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Economia

Alitalia, sindacati su piede di guerra perchè non arrivano gli stipendi

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All’indomani dell’intesa tra il Governo e la Commissione europea per la nascita della newco Ita, con meno aerei, flotta e personale dimezzato, si surriscalda il fronte Alitalia con i sindacati pronti a fare le barricate. Gia’ oggi davanti al ministero dell’Economia e delle Finanze si e’ svolta una nuova protesta dei dipendenti. “No a Ita, compagnia nata gia’ fallIta”, recitava uno degli slogan esposti dai lavoratori, che nel frattempo anche per questo mese vengono pagati in ritardo, domani riceveranno solo il 50% dello stipendio. “Non abbiamo intenzione di accettare licenziamenti, la parola esuberi sarebbe ora di toglierla. Stiamo parlando di persone in carne ed ossa che in questi anni hanno fatto funzionare Alitalia”, tuona il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, sottolineando che sul dossier “non esiste un tavolo in cui il sindacato e’ messo nelle condizioni di conoscere e discutere quello che sta succedendo” e pertanto il leader della Cgil chiede al governo di “poter discutere di un piano industriale serio”. Duro anche il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri. L’accordo “e’ stato raggiunto con l’Europa e non con noi, non accetteremo riduzioni di personale”, scandisce il leader della Uil, chiedendo di vedere il piano industriale. Per la Cisl il Paese “con la seconda manifattura” d’Europa “non puo’ avere una compagnia di bandiera mignon”. Quindi “va compiuto ogni sforzo per rilanciare Alitalia, senza prevedere esuberi e con progetti industriali precisi”, afferma il segretario generale Luigi Sbarra. Fanno poi sentire la propria voce le associazioni dei piloti e assistenti di volo. La Fnta, sigla partecipata da Anpac, Anpav, Anp e Assovolo, “apprezza il lavoro dei ministri Franco e Giorgetti” ma fa notare che “ancora non abbiamo informazioni sui contenuti dell’accordo”, sollecitando una “convocazione formale” al governo e puntualizzando che “nessun lavoratore dovra’ essere lasciato senza un futuro definito e senza reddito”. Il governo Draghi prova a rassicurare: da Bruxelles il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, che ha incontrato il commissario Ue per l’Economia, Paolo Gentiloni, spiega che il piano di Ita, che deve “tener conto” della situazione attuale del mercato, “offre in prospettiva grandi possibilita’ di sviluppo”. Secondo il ministro il futuro di Ita “dipendera’ dalla sua capacita’ e abilita’ di stare sul mercato e imporsi”. E “in questo senso bisogna accettare la sfida e provare a vincerla”, afferma Giorgetti. Il ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, parla di mettere a punto degli “strumenti di accompagnamento per tutte quelle persone che non sono ricomprese nel perimetro aziendale” e che comunque “l’obiettivo non e’ certamente quello di fermarci a 6mila dipendenti” ma “e’ avere una compagnia di bandiera vera e seria come e’ stata per tanti anni Alitalia”. Interviene anche il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, spiegando che l’intesa con l’Ue “e’ un primo importante passo che sblocca l’impasse di questi mesi”. Ed ora “e’ fondamentale continuare a lavorare per rilanciare la compagnia di bandiera cosi’ da rafforzarla, tutelando i dipendenti”, sottolinea. Dipendenti che hanno pero’ ricevuto un’ennesima doccia fredda circa il pagamento delle loro retribuzioni. Non solo saranno pagati in ritardo ma sono stati informati dai tre commissari straordinari che domani avranno solo la meta’ dello stipendio. “Stiamo lavorando per accelerare il pagamento del rimanente 50%, che sara’ accreditato non appena avremo evidenza circa i tempi di erogazione delle risorse stanziate per la compagnia”, spiegano Gabriele Fava, Giuseppe Leogrande e Daniele Santosuosso, facendo presente che ad oggi non sono giunti nelle casse” di Alitalia “i 100 milioni stanziati dal decreto sostegni bis e neanche i 50 milioni annunciati il mese scorso” da Giorgetti. “Il tutto ascrivibile ai tempi della burocrazia”, sottolinea la terna commissariale. I sindacati di categoria, Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti, avvertono, pero’, che “non saranno tollerati ulteriori ritardi”.

