“Nell’incontro di ieri abbiamo confermato al senatore Matteo Salvini il nostro impegno per l’Italia attraverso investimenti, creazione di posti di lavoro, sostegno alla digitalizzazione delle pmi e contributo fiscale”. Cosi’ Amazon in una nota dopo l’incontro con il leader della Lega. “Negli ultimi dieci anni, abbiamo investito molto nella creazione di posti di lavoro e infrastrutture in tutta Italia – piu’ di 5,8 miliardi di euro dal 2010″, scrive il colosso dell’e-commerce. Amazon e’ diventata uno dei principali creatori di posti di lavoro nel paese, dando lavoro a 8.500 persone e consentendone l’occupazione di oltre 120.000. Mentre continuiamo ad assumere e ad investire in Italia, Amazon contribuisce anche al gettito fiscale attraverso le tasse, sia dirette che indirette, che vengono riscosse dal Governo a seguito delle nostre attivita’ sul territorio nazionale, con un contributo fiscale complessivo di 234 milioni di Euro nel 2019”.
Matteo Salvini
Amazon sottolinea inoltre nella nota di aver gia’ attivato “molte iniziative per aiutare ulteriormente le PMI nel periodo che precede il Black Friday e il Natale, come abbiamo fatto ad esempio durante il Prime Day. E faremo di piu’. Abbiamo investito piu’ di 85 milioni di euro nella promozione delle PMI durante il Black Friday e il periodo natalizio. Stiamo promuovendo i prodotti di oltre 2500 PMI italiane presenti nei nostri negozi Made in Italy in Italia, UK, Germania, Francia, Spagna e USA dedicati all’eccellenza italiana”. ” Ci impegniamo a formare piu’ piccole e medie imprese italiane e supportarle nella loro trasformazione digitale accogliendo qualsiasi supporto da qualsiasi associazione o partito politico per promuovere il programma di formazione gratuito “Accelera con Amazon”, sviluppato con ICE, MIP Politecnico di Milano, Confapi e Netcomm”. “Per supportare le aziende italiane non digitalizzate, rimborsiamo i primi tre mesi di abbonamento ai partner di vendita che si sono registrati tra il 6 novembre 2020 e il 5 dicembre 2020, cioe’ la durata del presente lockdown, e questa iniziativa verra’ estesa in base all’evoluzione delle chiusure”. A leggerla così la nota di Amazon, che ha voluto rassicurare il senatore Salvini sul fatto che loro investono e creano lavoro in Italia, sembra che siano dei benefettori. E invece sono imprenditori che peraltro macinano utili miliardari che in piena pandemia sono aumentati a livello esponenziale sfruttando un modello di business che favorisce le consegne a casa. La questione, però, per Amazon e per tutte le altre Big Tech, per le internet company Usa, è quella delle tasse. Di pagare tasse rapportate alla dimensione della sua attività, Amazon proprio non ne vuole sapere. Dall’Inghilterra all’Italia le cifre di quanto viene versato al fisco sono oggettivamente ridicole. Nel 2019 il gruppo di Jeff Bezos ha pagato al fisco italiano 11 milioni di euro, quanto un’azienda di medie dimensioni, a fronte di un giro d’affari di 4,5 miliardi di euro. Ancora meglio in Gran Bretagna dove, in base ai dati diffusi, emerge che Amazon Uk ha versato circa 7 milioni di euro pur avendo ricavi vicino ai 20 miliardi di euro e contando 25 mila addetti.
