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Afghanistan, the american inferno

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Rimarranno per sempre impresse nella mente sconcertata di tutti noi le scene di disperazione dell’aeroporto di Kabul. Con i corpi caduti sotto il piombo dei soldati che cercano di mantenere l’ordine come possono. Con le persone che rotolano dai fianchi degli aerei in decollo, cui in preda al panico si erano aggrappate. Con le sagome maciullate dalle ruote dei velivoli carichi degli attoniti fortunati che riescono a fuggire. Sullo sfondo, fumi di tanti colori: neri, grigi, bianchi. E grida straziate, urla, pianti, lamenti. 

E’ l’inferno che gli Stati Uniti hanno saputo creare a conclusione di una guerra afghana durata vent’anni, da loro voluta e condotta. Con il formidabile contributo di diecine di Paesi che oggi dicono a se stessi: che siamo andati a fare laggiù? Oltre la lugubre contabilità dei morti e dei feriti, militari e civili, afghani e stranieri, italiani compresi. Oltre il conto salato degli oltre 2.000 miliardi di dollari, sembra, che i soli Stati Uniti hanno incenerito nella fornace del conflitto (l’Italia ha contribuito con qualcosa come 1 milione di € al giorno, secondo talune stime). Oltre la dolorosa registrazione dei milioni e milioni di afghani sradicati dai loro territori, delle comunità disgregate, delle famiglie disperse. Oltre tutto ciò, ecco: quale storia abbiamo scritto con una guerra lunga e sciagurata che ha inaugurato questo terzo millennio? Un’invasione interminabile e inconcludente, la seconda in 40 anni di storia afghana, dopo quella sovietica durata, a sua volta, dieci anni (1979-1989).

Map of Afghanistan surrounded by the neighbouring countries.

E ricordo ancora la foto di allora, quella dell’ultimo soldato sovietico che lascia l’Afghanistan e si accinge a varcare a piedi il ponte di confine sull’Amu Darya. Era il generale Boris Gromov, capo del possente corpo di spedizione dell’Armata Rossa sconfitto dai mujiaheddin di allora: jihadisti, milizie etniche e regionali emblematizzate dal leggendario comandante tagiko Ahmad Shah Massud, poi assassinato. Ricordo ancora la foto di allora, e la metto vicino a quelle di oggi, quando un’altra Armada Invencible fugge scompostamente di fronte a un pugno di camionette che stanno occupando Kabul. Con i risultati che vediamo, dopo mesi e mesi di negoziati svoltisi a Doha, dove gli Stati Uniti avrebbero dovuto assicurare le condizioni per un dialogo politico tra il Governo in carica e i talebani. E naturalmente, garantire un ritiro dignitoso ai soldati e al personale della coalizione, un asilo politico agli afghani che hanno prestato la loro collaborazione nei vent’anni di occupazione, un esodo umanitario a tutti coloro che avessero voluto lasciare il Paese.

Il regime messo in piedi dai sovietici che si ritirano nelle Repubbliche centro-asiatiche, guidato da Mohammad Najibullah, dura tre anni. Il governo di Ashraf Ghani si liquefa quando ancora a Kabul stazionano ben 6.000 soldati americani incapaci di securizzare l’aeroporto, l’unica via dalla quale si può uscire –e ormai: fuggire!- dal Paese.

Kabul. Il presidente Ashraf Ghani scappato appena i talebani sono arrivati alle porte della capitale

E ora? Dopo la compassione per la gente che soffre, dopo la rivendicazione dei diritti degli afghani –delle donne afghane, in modo particolare- la geopolitica fredda disegna le sue condizioni di svolgimento. Con un volet interno e uno internazionale. Proviamo ad annotarne le grandi linee.