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Inflazione, Codacons: con record cacao e caffè rischi rincari

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E’ boom per le quotazioni di cacao e caffè, con i prezzi delle due materie prime che sui mercati internazionali stanno raggiungendo nuovi preoccupanti record, aumenti che potrebbero portare a breve a forti rincari dei listini al dettaglio per una moltitudine di prodotti venduti in Italia. L’allarme arriva oggi dal Codacons, che ha monitorato l’andamento delle quotazioni negli ultimi mesi. A inizio gennaio il prezzo del cacao era pari a circa 4.250 dollari la tonnellata, mentre ieri, mercoledì 24 aprile, le quotazioni sui mercati avevano raggiunto quota 10.800 dollari, con un incremento del +154% da inizio anno, riporta il Codacons. Trend analogo si registra per il caffè, con il Robusta che è passato dai 2.800 dollari la tonnellata dello scorso gennaio ai 4.250 dollari del 24 aprile, segnando un +51,8%, mentre l’Arabica nello stesso periodo sale da 190 a 224 centesimi alla libbra (+18%).

Quotazioni alle stelle che interessano materie prime utilizzate per prodotti molto consumati in Italia, e che rischiano di determinare rincari a raffica per i prezzi al dettaglio di una moltitudine di alimenti, lancia l’allarme il Codacons. Basti pensare che solo per i prodotti a base di cacao e caffè gli italiani spendono oltre 10,2 miliardi di euro all’anno, circa 392 euro a famiglia: il giro d’affari del cioccolato nel nostro Paese è di circa 2 miliardi di euro, con un consumo procapite di circa 2 kg. Cialde e capsule valgono 595 milioni di euro annui, mentre il caffè per moka registra vendite per 640 milioni di euro. 7 miliardi di euro il business del caffè espresso consumato al bar. I prezzi al dettaglio hanno già risentito nell’ultimo periodo dell’andamento delle quotazioni, con i prezzi di prodotti a base di cacao e caffè che sono aumentati sensibilmente rispetto allo scorso anno – aggiunge il Codacons. Ipotizzando un rincaro medio dei listini al dettaglio del +5% come effetto dei rialzi delle materie prime, i consumatori andrebbero incontro ad una nuova stangata da 510 milioni di euro solo per i consumi di caffè e cioccolato.

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Ocse, in Italia il cuneo fiscale supera il 45% nel 2023

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Per il lavoratore ‘single’ in Italia il peso delle imposte complessive sul salario è in media del 45,1%, sostanzialmente stabile rispetto al 2022 (era del 45%). E’ quanto emerge dal rapporto Ocse per il 2023 ‘Taxing Waging. Il cuneo fiscale nell’Ocse è stato del 34,8% in media nel 2023 (34,7% nel 2022) e l’Italia figura al quinto posto per l’incidenza più alta tra i 38 Paesi Ocse, dopo Belgio (52,7%), Germania (47,9%), Austria (47,2%) e Francia (46,8%). In Italia, le imposte sul reddito e i contributi previdenziali del datore di lavoro rappresentano insieme il 90% del cuneo fiscale totale, mentre la media Ocse è del 77%. Per un lavoratore spostato con due figli il cuneo è invece inferiore e vede l’Italia all’ottavo posto con il 33,2% (era al nono posto nel 2022), rispetto a una media Ocse del 25,7%.

