Giuseppe Misso, detto ’o Nasone, boss storico della camorra napoletana, diventa protagonista letterario in Donnaregina, il nuovo romanzo di Teresa Ciabatti edito da Mondadori. Un’opera che sfida i confini tra fiction e realtà, cronaca e invenzione, con un’operazione audace e potentemente ambigua. Perché raccontare la vita di un uomo accusato di 38 omicidi commessi, 108 ordinati, noto come il “rapinatore perfetto” e non come “camorrista” — termine che lui stesso rifiuta — non è solo letteratura: è anche un rischio narrativo e morale.
Il boss che rifiuta il titolo di camorrista
Misso, personaggio reale ma spesso irrealistico, viene descritto dalla scrittrice in un’intervista al Corriere della Sera come “un boss atipico in tutto”: nemico della droga e dell’estorsione, allevatore di colombi, appassionato di Céline e Dostoevskij. Ha scritto anche romanzi e poesie, come I leoni di marmo. Ma, soprattutto, ha conquistato un posto nella narrativa contemporanea italiana grazie a un incontro-scontro con l’alter ego letterario di Ciabatti, maschera ansiosa e iperrealistica, che in Donnaregina gioca a farsi piccola mentre narra la vita di un uomo enorme.
Una Napoli letteraria, tra rioni e fantasmi
La scrittrice mette in scena una Napoli sospesa tra mito e cronaca, dove il rione Donnaregina diventa teatro di un duello tra immaginari: da un lato Misso, icona di un mondo criminale trasformato in romanzo; dall’altro, l’io narrante, figura femminile nevrotica e disincantata, che confessa: «Ridurrò Peppe Misso a personaggio… lo trasformerò, ogni tanto lo infangherò». Ed è proprio questo sguardo dichiaratamente manipolatorio, masochista e contraddittorio che rende Donnaregina un’opera potente.
La cronaca trasformata in letteratura
In un momento storico in cui la camorra è spesso spettacolarizzata o edulcorata, Ciabatti sceglie un’altra via: quella dell’inchiesta esistenziale. Non tanto per santificare Misso, quanto per osservarlo attraverso il filtro imperfetto di una narratrice che non si finge imparziale, ma dichiara apertamente le proprie fragilità, i propri dubbi e fallimenti. Una scrittrice che, per stessa ammissione, “non si è mai occupata di criminalità”, ma decide di farlo ora, intrecciando l’inchiesta sul boss al dolore privato per un’amica che muore e all’ansia per una figlia preadolescente.
Un romanzo che racconta un’epoca
Il vero colpo di genio di Donnaregina non sta solo nella scelta del soggetto, ma nel tono: paratattico, nervoso, pieno di appunti che sembrano pensieri rubati. Ogni frase è un tratto rapido su un’agenda personale, un diario che si crede segreto ma che finisce pubblicato. E nel contrasto tra l’epopea criminale del boss napoletano e la fragilità domestica della narratrice, si apre uno spazio nuovo nella narrativa italiana: quello in cui il vero e il falso si mescolano, senza che nessuno abbia il coraggio o la necessità di distinguere.
Francesco lo avrebbe voluto cosi: quello di Bergoglio è da considerarsi ad oggi il funerale di un pontefice con il più vasto accesso a livello mondiale. Non per le 250mila persone stimate in piazza San Pietro, ma per l’incalcolabile moltitudine di schermi accesi sulle esequie: quelli tv ma anche cellulari, tablet, pc e laptop. Con i social che da soli hanno sfiorato i 7 milioni di interazioni nelle ultime 12 ore. I network internazionali più noti – per la gran parte americani ma non solo, come Bbc, Sky e Al Jazeera – hanno tutti offerto sui propri siti web le dirette video della cerimonia in Vaticano e gli aggiornamenti fin dai primi arrivi sul sagrato della Basilica. E poi i quotidiani in ogni lingua, le radio, i canali youtube, a partire da quello della Santa Sede che ha trasmesso la cerimonia per intero. La rivoluzione tecnologica, che ha viaggiato veloce negli ultimi 20 anni – ovvero dal funerale di Giovanni Paolo II – ha portato così tutto il mondo lungo via della Conciliazione, tra le colonne di piazza San Pietro e al seguito dell’ultimo viaggio del pontefice che ha attraversato Roma fino alla Basilica di Santa Maria Maggiore: dalle Filippine (il più popoloso paese cattolico al mondo), all’Africa, passando per l”Asia, gli Stati Uniti o l’America Latina che a papa Francesco aveva dato i natali. L’attesa era tale che fin dai giorni precedenti diverse testate, nelle loro edizioni online, offrivano indicazioni in dettaglio su come sintonizzarsi: le pagine web, gli orari, i canali social dedicati. Quest’ultima la maggiore novità da quando, nel 2005, il mondo salutò un papa in carica con la morte di Karol Wojtyła . E’ infatti, per esempio, rimbalzata prima sui social l’immagine – subito considerata storica – del faccia a faccia fra il presidente Usa Donald Trump e quello ucraino Volodymyr Zelensky nelle navate della Basilica prima delle esequie. E dalle prime analisi risulta essere al top dell’interesse globale, sfiorando alle 15 (ora italiana) quasi 3 milioni di interazioni, esattamente 2 milioni 915 mila e 481 così divise: su X 547.789, su Instagram 1.689.547 e su Facebook 678.145, secondo l’analisi della società Arcadia sulle conversazioni social e sul web. Tra le 25 emoji più utilizzate online per commentare i funerali ci sono le mani congiunte in preghiera e le bandiere dello Stato Pontificio, dell’Argentina e degli Stati Uniti. E, ovviamente, quasi la metà (47%) sono gli utenti dai 25 ai 34 anni ad aver partecipato maggiormente alle conversazioni digitali.
