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Ferito il reporter italiano Mattia Sorbi a Kherson

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L’esplosione di una mina che ha investito l’auto su cui viaggiava per raccontare dalla prima linea la controffensiva dell’esercito di Kiev nel sud dell’Ucraina: cosi’ e’ rimasto ferito al fronte di Kherson il giornalista freelance italiano Mattia Sorbi, mentre il suo autista e’ morto sul colpo. A ricostruire l’accaduto e’ il ministero della Difesa russo, secondo cui i suoi soldati gli hanno fornito le prime cure per poi trasportarlo in “un’unita’ di rianimazione” di un nosocomio sotto il loro controllo con “ferite multiple da schegge”. E’ li’ che il reporter e’ stato operato e si trova ancora ricoverato, in condizioni definite “stabili”. Di lui, la propaganda di Mosca ha anche diffuso alcune immagini dal letto d’ospedale, senza data, in cui appare sofferente e, dopo essersi presentato, con un filo di voce racconta in italiano: ‘Abbiamo preso un taxi e siamo andati a Oleksandrivka”, a una quarantina di chilometri da Kherson. “Ci avevano detto che era sicura”. Interrogato sull’accaduto, lo stesso Sorbi parla poi di una “mina”. “Sto bene e sono al sicuro, ma purtroppo le difficolta’ di comunicazione in Ucraina mi hanno impedito di essere online come al solito. Probabilmente sara’ cosi’ ancora per qualche giorno, ma l’importante e’ non avere problemi”, ha assicurato su Facebook il cronista 43enne, di cui non si avevano piu’ notizie dal 31 agosto. La Farnesina ha fatto sapere di essere “in contatto costante con il giornalista coinvolto nell’incidente: e’ curato, abbiamo notizie positive sullo stato di salute, ha poca copertura per comunicare ma dispone di un contatto libero. Stiamo lavorando per farlo rientrare, in sicurezza, in Italia appena possibile”. Per Mosca e’ stata “una provocazione dell’intelligence ucraina per accusare la Russia”. Secondo la Difesa russa, “Mattia Sorbi il 29 agosto e’ partito verso le posizioni avanzate ucraine accompagnato da due persone con uniformi militari ucraine”, che “hanno dato indicazioni al reporter ma hanno nascosto il fatto che la strada lungo la linea di contatto era stata minata dalle forze ucraine”, con l’obiettivo di “aspettare fino a che il giornalista fosse ucciso o dal fuoco russo o da una mina, per poi accusare la Russia”. Dopo l’esplosione, i soldati sono avanzati e “lo hanno estratto dalla vettura in fiamme”, spiegano ancora da Mosca, diffondendo le testimonianze di due militari, secondo cui le forze ucraine hanno sparato contro di loro durante i soccorsi. In serata e’ giunta la versione di Kiev. Sorbi non era accompagnato sul posto da “personale militare” ucraino e “anche il fixer ucraino ingaggiato dall’italiano si e’ rifiutato di andare oltre con lui. Non si sa perche’ Sorbi abbia deciso di attraversare la linea di combattimento, senza coordinamento e in un luogo non specificato”. Il Centro per le comunicazioni strategiche e la sicurezza delle informazioni di Kiev ha poi sottolineato che il reporter aveva lavorato in passato “per il canale televisivo del ministero della Difesa russo Zvezda”, aggiungendo di “presumere che Sorbi avesse precedenti accordi con l’esercito russo”. La notizia ha riportato al centro delle cronache i rischi legati al racconto del conflitto. Dall’inizio dell’invasione, secondo Reporters sans Frontie’res sono otto i giornalisti rimasti uccisi in Ucraina. Intanto, l’esercito di Kiev ha rivendicato diverse avanzate sui fronti piu’ caldi, compreso quello di Kherson. Ma e’ nell’est che la controffensiva avrebbe ottenuto i risultati piu’ significativi. “Nella regione di Kharkiv i difensori ucraini hanno liberato piu’ di 20 insediamenti”, ha affermato il generale Oleksiy Gromov, secondo cui sono stati ripresi 700 chilometri quadrati di territorio. Altre riconquiste sono state annunciate nel Donbass, in direzione di Kramatorsk e Sloviansk. Mosca pero’ smentisce, definendola propaganda per ottenere nuove armi dagli alleati occidentali riuniti a Ramstein.