Tra il 2000 e il 2023 il cuneo fiscale per il lavoratore single è sceso di 2 punti percentuali (dal 47,1 al 45,1%). Nello stesso periodo nei paesi Ocse è sceso di 1,4 punti percentuali (dal 36,2 al 34,8%). Tra il 2009 e il 2023 invece il cuneo fiscale per il lavoratore medio single in Italia è sceso di 1,7 punti percentuali. Durante questo stesso periodo, il cuneo fiscale per il lavoratore single nei paesi Ocse è aumentato lentamente fino al 35,3% nel 2013 e nel 2014, scendendo al 34,8% nel 2023. L’aliquota fiscale netta del dipendente single in Italia nel 2023 è stata in media del 27,7% nel 2023, rispetto alla media Ocse del 24,9%. Tenendo conto degli assegni familiari e delle disposizioni fiscali, l’aliquota fiscale media netta del dipendente per un lavoratore sposato con due figli in Italia era del 12% nel 2023, il 26esimo valore più basso nei Paesi Ocse, e si confronta con il 14,2% della media Ocse.

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Bhp offre 36 miliardi per il rame di Anglo American

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Scossone nel mondo delle materie prime. Bhp, il primo gruppo mondiale, un gigante da 120 miliardi di sterline di capitalizzazione di Borsa, sta cercando di mettere le mani su un altro colosso del settore, Anglo American, ingolosito dalle sue miniere di rame, metallo reso sempre più ricercato e costoso dal ruolo centrale che riveste nei processi di transizione energetica e di elettrificazione. La multinazionale con sede a Melbourne, in Australia, ha inviato ad Anglo American una proposta di fusione attraverso uno scambio azionario che valuta la concorrente 31,1 miliardi di sterline (36 miliardi di euro), incluse le partecipazioni nelle controllate quotate Anglo American Platinum e Kumba (ferro), di cui è prevista la distribuzione agli azionisti di Anglo American prima della fusione.

L’offerta, che valuta le azioni 25,08 sterline l’una, ha fatto impennare il titolo alla Borsa di Londra, salito del 16,1% a 25,6 sterline, sopra il prezzo offerto da Bhp. Segno che la proposta degli australiani potrebbe non bastare: secondo gli analisti di Jefferies serviranno almeno 28 sterline ad azione per avviare “serie discussioni” e “ben più di 30” nel caso in cui si facessero sotto altri pretendenti. Il cda di Anglo American ha fatto sapere che sta analizzando l’offerta, che Bhp dovrà confermare o ritirare entro il 22 maggio. Ma non è questo l’unico ostacolo che Bhp si troverà ad affrontare. Anzitutto l’operazione passerà al setaccio delle autorità antitrust di diversi Paesi – dall’Australia, al Sudafrica, al Cile – alla luce del rafforzamento della posizione di Bhp in alcuni mercati, a partire da quello del rame, di cui diventerebbe da terzo a primo produttore mondiale, con una quota di mercato di circa il 10% e una produzione annua superiore ai due milioni di tonnellate.

In secondo luogo occorrerà convincere il governo sudafricano, dove si trovano un quinto degli asset di Anglo American e che controlla il primo azionista del gruppo, il fondo pensione Pic. Il ministro delle Risorse minerarie, Gwede Mantashe, ha già chiarito all’Ft di non vedere di buon occhio l’operazione avendo avuto un’esperienza “non positiva” con Bhp in occasione dell’acquisizione di Billiton nel 2001, tradottasi in un impoverimento per l’industria mineraria del Paese. Pic ha dichiarato che valuterà l’offerta ma ha precisato che le nuove opportunità dovranno tener conto del ruolo “fondamentale” che il settore minerario riveste per l’economia sudafricana e i suoi stakeholder e della “sostenibilità a lungo termine”. Oltre ad “aumentare l’esposizione alle materie prime del futuro” integrando “gli asset di livello mondiale nel rame di Anglo American”, Bhp ha detto di essere interessata alle attività nei metalli ferrosi e nel carbone metallurgico australiano mentre gli altri asset, inclusa la quota nel produttore di diamanti De Beers, saranno sottoposti a “revisione strategica” e dunque potrebbero essere messi sul mercato a valle dell’acquisizione.

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