Sono stati scoperti geni e le relative mutazioni genetiche che causano l’autismo. Si tratta di uno studio multicentrico internazionale, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Cell, che, grazie alle nuove tecnologie di sequenziamento del DNA, ha permesso di identificare i meccanismi biologici responsabili e chiarire le basi genetiche dell’autismo. Tra i protagonisti di questo studio mondiale anche la Città della Salute e l’Università di Torino. L’autismo è un frequente disturbo del neurosviluppo che esordisce nei primi anni di vita e colpisce l’1% della popolazione. Negli ultimi anni, grazie ai progressi tecnologici che permettono di studiare su larga scala il genoma umano, e’ stata dimostrata la base genetica di molte condizioni caratterizzate da manifestazioni che rientrano nei disturbi dello spettro autistico. Oggi, spiegano dalla Città della Salute di Torino, viene fatto un importante passo avanti nella comprensione di questo gruppo di malattie grazie al lavoro di un grande consorzio internazionale, l’Autism Sequencing Consortium (ASC), fondato e co-coordinato da Joseph Buxbaum (Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York), al quale hanno aderito alcuni gruppi italiani, tra i quali quelli dei professori Alfredo Brusco e Giovanni Battista Ferrero (Citta’ della Salute ed Università di Torino) e Alessandra Renieri (Universita’ di Siena).
La base dello studio e’ l’analisi di oltre 35.000 soggetti attraverso una tecnica di sequenziamento del DNA nota come analisi dell’esoma. L’analisi dell’esoma e’ una tecnica recentemente sviluppata per lo studio delle malattie genetiche che consente di “leggere” la parte del DNA che codifica per proteine ed identificare eventuali mutazioni associate ad una malattia genetica. Il lavoro e’ iniziato nel 2015, grazie alla collaborazione dei gruppi italiani con il Consorzio ASC, in particolare con la dottoressa Silvia De Rubeis della Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York. Con il coinvolgimento di molti Centri clinici e’ iniziata la raccolta di famiglie con soggetti affetti da disturbo dello spettro autistico e dei loro genitori da vari Paesi nel mondo. In particolare, in Piemonte il Progetto di Ricerca, denominato NeuroWES, e’ stato coordinato dai gruppi dei professori Ferrero e Brusco (Citta’ della Salute ed Universita’ di Torino), che hanno esteso la collaborazione ai neuropsichiatri, genetisti e pediatri di tutta la regione. “Alle famiglie e’ stata proposta la possibilita’ di essere inserite nello studio, dopo un’attenta ed approfondita rivalutazione clinica dei casi e la spiegazione dei risvolti della ricerca” riferisce il professor Ferrero del Dipartimento di Scienze della Sanita’ Pubblica e Pediatriche dell’ospedale Regina Margherita della Citta’ della Salute di Torino. Il DNA delle famiglie selezionate e’ stato inviato al consorzio, che ha provveduto all’analisi dell’esoma. La parte piu’ complessa dell’intero processo e’ stato l’approfondimento dei risultati di queste analisi, dato l’elevatissimo numero di soggetti analizzati e la complessita’ della loro elaborazione bioinformatica. E’ stato cosi’ possibile identificare oltre 100 geni associati ai disturbi dello spettro autistico, 30 dei quali mai descritti prima. I geni identificati sono espressi precocemente nello sviluppo del cervello, e molti hanno un ruolo nella regolazione dell’espressione genica legata proprio ai meccanismi che regolano lo sviluppo del sistema nervoso centrale, o sono coinvolti nella comunicazione tra neuroni. Questi geni sono caratterizzati dall’essere colpiti da mutazioni altamente distruttive e frequentemente de novo, cioe’ non ereditate dai genitori. Questo implica che almeno una parte di queste malattie sia dovuta a mutazioni casuali avvenute nelle cellule riproduttive, e spiega la scarsa ricorrenza della malattia in famiglie.
I dati ora pubblicati sono solo la punta di un iceberg: “in collaborazione con il gruppo del professor Marco Tartaglia (Ospedale Pediatrico Bambin Gesu’, Roma) e del dottor Tommaso Pippucci (Universita’ di Bologna) stiamo rianalizzando i dati dei casi piemontesi” riporta il professor Alfredo Brusco “e grazie alla collaborazione con la Genetica Medica della Citta’ della Salute di Torino, diretta dalla professoressa Barbara Pasini, stiamo riportando alle famiglie dei pazienti una diagnosi definitiva in circa il 30% dei casi analizzati. Nello stesso tempo stiamo lavorando su nuovi geni associati a disturbo dello spettro autistico che stiamo attivamente studiando presso il Dipartimento di Scienze Mediche dell’Universita’ e della Citta’ della Salute di Torino, grazie al finanziamento come Dipartimento di Eccellenza” aggiunge il professore. Parallelamente tutte le famiglie in cui e’ stata identificata una mutazione nel DNA vengono richiamate sia per comunicare la diagnosi genetica che per rivalutare i dati clinici dei soggetti affetti, alla luce dei dati biologici, al fine di identificare e caratterizzare le specifiche condizioni genetiche associate a disturbi dello spettro autistico. L’identificazione di nuovi geni associati a forme di disturbo dello spettro autistico e’ solo all’inizio e si prevede siano oltre 1000 i geni implicati in queste malattie eterogenee.
