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Aumentano i bambini con la Sindrome di Kawasaki: c’è relazione con il Covid-19? Il parere del cardiologo Giovanbattista Capozzi

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La sindrome di Kawasaki è una malattia rara, che colpisce soprattutto i bambini sotto ai 5 anni. In Italia si registrano tra 250 e 400 casi all’anno. La patologia infiamma le arterie, colpendo in particolare il cuore dei bambini. In queste ore, c’è grande dibattito nella comunità scientifica sulla possibile correlazione tra la sindrome di Kawasaki e il coronavirus. I medici del dipartimento Pediatria dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in particolare, in un mese hanno registrato un numero di casi molto alto, e come tutti sappiamo Bergamo e la sua provincia sono stati letteralmente flagellati dall’epidemia. Uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet, condotto dai ricercatori dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, riferisce che tra il 18 febbraio e il 20 aprile passati i ricercatori hanno diagnosticato la sindrome di Kawasaki a 10 piccoli pazienti. Mentre nei 5 anni precedenti questa stessa patologia è stata diagnosticata dai medici bergamaschi appena 19 volte.

Abbiamo chiesto un parere a  Giovanbattista Capozzi, cardiologo del Monaldi azienda dei Colli e della cardiologia pediatrica Vanvitelli.

Professore in questi giorni la Società di pediatria ha segnalato una possibile relazione tra la sindrome di Kawasaki ed il coronavirus . Può aiutarci a capire meglio questa malattia rara di cui purtroppo ancora non si conosce il fattore scatenante?

La Sindrome (o malattia) di Kawasaki è una patologia febbrile caratterizzata da una intensa e violenta attivazione dei processi infiammatori. Interessa quasi esclusivamente bambini di età inferiore a 5 anni e si manifesta più frequentemente in quelli di sesso maschile. Data la costante presenza di febbre alta, scarsamente sensibile ai farmaci antipiretici, preoccupa molto i pediatri e spaventa le mamme dei piccoli pazienti anche perché è ormai noto che, talvolta, può essere complicata da severe patologie cardiache. Ora, il problema principale per la diagnosi di questa malattia è rappresentato dal fatto che non esiste un “test” per il suo riconoscimento. La diagnosi è clinica, cioè fondata sul riconoscimento della presenza contemporanea, durante la fase acuta, di almeno quattro dei suoi cinque sintomi principali o “maggiori”.

Quali sono?

Febbre elevata (comunemente superiore a 39 °C) per almeno 5 giorni; congiuntivite bilaterale; tumefazione di uno o più linfonodi del collo; rash cutaneo di tipo eritematoso e spesso il gonfiore del dorso delle mani e dei piedi; arrossamento della mucosa del cavo orale con cheilite. È evidente che si tratta di sintomi comuni a molte patologie febbrili di interesse pediatrico, pertanto ne consegue un’incertezza della diagnosi. A complicare ulteriormente la difficoltà di identificazione si è aggiunta, nel tempo, la presenza di forme definite “atipiche o meglio incomplete” in quanto i sintomi contemporaneamente presenti in fase acuta sono meno dei quattro. 

Ma, allora, come è stato possibile affermare l’esistenza di forme ad espressione incompleta, cioè se sono presenti meno sintomi che cosa fa affermare con “certezza” che quella “febbre” è espressione di una Malattia di Kawasaki? 

Come le ho detto, la preoccupazione maggiore che riguarda questa malattia è rappresentata dalle complicazioni cardiovascolari. La intesa attivazione della infiammazione si esprime in forma di arterite generalizzata che in fase “sub-acuta” (dopo circa 10 giorni dall’esordio) quando sembra che il processo si stia risolvendo e la febbre è spesso risolta, può manifestare la complicazione più temuta: gli aneurismi delle arterie coronarie. Questa severa complicazione si manifesta con una probabilità del 5-20% (l’oscillazione della probabilità dipende anche dalla tempestività ed adeguatezza del trattamento). Ora accade che le forme ad espressione incompleta sono quelle che più frequentemente non vengono sottoposte al trattamento adeguato e, pertanto, possono manifestare con maggiore probabilità proprio queste gravi complicazioni. Purtroppo è stato proprio il verificarsi di queste gravi complicanze dopo un esordio dubbio per la sintomatologia che ha permesso di affermare l’esistenza di forma ed esordio incompleto di Malattia di Kawasaki. Queste forme, come le ho detto, sono proprio quelle che hanno maggiore probabilità di gravi complicazioni. In alcuni casi, quindi, è difficile arrivare alla diagnosi.

 Quali sono altre difficoltà che si possono incontrare? E da dove nasce la correlazione con il Covid-19?

La maggiore difficoltà è che ancora oggi non si conosce il “fattore causale”. Come lei ha sottolineato, in questi giorni si stanno manifestano dubbi di una possibile relazione con l’epidemia in corso. Le manifestazioni cliniche e l’andamento epidemiologico (tipicamente stagionale) della Malattia di Kawasaki hanno suggerito, nel tempo, che essa possa rappresentare una risposta immunologica “anomala/eccessiva” ad un’infezione da parte di bambini geneticamente predisposti. In passato sono stati condotti numerosi studi finalizzati a dimostrare una relazione fra infezioni (più o meno comuni) ed il successivo /contemporaneo manifestarsi della malattia di Kawasaki in forma più o meno epidemica. Molte riviste scientifiche qualificate hanno pubblicato i risultati di queste ricerche, ma nessuno di questi studi si è dimostrato conclusivo. L’origine di questa malattia è stata messa in relazione all’andamento epidemico del morbillo, ad esempio, oppure di semplici epidemie di adenovirus o altri virus influenzali. Talvolta è stata segnatala l’associazione con infezioni da Clamidia o da Mycoplasma. Nessuna di queste ricerche è risultata conclusiva.  

Potrebbe essere che il Covid-19 non sia la causa diretta della malattia di Kawasaki bensì uno dei possibili stimoli infettivi che la determinano? 

Certamente. Come ho già detto il meccanismo eziologico più probabile per il determinarsi della Malattia di Kawasaki consiste in una risposta infiammatoria “esagerata” a differenti stimoli infettivi spesso meno aggressivi del Covid-19. Al momento è troppo presto per poter affermare con certezza una relazione perché non è ancora chiaro se in altre realtà, come a Bergamo, si possa verificare che il numero totale di casi sia significativamente maggiore di quello atteso. Certamente tra un po’ di tempo sapremo dare una risposta. Posso aggiungere che l’associazione tra la malattia di Kawasaki e infezione da altri Coronavirus è già stata segnalata nel passato. Non mi meraviglierebbe, pertanto, se il Covid-19 possa determinare in pazienti in età pediatrica, predisposti, un intenso e violento processo infiammatorio responsabile del determinarsi della malattia di Kawasaki. Ripeto però: siamo soltanto alla segnalazione di allerta. È necessario ancora tempo per raccogliere conferme necessarie a validare questa ipotesi.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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