Visto dall’interno, lo scenario afghano ci dice che la guerra non è affatto finita. Semmai, è finito un tipo di guerra, con un altro che va a sostituirlo. Anzi, è virtualmente già in corso. Si tratta del conflitto che oppone tradizionalmente i talebani ai combattenti etnici e regionali. Lo stesso giorno in cui Kabul è caduta, cioè domenica scorsa, Ahmad Massud, il figlio del celebre comandante, ha chiamato alle armi la sua gente del Nord e dell’Ovest, i Tagiki, chiedendo il sostegno di tutti coloro che si oppongono “all’oscurantismo jihadista”. Altri comandanti stanno facendo ritorno in Patria e si accingono ad organizzare la resistenza armata al regime talebano. I gruppi etnici, tribali e clanici, compresi i Pashtun del Sud, sono in allerta e forse già in movimento. Lo stesso si dica delle minoranze sciite del centro del Paese. Insomma, i mujiaheddin talebani non avranno vita facile e il governo jihadista di Kabul non può essere inteso come il governo dell’Afghanistan. Un Paese scarsamente accessibile, ricordiamolo, grande due volte l’Italia con una popolazione di circa 40 milioni di abitanti. Una popolazione che non combatte, si capisce, e vorrebbe semplicemente vivere. Semplicemente?

Altrettanto complessi sono gli scenari internazionali. Intanto, sembrerebbe ragionevole pensare che la coalizione armata che fugge da Kabul stia abbandonando qualcosa. Invece non è così. Non è “del tutto” così. Sta abbandonando il territorio, ma non i suoi interessi, né le sue visioni geostrategiche. La dichiarazione di Emmanuel Macron, resa ieri, è tanto inconsistente sul piano della sostanza immediata, quanto preoccupante su quello dei simboli, delle intenzioni, delle visioni ideologiche come delle prospettive concrete. In buona sostanza, di fronte all’American Inferno, Macron dice che la Francia non dorme –ma la Francia, da 5 secoli almeno, non dorme mai- e che si accinge a promuovere consultazioni con la Gran Bretagna e la Germania, per concordare iniziative comuni. Annuncio tardivo quanto maldestro. In ogni caso, uno spensierato epitaffio per l’Unione Europea, a cui viene negata nei fatti una sia pur minima soggettività geopolitica. Citando Paolo Conte: “scansate niño, che alle faccende serie ci penso io”.

ESERCITO-USA

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Ma, netti o più sfumati, nuovi attori internazionali si profilano, preoccupati e preoccupanti. Vediamo prima di tutto, la cerchia degli Stati confinanti: repubbliche centro-asiatiche a Nord (Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan), quindi Pakistan, Iran e, naturalmente, Cina. Che però si appresta a svolgere un ruolo di potenza globale, insieme alla Russia. Ma sappiamo che dire Russia, sugli scacchieri internazionali, dall’Africa (a Nord e a Sud del Sahara) al Medio Oriente, significa evocare la Turchia, come per riflesso condizionato: in qualche modo, dove cerchi lo Zar trovi il Sultano. E dire Cina significa evocare l’India, in allerta perenne di fronte a qualsiasi mossa di Pechino. Quale sarà in ruolo degli Stati Uniti in questi nuovi scenari non è difficile prevedere: praticheranno di nuovo un teatro delle ombre, in cui sono particolarmente versati da quelle parti, anche se probabilmente non sapremo mai in dettaglio come si muoveranno. Sperabilmente non per preparare tra vent’anni un altro American Inferno, peggiore del primo.

Nel frattempo, la comunità internazionale, ONU in testa, si accinge a far fronte a una crisi migratoria senza precedenti. Idee? Poche e confuse. Con il frutto avvelenato che l’American Inferno lascia al Paese nel periodo medio-lungo. Un paradosso tragico. Nel momento in cui chiediamo con forza alla coalizione che fugge di farsi carico a titolo pieno del destino delle persone che hanno lavorato con lei, e delle loro famiglie, ci rendiamo conto che si attua in questo modo un esodo di cervelli, come pure di competenze pratiche, di mestieri, di attitudini, che impoveriranno l’Afghanistan ancor di più, per i prossimi cinquant’anni.  

     

 

        

Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.

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Lukashenko sta costruendo una mega residenza in Russia

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Una società privata legata al presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, sta costruendo un’enorme residenza con un hotel, ristoranti e chalet sulle montagne vicino a Sochi, in Russia: lo riporta The Insider, che cita un’inchiesta congiunta dei giornalisti dell’emittente polacca Belsat e dell’associazione delle ex forze di sicurezza bielorusse Belpol. Secondo quest’ultima, il nuovo complesso – che sorgerà su un terreno di oltre 97.248 metri nel villaggio di Krasnaya Polyana – è destinato al leader bielorusso. Dall’inchiesta è emerso infatti che il progetto coinvolge i suoi più stretti collaboratori e viene finanziato con fondi riconducibili a Lukashenko.