Infatti buona parte di queste malattie sono probabilmente associate a diverse varianti in geni importanti per il neurosviluppo che diventano patologiche solo quando combinate assieme. Le sfide del prossimo futuro, che potranno essere affrontate proprio grazie alle collaborazioni internazionali come questa sono molteplici. La prima e’ la comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo della malattia. Esistono ipotesi multiple sull’origine della malattia, e nessuna esclude l’altra: tra queste, difetti della migrazione neuronale, alterazione del citoscheletro, di canali ionici, di interazioni tra sinapsi. I nuovi geni identificati suggeriscono uno sbilanciamento tra segnali eccitatori ed inibitori nella trasmissione sinaptica tra i neuroni. Identificare nuovi geni significa quindi comprendere meglio la neurobiologia di queste malattie e fornire risposte alle famiglie con pazienti affetti da disturbo dello spettro autistico.
Il piano pandemico 2025-2029 messo a punto dal governo potrebbe rivelarsi una nuova fonte di frizione tra il ministero della Salute e le Regioni. Rinviato all’esame della Conferenza delle Regioni, ha infatti ricevuto un netto stop dalla commissione Salute della Conferenza: è “ridondante”, “manca la catena di comando” ed è dunque necessaria una sua “revisione e ristrutturazione”. Critiche alle quali il dicastero risponde, ma aprendo al dialogo e con la richiesta di un “confronto immediato”.
Le osservazioni sul piano sono contenute in una nota della Commissione: il ‘Piano strategico-operativo di preparazione e risposta ad una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2025-2029’, proposto dal ministero della Salute, “risulta “eccessivamente discorsivo, ridondante e di difficile consultazione” e “non presenta una catena di comando chiara e definita”, si legge. Le Regioni chiedono pertanto di “renderlo molto più sintetico e schematico per facilitarne la fruizione, evitando ridondanze e ripetizioni di concetti”. Critico il tema della catena di comando: il piano si limita “ad elencare sommariamente i vari possibili attori”. Inoltre, “non assume alcun valore decisionale né orientativo per le Regioni, ma rimanda a decisioni successive, non affronta gli aspetti relativi alla gestione della privacy e non propone scenari coerenti e sostenibili con la risposta che il Piano dovrebbe invece proporre”.
La Commissione Salute richiede anche lo stralcio di alcune parti e la loro inclusione in un documento successivo “concordato con le Regioni”. Si richiedono poi maggiori dettagli per “l’utilizzo del finanziamento soprattutto per l’assunzione di personale al fine di rafforzare le strutture regionali che si occupano della preparedness pandemica”. La nota è del 18 aprile scorso e si convoca una riunione tecnica in videoconferenza per il 21 maggio. Alla bocciatura delle Regioni risponde Maria Rosaria Campitiello, capo dipartimento prevenzione, ricerca ed emergenze sanitarie del ministero della Salute: “Apprendiamo delle nuove sopraggiunte esigenze rappresentate dalla Commissione salute in merito al nuovo piano pandemico, e per questo chiederò immediatamente un confronto con la Commissione, confidando che si possa arrivare nel più breve tempo alla chiusura del testo del nuovo piano nell’interesse della salute pubblica degli italiani”. Il piano, sottolinea, “è frutto di un lungo percorso di condivisione anche con i rappresentanti delle Regioni, le cui richieste sono state nella maggior parte recepite nella stesura del documento”.
Campitiello ricorda inoltre che l’ultima legge di bilancio stanzia i fondi necessari per l’attuazione del piano aggiornato: si tratta di 50 milioni di euro per l’anno 2025; 150 milioni per il 2026 e 300 milioni annui a decorrere dal 2027. Il nuovo piano – inviato alla Conferenza delle Regioni lo scorso febbraio e che introduce delle modifiche rispetto alle bozze precedenti – prevede, tra le misure indicate, l’impiego dei vaccini ma non come unico strumento per contrastare la diffusione dei contagi, restrizioni alla libertà personale solo in alcuni casi e unicamente di fronte a una “pandemia di carattere eccezionale”, ma senza ricorrere ai Dpcm come invece è avvenuto negli anni del Covid. Previsti anche test, isolamento dei casi, tracciamento dei contatti e la messa in quarantena degli individui esposti, così come la nomina di un Commissario straordinario. Il piano ipotizza poi 3 scenari, due dovuti a virus influenzali e considerati più probabili e il cosiddetto worst-case, il peggiore possibile, poco probabile ma che non può essere escluso. In quello più grave si stimano fino a 3 milioni di ricoveri e oltre 360mila persone in terapia intensiva.
“Le Regioni stroncano il piano del governo, ma danno l’ok alle misure di Conte”, commenta Andrea Quartini, capogruppo M5s in Commissione Affari Sociali: “Quello che non viene nominato dalla Commissione Salute – sottolinea – sono infatti le misure contenute nel piano, quelle su cui l’esecutivo ha fatto copia-incolla dagli strumenti messi in campo dal governo Conte durante il Covid e che vengono evidentemente giudicate positivamente”.
