andato in scena il consueto scontro tra Russia e occidentali, Usa in testa.

Assicurare la sicurezza nucleare “è sempre stata e rimane una priorità per il nostro Paese”, ha detto l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, sottolineando che “Mosca sin dall’inizio ha fatto ogni sforzo possibile per prevenire minacce alla sicurezza dell’impianto create dal regime di Zelensky e dai suoi alleati”. E affermando di condividere le preoccupazioni di Grossi sulle minacce alla sicurezza della centrale. Mentre la collega americana Linda Thomas-Greenfield ha puntato il dito contro la Russia, spiegando che “le sue azioni sconsiderate sono in netto contrasto con il comportamento responsabile dell’Ucraina e sono un attacco alla sicurezza della regione e del mondo”: “È interamente sotto il controllo di Mosca evitare una catastrofe nucleare”.

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