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Zelensky finisce nella lista dei ricercati di Mosca

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La foto segnaletica è precedente alla guerra, scattata quando indossava ancora camicia e giacca, senza la barba e la mimetica che dal febbraio 2022 sono diventate simbolo del suo ruolo di guida della resistenza ucraina. In una mossa a sorpresa, Volodymyr Zelensky è finito sulla lista dei ‘most wanted’ del ministero dell’Interno russo, dopo che nei suoi confronti è stato aperto un non meglio specificato procedimento penale. Nel database infatti il presidente ucraino, nemico numero uno dello zar Vladimir Putin, è ricercato ai sensi di “un articolo” del codice penale russo. Quale sia resta un mistero, mentre il ministero degli Esteri ucraino ha liquidato la faccenda come l’ennesima “prova della disperazione della macchina statale e della propaganda russa, che non ha altre scuse degne di nota da inventare per attirare l’attenzione”.

Secondo Kiev, l’unico mandato d’arresto “del tutto reale e soggetto a esecuzione in 123 Paesi del mondo” è quello emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin con l’accusa di crimini di guerra. E sui media ucraini corre l’ipotesi che l’inserimento di Zelensky nella lista dei ricercati nasca proprio dal desiderio di vendetta per quel mandato internazionale, uno schiaffo senza precedenti mai digerito dallo zar. Oltre a Zelensky, il ministero dell’Interno russo ha emesso un ordine di arresto anche per l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko e l’ex ministro ad interim della Difesa e attuale rettore dell’Università nazionale di difesa dell’Ucraina, Mikhail Koval. Anche per loro mancano i reati contestati, così come avvenuto in altri ordini di arresto nei mesi scorsi. Dall’inizio dell’invasione, sono diversi infatti i politici e personaggi pubblici stranieri inseriti nella lista nera di Mosca che conta decine di migliaia di voci.

L’anno scorso, i russi hanno dichiarato ricercati l’allora capo delle forze armate Valery Zaluzhny e l’allora comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky, oggi a capo dei militari di Kiev. E proprio a seguito dell’ordine di arresto emesso contro Putin è finito nell’elenco dei ricercati anche Rosario Aitala, il giudice italiano responsabile di quel mandato. A febbraio, è stato aggiunto il nome della premier estone Kaja Kallas insieme a quelli di altri funzionari dei paesi baltici. Per loro la motivazione è stata resa nota ma suona draconiana: “Falsificazione della storia”. Mentre la Russia mischia la guerra con la giustizia interna, lo scontro prosegue in Ucraina, dove il tempo stringe per Zelensky che chiede “decisioni tempestive e adeguate sulla difesa aerea dell’Ucraina, fornitura tempestiva di armi ai nostri soldati”.

Secondo il leader ucraino, “solo questa settimana i terroristi hanno compiuto più di 380 attacchi contro le nostre città e regioni”. Un uomo è morto e cinque persone sono rimaste ferite negli attacchi di Mosca dell’ultima giornata sulla martoriata Kharkiv mentre le forze di Kiev continuano ad attaccare le regioni russe di confine: cinque feriti nell’ultimo raid su Belgorod. Nel frattempo giungono raccapriccianti resoconti delle politiche portate avanti dai russi nei territori del Donbass, dove anche i neonati innocenti sono vittime della guerra: il capo dell’amministrazione militare del Lugansk, Artem Lysogor, ha annunciato che da lunedì prossimo le madri che partoriscono negli ospedali della regione dovranno dimostrare la cittadinanza russa di almeno uno dei genitori del neonato affinché quest’ultimo possa essere dimesso dall’ospedale. Una norma – sottolinea il think tank americano Isw – che rappresenta una palese violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.