Jeff Bezos
Gli utili che Amazon fa, in minimaparte vengono certamente reinvestiti in Italia per migliore il suo modello di business (il monopolio nelle consegne di pacchi) e nella maggior parte migrano nei paradisi fiscali. Come di difendono i distributori di pacchi da queste elementari accuse? Loro dicono che le tasse sulle imprese si calcolano sui profitti e non sui ricavi. E spiegano, come hanno fatto anche con Salvini, che i loro profitti sarebbero bassi perchè investirebbero molto. Bene, tutti quanti noi siamo certi che sia vero quello che dice Amazon ma c’è una domanda alla quale non rispondo mai. Perchè non rendono noti i profitti fatti. Perchè è bello dire che investono miliardi di euro e che creano occupazione. Ma quanto pagato al fisco. Agendo in regime di quasi assoluto monopolio ne conseguono anche un vantaggio competitivo in termini di fiscalità? È un po’ il giochino che fanno i giganti del web americani come Google, Facebook, Apple e, ovviamente, Amazon. Così come è altrettanto noto il giochino che possono fare contando sull’omertà fiscale di alcuni stati canaglia europei che pur di incamerare quattrini non si fanno scrupoli di creare legislazioni fiscali favorevoli (paradisi quasi) in Europa. Tra questi ci sono alcuni stati che persino il termine canaglia va stretto. Olanda, Lussemburgo o Irlanda, ad esempio, consentono di spostare i profitti nelle filiali domiciliate in stati con prelievi bassissimi o inesistenti. In sostanza i grandi gruppi fanno un sacco di soldi ma i guadagni (quelli su cui si calcolano le imposte) vengono spediti altrove. Così, tecnicamente, quello che rimane da tassare è poco o nulla.Nel 2019, anno di riferimento ultimo per il pagamento delle tasse, il fisco italiano ha incassato da Amazon, Google, Uber, Airbnb e Facebook la miseria di 42 milioni di euro a fronte di un fatturato di decine di miliardi fatto sul suolo nazionale. Per capirci, Google ha pagato in Italia meno tasse del produttore di pelati “LaDoria”.
Tutto regolare? Si può fare? È una politica fiscale sul filo della legalità. Ogni tanto, però, qualche procura d’Italia, prova a vederci chiaro sulla tassazione e quello che emerge sono situazione poco edificanti di evasione. Nel 2017, per fermarci ad Amazon che rassicura il senatore Salvini che loro sono dei benefattori d’Italia, ha pagato 100 milioni di euro per chiudere un’indagine partita dalla procura di Milano. Nel 2018 accordo simile in Francia ma per un valore di 200 milioni di euro. Nel 2017 la procura di Milano ha pizzicato anche Google: vicenda chiusa con il versamento di 307 milioni. In pratica le tasse a queste società riescono a farle pagare solo i tribunali. Peccato ci sia una sola procura in Italia capace di fare queste investigazioni. O meglio, peccato si impegni in queste indagini solo la procura di Milano, che nel 2017 ha consentito allo Stato italiano (formalmente datore di lavoro dei magistrati) più di 400 milioni di euro. Amazon è un’azienda che vale come il Pil italiano.
Il fondatore Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio personale di quasi 200 miliardi di dollari. E grazie alla tragedia della pandemia e dei lockdown che hanno messo in ginocchio i negozi tradizionali, il colosso dell’e-commerce ha visto le vendite salire del 40% in pochi mesi e raddoppiare fino a mille e cinquecento miliardi di dollari il suo valore di borsa. E sapete qual è il guaio di questa pandemia? È il fatto che Amazon non pare abbia alcuna voglia di condividere, anche solo in parte, questa manna piovuta dal cielo con i contribuenti italiani. Ma Amazon non se ne preoccupa. La principale preoccupazione dei suoi alti papaveri in Italia è quella di non far preoccupare troppo i politici. E così, da un lato si parla con i leader politici delle magnifiche sorti e progressive dei suoi investimenti e dall’altro si lanciano di campagne pubblicitarie incredibili per raccontare tutto quello che il gruppo fa per dipendenti, ambiente e consumatori. Ovviamente ci si dimentica sempre delle tasse, del fisco, delle agevolazioni e dei profitti che vengono fatti sparire dalla vista per non pagarci le tasse in Italia.