Combattere la pressione alta riduce del 15% il rischio di demenza e del 16% quello di declino cognitivo: lo rivela uno studio clinico di fase 3 che ha coinvolto quasi 34.000 pazienti, i cui risultati sono resi noti su Nature Medicine, evidenziando che un controllo più intensivo sui pazienti ipertesi, potrebbe ridurre l’impatto globale della demenza. Lo studio è stato condotto da epidemiologi e clinici dell’università del Texas a Dallas. Si stima che il numero globale di persone colpite da demenza raggiungerà 152,8 milioni entro il 2050.
Diversi studi hanno evidenziato che adottare uno stile di vita sano, dalla dieta all’attività fisica regolare, potrebbe essere il modo più efficace per ridurre l’aumento dei casi a livello globale. Si è anche visto che le persone con ipertensione non trattata hanno un rischio maggiore del 42% di ammalarsi nel corso della vita rispetto ai coetanei sani. Questo lavoro, però, è proprio uno studio clinico per testare l’effetto dei farmaci antipertensivi sul rischio di demenza. Diretto da Jiang He, lo studio ha valutato l’efficacia di un intervento condotto da operatori sanitari sul controllo della pressione, sulla demenza e sulla compromissione cognitiva, in 33.995 pazienti ipertesi in Cina.
I pazienti avevano almeno 40 anni, vivevano in zone rurali e soffrivano di ipertensione non gestita. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: 17.407 pazienti hanno ricevuto farmaci antipertensivi e sono stati seguiti dal personale sanitario con consigli anche a casa relativi allo stile di vita (inclusi perdita di peso, riduzione del sale nella dieta e del consumo di alcol) e aderenza alla terapia farmacologica. I partecipanti nel gruppo di controllo sono stati formati nella gestione della pressione arteriosa ma con monitoraggi solo ambulatoriali. Nel corso di 48 mesi, gli autori hanno osservato che il gruppo di intervento ha ottenuto un miglior controllo della pressione sanguigna, con un numero maggiore di pazienti che ha raggiunto i livelli target rispetto al gruppo di controllo. Ma soprattutto è emerso che una gestione intensiva della pressione riduce sostanzialmente il rischio di demenza di qualsiasi tipo (non solo Alzheimer) del 15% e quello di declino cognitivo del 16%. Secondo gli autori questo tipo di intervento dovrebbe essere ampiamente adottato e ampliato per contribuire ad alleggerire il carico globale della demenza.
Un intervento mai eseguito prima al mondo su un paziente adolescente è stato portato a termine con successo all’Ospedale Santobono di Napoli. Un ragazzo di 17 anni è stato operato d’urgenza per un raro aneurisma della vena cava-renale, una patologia riscontrata finora solo in pochi casi al mondo, e sempre in età adulta. La straordinaria operazione ha permesso di salvare il rene, evitando l’asportazione dell’organo grazie all’utilizzo della chirurgia laparoscopica, tecnica mininvasiva d’eccellenza.
Il primo caso al mondo trattato in età pediatrica
Il giovane era stato trasferito d’urgenza da un altro ospedale dopo che la dilatazione anomala della vena renale destra, fino alla congiunzione con la vena cava, aveva compromesso seriamente la funzionalità renale. L’intervento è stato eseguito dal dottor Giovanni Di Iorio, direttore della Struttura complessa di Urologia pediatrica del Santobono, con la sua equipe altamente specializzata. Nessuno dei casi simili descritti in letteratura scientifica aveva mai consentito di salvare il rene. In questo caso, invece, è stata possibile una ricostruzione minuziosa della vena renale, senza occlusione e senza asportazione dell’organo.
Chirurgia mininvasiva e recupero record
L’intervento, reso ancora più complesso dalla posizione delicata dell’aneurisma e dalle sue dimensioni, è stato eseguito in laparoscopia, tecnica che ha ridotto notevolmente il dolore post-operatorio e permesso un recupero rapido. «Abbiamo scelto un approccio mininvasivo avanzato, grazie all’esperienza del nostro team e al supporto dell’equipe anestesiologica, riuscendo a garantire al paziente una soluzione efficace e sicura», ha dichiarato il dottor Di Iorio.
Una nuova frontiera per la chirurgia adolescenziale
«La fascia adolescenziale è spesso in una terra di mezzo tra pediatria e medicina per adulti», ha spiegato Rodolfo Conenna, direttore generale del Santobono-Pausilipon. «Per questo stiamo lavorando per ampliare i nostri percorsi assistenziali dedicati ai giovani fino ai 18 anni». Tutte le competenze acquisite saranno trasferite nel nuovo ospedale Santobono, in costruzione a Napoli Est, con spazi più ampi, nuove tecnologie e una forte spinta sulla ricerca scientifica.
Il giovane paziente, ora in ottime condizioni cliniche, sarà a breve dimesso e continuerà il percorso di recupero con un monitoraggio specialistico costante da parte del team del Santobono.