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Xi lunedì da Macron a Parigi per blandire l’Ue

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Il presidente cinese Xi Jinping torna in Europa per la prima volta in cinque anni in un tour segnato dalle inedite tappe di Francia, Ungheria e Serbia. La visita avviene quando Pechino preme per evitare che si apra anche un fronte commerciale con l’Ue dopo quello con gli Usa, mentre l’atteggiamento di Bruxelles verso la Cina si sta irrigidendo per i casi di spionaggio, le accuse di campagna di disinformazione, il rafforzamento delle relazioni bilaterali e il sostegno della leadership comunista alla Russia nella guerra all’Ucraina, e il dossier di Taiwan.

La prima tappa sarà a Parigi per i 60 anni di relazioni ufficiali bilaterali. Lunedì incontrerà il presidente Emmanuel Macron e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Assente il cancelliere tedesco Olaf Scholz che, malgrado le pressioni dell’Eliseo per un vertice congiunto, si recherà in Lituania e Lettonia. Nella recente telefonata con il consigliere diplomatico di Macron, Emmanuel Bonne, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha lanciato un appello chiedendo a Parigi di spingere l’Ue “a perseguire una politica positiva e pragmatica verso la Cina” sulla visione comune di “indipendenza e autonomia” (dagli Usa) e di opposizione “a divisione del mondo e scontro tra campi”, nel resoconto dato da Pechino.

“La leadership cinese è abbastanza chiara su ciò che vuole – ha notato Abigael Vasselier, a capo delle relazioni estere di Merics, think tank tedesco focalizzato sulla Cina, in un briefing online -. Pechino non può permettersi di avere sempre più restrizioni sul mercato europeo, ma allo stesso tempo non ha un’offerta per l’Europa in questo momento”.

E la ragione è dovuta “alla vicinanza delle elezioni presidenziali Usa”, ha notato Francois Godement dell’Istitut Montaigne, in un forum dell’Atlantic Council. Xi, in altri termini, ha come priorità l’attività di lobbying contro le indagini anti-sovvenzioni dell’Ue, a partire da quelle sui veicoli elettrici che hanno preso di mira i produttori Byd, Saic e Geely, accusati di non aver fornito informazioni sufficienti. Pechino ha esportato verso l’Ue e-car per 11,5 miliardi di dollari nel 2023, in base alle stime di Rhodium Group, e il varo di dazi sarebbe un duro colpo.

Per altro verso, Xi punterà a stabilizzare le relazioni bilaterali, in una fase di rapporti Usa-Ue molto stretti dopo la guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, per evitare una saldatura transatlantica anche sul fronte commerciale. La frustrazione Ue verso Pechino è massima: una delle richieste di lunga data – di Macron e Scholz (che poche fa settimane era a Pechino) – alla Cina era di fare pressione su Putin per chiudere il conflitto contro Kiev.

“A due anni dall’inizio della guerra, gli europei hanno capito che questo non accadrà”, ha notato Vasselier. Anzi, sta avvenendo il contrario: Russia e Cina rafforzano i legami militari anche su Taipei. “Vediamo, per la prima volta, che si esercitano insieme in relazione a Taiwan”, ha detto Avril Haines, a capo del National Intelligence, durante l’audizione di giovedì al Congresso americano. Dopo la Francia, Xi andrà in Serbia (7-8 maggio), dove avrà colloqui con il presidente Aleksandar Vucic.

I due Paesi hanno una lunga amicizia, soprattutto dal 1999, quando la Nato bombardò l’ambasciata della Repubblica popolare a Belgrado, causando tre vittime cinesi. I leader commemoreranno i fatti di 25 anni fa, con prevedibili stoccate a Nato e Occidente.

Il presidente cinese sarà poi a Budapest (8-10 maggio), dove il premier Viktor Orban è al potere da 14 anni con posture sempre più autoritarie. L’Ungheria si divide tra Ue-Nato e legami diplomatici e commerciali con le autocrazie. Orban era l’unico leader Ue al forum Belt and Road Initiative di ottobre 2023: vide Xi e Putin, rafforzando il ruolo dell’Ungheria di ‘gate europeo’ della Repubblica popolare, confermato dal maxi-impianto di batterie per veicoli elettrici da 8 miliardi di dollari del colosso cinese Catl.