Con il 52,38% dei voti, l’assemblea dei soci di Generali ha scelto la lista di Mediobanca, confermando per il prossimo triennio Philippe Donnet(foto Imagoeconomica in evidenza) nel ruolo di amministratore delegato e Andrea Sironi come presidente. Una decisione che riafferma la linea della continuità e della stabilità nella governance della storica compagnia assicurativa triestina.
Affluenza e composizione del voto
L’assemblea, che ha registrato un’affluenza del 68,7%, è tornata in presenza per la prima volta dal 2019, riunendo oltre 450 azionisti presso il Generali Convention Center. A pesare sul risultato finale sono stati in particolare i voti degli istituzionali (circa il 17,5%) e un sorprendente apporto del retail (5%), mai così attivo. Anche la Cassa forense, con il suo 1,2%, ha votato a favore della lista Mediobanca.
Risultato del gruppo Caltagirone e confronto con il 2022
La lista Caltagirone ha ottenuto il 36,8% del capitale votante, confermando il ruolo di minoranza forte, ma non sufficiente a ribaltare gli equilibri. I fondi Assogestioni, con il 3,67%, non superano la soglia del 5% e quindi restano fuori dal consiglio. Il confronto con il 2022 mostra un equilibrio sostanzialmente stabile: allora Mediobanca aveva ottenuto il 56%, Caltagirone il 41%.
Il nuovo consiglio d’amministrazione
Il nuovo board sarà composto da 13 membri, con una struttura molto simile a quella uscente. Oltre a Donnet e Sironi, confermati nomi come Clemente Rebecchini, Luisa Torchia, Lorenzo Pellicioli, Antonella Mei-Pochtler, Alessia Falsarone. Tra le novità, Patricia Estany Puig e Fabrizio Palermo, ex ceo di Cdp e attuale ad di Acea.
Il ruolo di Unicredit, Delfin e gli altri azionisti
A sostenere Caltagirone si è aggiunta Unicredit, con il 6,5% su un portafoglio totale del 6,7%. Al suo fianco anche Delfin(9,9%) e probabilmente la Fondazione Crt (quasi 2%). Assente invece dai voti sulle liste Edizione della famiglia Benetton (4,83%), che ha scelto di astenersi, pur votando su altri punti all’ordine del giorno.
Donnet: «Ha vinto Generali»
«Oggi ha vinto Generali», ha dichiarato Donnet. «Il mercato si è espresso chiaramente: questa era la scelta per il futuro della compagnia come public company indipendente». Il presidente Sironi ha parlato di un consiglio «che ha lavorato con rispetto e responsabilità» e che continuerà a farlo anche nel prossimo mandato.
Alphabet archivia il primo trimestre sopra le attese degli analisti e avanza a Wall Street dove, nelle contrattazioni after hours, arriva a guadagnare oltre il 5%. L’utile netto è balzato del 46% a 34,5 miliardi di dollari rispetto ai 23,7 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno. I ricavi sono saliti del 12% a 90,23 miliardi.
A spingere le attività core di ricerca e pubblicità di Google, i cui ricavi sono saliti del 10% a 50,7 miliardi, sopra le previsioni del mercato che scommetteva su un aumento più contento dell’8%. La divisione di cloud computing ha sperimentato un aumento dei ricavi del 28% a 12,3 miliardi, confermando la sostenuta domanda per i suoi data center e i servizi di network per il boom dell’IA. “La ricerca ha proseguito una crescita forte”, ha detto l’amministratore delegato Sundar Pichai, mettendo in evidenza la “rapida” crescita del cloud.
Le spese di capitale nei primi tre mesi sono balzate a 17,2 miliardi, leggermente sopra le previsioni di 17,1 miliardi. I risultati trimestrali sono stati accompagnati dall’annuncio di un piano di buyback da 70 miliardi di dollari e un aumento del dividendo trimestrale del 5% a 21 centesimi per azione. Google è il secondo colosso di Big Tech ad annunciare la trimestrale da quando è iniziata la guerra commerciale avviata da Donald Trump. Tesla nei giorni scorsi ha messo in guardia sull’impatto dei dazi sulle sue attività di batterie, che dipendono dai componenti dalla Cina.
