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Economia

Antitrust, le piattaforme digitali minacciano i mercati

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“Ci troviamo oggi in un mondo nel quale l’emersione di poteri nuovi e dalle sembianze inedite, come le grandi piattaforme digitali, non soltanto minaccia i mercati e le libertà dei singoli, ma lambisce le strutture portanti dei nostri sistemi democratici, interferendo con il loro funzionamento”. E’ l’allarme lanciato dal presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, in occasione della due giorni di dibattiti sul tema ‘Concorrenza, mercati digitali, investimenti. Il ruolo guida dell’Europa’ organizzato dalla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato. Un convegno nel quale si è parlato anche della prossima legge per la concorrenza sulla quale – ha detto il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto – “credo ci siano tutte le condizioni per lavorare bene e alzare il livello di ambizione”.

Il convegno si è concentrato in particolare proprio sulle grandi piattaforme digitali. Secondo l’Authority, “integrare i cosiddetti ‘gatekeepers’ digitali (i controllori dell’accesso) nella nostra democrazia rappresenta un obiettivo irrinunciabile non soltanto per salvaguardare gli assetti concorrenziali dei mercati, gli incentivi all’innovazione e il benessere dei consumatori, ma per garantire la tenuta stessa delle nostre società”. Nei giorni scorsi, ha ricordato Rustichelli, sono stati designati dalla Commissione Europea i primi 6 gatekeepers: Alphabet/Google, Amazon, Apple, Bytedance, Meta e Microsoft.

“L’Europa per prima – afferma il segretario generale Antitrust, Guido Stazi – interviene quindi con la sua autorità sovrana sulla rivoluzione digitale, che ha consegnato a poche grandissime imprese un potere privato così vasto e penetrante da mettere in discussione il potere pubblico e la sua auctoritas”. Le piattaforme digitali sono ormai “uno strumento irrinunciabile per l’esercizio delle attività economiche e dello stesso diritto di cittadinanza” ma quelle di maggiori dimensioni, ha avvertito il presidente dell’Antitrust, “sono arrivate a godere di un potere di mercato consolidato e duraturo, che consente loro di agire anche slealmente nei confronti dei soggetti che con esse si interfacciano”.

La concorrenza, ha osservato Rustichelli, “ne risulta spesso compromessa e, di conseguenza, i servizi innovativi generati dai concorrenti commerciali delle piattaforme rischiano di giungere al consumatore con tempi rallentati o di non giungervi affatto, con conseguenze negative sul benessere individuale e collettivo”. Ma l’Unione Europea ha saputo rispondere a questi problemi “con determinazione e coesione, varando nel 2022, con sorprendente rapidità, il Digital Markets Act, che costituisce una reazione regolatoria ordinata ed efficace, per assicurare l’equità e la contendibilità dei mercati digitali”. E’ uno strumento – afferma il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso – che “consentirà di creare le premesse per un mercato digitale fiorente, aperto, contendibile e tutelato, grazie anche alla puntuale azione di monitoraggio e intervento delle authority nazionali”. Fondamentale, ha detto ancora Rustichelli, “è che la nuova disciplina non sostituirà l’intervento delle autorità nazionali di concorrenza, ma lo affiancherà in chiave complementare, accrescendone l’efficacia”.

L’Autorità, ha assicurato Rustichelli e lo hanno confermato da parte loro anche i responsabili dell’Antitrust di Francia, Grecia, Paesi Bassi e Austria, “collaborerà pienamente con la Commissione per assicurare il successo, anche sul piano applicativo, di una riforma che colloca certamente l’Unione Europea all’avanguardia nello scenario globale”. Per quanto riguarda i programmi degli investimenti, Rustichelli ha osservato che “il Pnrr costituisce un’occasione storica per affrontare nodi strutturali e problemi di lunga durata dell’Italia e, come tale, esige grande impegno da parte di tutti gli attori coinvolti” e l’Autorità Antitrust italiana è impegnata a offrire il proprio supporto tecnico per la piena attuazione del Piano. E ha già trasmesso “a governo e parlamento le proprie proposte di riforme pro-concorrenziali ai fini del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, attualmente in discussione in Parlamento. Nel frattempo stiamo seguendo da vicino l’attuazione delle misure già introdotte lo scorso anno”.

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Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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