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Hamas avverte: l’intesa solo con la fine della guerra

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Le trattative al Cairo per una tregua a Gaza e il rilascio degli ostaggi restano ancora in bilico e nulla è dato per scontato, dopo che Hamas ha gelato i colloqui al termine di una giornata che aveva visto spiragli positivi su una possibile intesa. L’ottimismo filtrato dalla capitale egiziana – con i mediatori che parlavano di “progressi significativi” – si è attenuato in serata, quando un alto funzionario israeliano ha frenato gli entusiasmi accusando il gruppo palestinese di “vanificare gli sforzi” per l’intesa insistendo sulla precondizione di mettere fine alla guerra.

Un alto funzionario di Hamas ha infatti sottolineato che il gruppo “non accetterà in nessuna circostanza” una tregua a Gaza che non includa esplicitamente la fine completa dell’offensiva sulla Striscia. E ha accusato il premier israeliano Benyamin Netanyahu di “ostacolare personalmente” gli sforzi per raggiungere un accordo di tregua a causa di “interessi personali”. Da parte sua, lo Stato ebraico – hanno avvertito da Gerusalemme – “non accetterà in nessun caso la fine della guerra come parte di un accordo per il rilascio dei propri ostaggi”. Il nodo resta quindi sempre lo stesso, ma la delegazione di Hamas arrivata al Cairo continua a discutere lo schema generale dell’intesa con i mediatori egiziani e del Qatar.

Nelle informazioni contraddittorie sull’andamento dei colloqui, Barak Ravid del sito Axios aveva riferito della possibilità di Hamas di portare a termine la prima fase dell’accordo (il rilascio umanitario di ostaggi) senza un impegno ufficiale da parte di Israele a porre fine alla guerra. Secondo il quotidiano saudita Asharq, in cambio la fazione palestinese avrebbe solide garanzie dagli Stati Uniti sul cessate il fuoco, il completo ritiro dell’Idf dalla Striscia dopo le prime due fasi dell’intesa e la promessa che l’esercito israeliano non continuerà i combattimenti dopo il definitivo rilascio dei circa 130 ostaggi ancora a Gaza. Ma Israele ha continuato per tutto il giorno a invitare alla prudenza.

Una fonte dello Stato ebraico ha sottolineato che si “sta aspettando con ansia di vedere la posizione finale di Hamas, ma che le informazioni non sono ancora arrivate”. Poi ha insistito sostenendo che “alla luce dell’esperienze passate, anche se Hamas dice che sta seguendo lo schema, i piccoli dettagli e le riserve che presenterà potrebbero far naufragare l’accordo”. Per questo finora nessuna delegazione di Israele si è recata in Egitto, dove andrà – è stato spiegato – solo “se ci sarà una risposta da parte di Hamas che abbia un orizzonte per i negoziati”. Anche Benny Gantz, il ministro del Gabinetto di guerra, ha invitato alla pazienza confermando che i palestinesi ancora non hanno dato una risposta definitiva ai mediatori.

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken – dopo aver bocciato di nuovo l’intenzione di Israele di entrare a Rafah che comporterebbe “danni inaccettabili” – ha osservato che al momento “Hamas è l’unico ostacolo al cessate il fuoco a Gaza”. Mentre uno dei consiglieri del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, Taher Nunu, ha riaffermato che “qualunque accordo da raggiungere deve includere la completa e totale fine dell’aggressione e il pieno ritiro dell’occupazione da Gaza”. Nella ridda di notizie riguardanti la possibile intesa, il quotidiano saudita Asharq – ripreso dai media israeliani – ha ipotizzato che Israele sia disposto anche a rilasciare Marwan Barghouti, il leader palestinese di Fatah condannato a vari ergastoli per terrorismo. A patto che vada a Gaza e non in Cisgiordania.

Ma di un tema così spinoso in Israele non c’è alcuna conferma ufficiale. Fatto sta che le pressioni internazionali affinché l’accordo si faccia, dopo Israele, si stanno concentrando su Hamas. Il Qatar, ha rivelato Times of Israel, sarebbe pronto ad accettare la richiesta degli Usa di espellere da Doha la leadership di Hamas, tra cui Haniyeh stesso, se i leader della fazione continuassero a rifiutare l’intesa. Una richiesta, ha fatto sapere il Washington Post, consegnata da Blinken il mese scorso.

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