Ovviamente è ancora un no. E motivato con nuovi argomenti. Banco Bpm boccia una volta di più l’Offerta pubblica di scambio volontaria annunciata da Unicredit e lo fa citando anche “modalità di implementazione” della normativa sulla Golden Power che “da parte di Unicredit non risultano chiare”. Strategia ovviamente, ma intanto l’amministratore delegato di Banco Bpm consiglia chiaramente agli azionisti di non aderire all’Ops. I nuovi passaggi dello scontro sono contenuti nell’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio di amministrazione di Banco Bpm del ‘comunicato dell’emittente’ sull’offerta promossa dal gruppo guidato da Andrea Orcel.
Il Cda “a seguito di un’attenta valutazione dei termini e delle condizioni descritti nel documento di offerta pubblicato da Unicredit il 2 aprile scorso e delle altre informazioni disponibili ha ritenuto l’Ops non conveniente e il corrispettivo non congruo”, afferma Banco Bpm in un comunicato. “L’offerta è completamente inadeguata e quindi noi consigliamo ai nostri azionisti di non aderire”, ribadisce l’amministratore delegato Giuseppe Castagna nella conference call con gli analisti finanziari, aggiungendo che tra le altre cose “loro sono molto più esposti alla volatilità dei mercati”. Nella nota dopo la riunione del Cda, la banca sostiene anche che il valore generato dall’acquisizione di Anima “potrebbe diluirsi all’interno di Unicredit” e che dove “a seguito dell’acquisizione dell’emittente e fermo restando quanto previsto dal provvedimento Golden Power le cui modalità di implementazione da parte di Unicredit non risultano chiare, un’eventuale riduzione delle attività di rischio ponderate dovesse interessare anche la clientela di Banco Bpm, sussisterebbero significative incertezze circa la capacità di confermare gli obiettivi di crescita e di generazione di valore su basi stand-alone”.
La strategia perseguita da Banco Bpm “incentrata sulla generazione di valore per l’azionista attraverso la piena valorizzazione delle opportunità di sviluppo del business presso la clientela di riferimento, con specifico riguardo alle famiglie e alle Pmi, appare diversa da quella implementata da Unicredit”, spiega inoltre la banca guidata da Castagna. Che ricorda come “dopo aver perfezionato un aumento di capitale da 13 miliardi nel 2017 e aver ceduto nel periodo 2017-2019 una parte dei propri asset (tra cui Pioneer Investments, FinecoBank e Bank Pekao), Unicredit ha promosso negli ultimi anni una strategia che ha comportato una riduzione delle attività ponderate per il rischio che tra il 2020 e il 2024 sono passate da 326 miliardi a 277 miliardi”. Per l’Italia “tale orientamento si è tradotto in una riduzione delle attività di rischio ponderate da 131 miliardi a 101 miliardi negli anni dal 2020 al 2024 a cui appare riconducibile una riduzione dei volumi di impieghi da 168 miliardi a 145 miliardi nello stesso periodo”, aggiunge Banco Bpm. ll consiglio di amministrazione “riconosce che l’offerta di Unicredit sottovaluta la nostra banca”, spiega da parte sua il presidente di Banco Bpm, Massimo Tononi, secondo il quale “l’offerta è inadeguata dal punto di vista finanziario e non è giusta per i nostri azionisti”. Il Cda di Banco Bpm ha infatti deciso “che il corrispettivo non è congruo da un punto di vista finanziario. Tale conclusione è supportata, tra i vari fattori considerati, dalle rispettive analisi finanziarie condotte da Citi e Lazard, in qualità di advisor finanziari, e dalle rispettive opinion”, spiega l’istituto di piazza Meda, evidenziando in particolare il “mancato riconoscimento di un premio” per l’eventuale controllo di Banco Bpm.