Il rosso porpora dei cardinali e il nero degli abiti in lutto, il bianco delle rose e il marmo bianco del colonnato. Tra cerimoniale e protocollo sul sagrato di San Pietro si è dispiegata la geografia del potere spirituale e temporale racchiusa nella regia sapiente del rito. Le spettacolari immagini dall’alto, realizzate grazie anche all’inedito utilizzo di droni, hanno trasformato piazza San Pietro in una gigantesca scacchiera dell’equilibrio mondiale: da un lato il rosso degli abiti cardinalizi, dall’altro il nero degli abiti dei capi di Stato e consorti sapientemente distribuiti in base a ruolo e peso internazionale. A seguire, in una sorta di sfumatura cromatica, il bianco dei concelebranti e i variopinti completi delle decine di migliaia di fedeli. In prima fila la delegazione italiana e quella argentina alle quali si sono affiancate, con un piccolo strappo al cerimoniale che voleva una disposizione in ordine alfabetico francese, quelle dei principali governi europei e mondiali, dalla Francia agli Stati Uniti, passando per la Spagna e l’Ucraina. L’unico outfit blu, invece del tradizionale nero, è stato quello del presidente americano, Donald Trump che, in prima fila, si trovava tra Filippo di Spagna ed Emmanuel Macron. Zelensky per un giorno ha dismesso maglietta e pantaloni tecnici in verde militare per vestire di nero. Poi le first ladies di ieri e di oggi e nobili col capo coperto da un velo nero, da Melania Trump a Jill Biden, da Silvia di Svezia a Letizia di Spagna. Victoria Starmer ha preferito però un cappello con veletta. Capo coperto anche per la figlia del presidente Mattarella, Laura. Giorgia Meloni, Ursula Von der Leyen e Brigitte Macron non hanno rinunciato allo stile rigoroso ma senza veletta. L’austerità della celebrazione a piazza San Pietro ha lasciato poi spazio alle rose bianche con cui i poveri e i migranti hanno accolto il feretro di Francesco a Santa Maria Maggiore, proprio come lui avrebbe voluto. Gli zuccotti rossi dei cardinali si confondevano con le giacche beige dei fedeli o le magliette dell’Argentina, ai jeans strappati e gli smanicati rossi. Ad accompagnare il feretro verso la cappella dove poi Bergoglio è stato tumulato prima i domenicani, con il loro tradizionale – ed umile – abito nero e bianco, e poi quattro bambini. Nelle loro mani due cesti di rose bianche offerte dai poveri davanti all’altare della Basilica tanto cara a Francesco. Lo stesso altare sul quale, dopo le dimissioni dal Gemelli, il Pontefice decise di far deporre a sorpresa i fiori gialli della signora Carmela. Che, anche oggi, immancabile, ha deciso di prender parte alle esequie, tra i Grandi della Terra e gli “ultimi del mondo”.
Incredibile ma vero: 23 liste si sono presentate per le elezioni amministrative di Bisegna, minuscolo comune abruzzese in provincia dell’Aquila, con appena 212 abitanti. Un numero spropositato che nasconde una realtà scandalosa: 21 liste su 23 sono composte da agenti della polizia penitenziaria che si sono candidati non per partecipare davvero al processo democratico, ma per usufruire di un mese di aspettativa retribuita, garantita dalla legge, con la scusa della campagna elettorale.
Il vero scopo: un mese di ferie pagate
Delle 23 liste, solo due rappresentano candidati locali che hanno a cuore il futuro del paese. Le altre sono state messe in piedi esclusivamente per consentire ai candidati di prendere ferie retribuite: un abuso normativo che trasforma le elezioni, fondamento della democrazia, in una comoda vacanza a spese dei contribuenti. Una beffa clamorosa, soprattutto se si pensa che alle ultime elezioni hanno votato solo 150 persone.
Un meccanismo che tradisce la fiducia nelle istituzioni
Questa vicenda getta un’ombra pesante sulla credibilità del sistema elettorale locale. Organizzare liste fittizie per ottenere privilegi economici senza alcuna intenzione di governare o migliorare la vita di una comunità tradisce lo spirito delle elezioni, nate per consentire ai cittadini di scegliere chi li rappresenterà davvero.
Un caso che chiede risposte immediate
La situazione di Bisegna impone una riflessione urgente: è inaccettabile che le regole, pensate per garantire la partecipazione democratica, vengano piegate a interessi personali. Serve un intervento normativo che blocchi questi abusi e ristabilisca il rispetto per un diritto fondamentale come quello del voto.