Secondo i giornalisti di Belsat il presidente bielorusso si trasferirà in questa proprietà dopo aver lasciato l’incarico: Lukashenko avrebbe deciso di costruire una residenza fuori dalla Bielorussia dopo le elezioni e le successive proteste del 2020. Nel villaggio di Krasnaya Polyana ci sono alcune tra le più esclusive ed eleganti stazioni sciistiche del Paese, tra cui quella di Roza Khutor, che ha ospitato alcune gare delle Olimpiadi invernali 2014. E la nuova residenza promette di non essere da meno, con piscine, una “sicurezza armata” e maniglie delle porte placcate in oro. Il progetto prevede la costruzione di 12 immobili – tra cui un hotel e diversi chalet – con una superficie totale di 7.374 metri quadrati. L'”edificio principale”, destinato al proprietario, dovrebbe occupare un terzo della superficie edificabile totale.

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Re Carlo torna in pubblico e sorride, ‘sto bene’

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Un ritorno a mezzo servizio sulla scena degli impegni pubblici che non scioglie tutte le incognite, ma certo fa tirare un sospiro di sollievo al Regno Unito. Re Carlo III riavvolge il film di questo inizio d’anno maledetto per la monarchia britannica e si ripresenta alla platea dei sudditi per il primo appuntamento ufficiale fra la gente da oltre tre mesi, dopo la diagnosi di cancro svelata urbi et orbi a febbraio e i risultati “molto incoraggianti” (parola dei suoi medici) d’una prima fase di terapie tuttora in corso. Una rentrée all’insegna dei sorrisi e del contatto umano per il monarca 75enne, affiancato dall’inseparabile regina Camilla, pilastro della sua vita. Ma pure un momento altamente simbolico, vista la meta prescelta per la visita d’esordio di questa sorta di nuovo inizio, nel rispetto di quanto preannunciato da Buckingham Palace venerdì: l’University College London Hospital e l’annesso Macmillan Cancer Centre, istituto oncologico d’eccellenza sull’isola dove la coppia reale si è soffermata a parlare fitto fitto con medici, infermieri e soprattutto pazienti, non senza far rilanciare dalla viva voce di Sua Maestà un accorato messaggio a favore della prevenzione, dei controlli, delle cure “precoci” come armi “cruciali” per affrontare una malattia che non fa distinzioni fra teste coronate e non.

Accolti già fuori dall’ospedale da fan e curiosi, e poi fra le corsie da mazzi di fiori e auguri, Carlo e Camilla hanno cercato in tutti i modi di dare un’immagine incoraggiante, se non proprio da business as usual. “Non sei solo”, hanno fatto sapere al monarca alcuni dei presenti, in uno scenario in cui a tratti il primogenito di Elisabetta II – da oggi neo patrono del Cancer Research UK – è parso scambiare confessioni intime, persino qualche inusuale contatto fisico fatto di strette di mani prolungate con i malati: quasi come un paziente tra i pazienti. “Sto bene”, ha detto fra l’altro a una di loro, Asha Miller, in chemioterapia, rispondendo all’affettuoso “come si sente?” che la donna gli aveva rivolto stando a quanto da lei stessa raccontato più tardi ai giornalisti. Mentre vari testimoni hanno riferito di aver visto un re emozionato, ma “pieno di energia”. Parole che suggellano gli spiragli di ottimismo alimentati in queste ore dai vertici politici del Paese come da diversi commentatori dei media mainstream dopo le congetture allarmistiche di certa stampa scandalistica Usa.

Anche se sullo sfondo restano gli elementi di prudenza suggeriti dagli stessi comunicati di palazzo, che per i prossimi mesi si limitano per adesso ad evocare una ripresa parziale dell’attività pubblica di rappresentanza dinastica del sovrano: “calibrata con attenzione” e soggetta a conferme da formalizzare di volta in volta in relazione a eventi chiave quali la tradizionale parata di giugno di Trooping the Colour, l’agenda della visita di Stato a Londra della coppia imperiale del Giappone, o quella d’un viaggio in Australia di due settimane fissato orientativamente per ottobre. Già dalla settimana prossima, intanto, a rubare la scena in casa Windsor sarà un fugace rientro in patria del principe ribelle Harry, in arrivo entro l’8 maggio dall’autoesilio americano per partecipare al decimo anniversario degli Invictus Games, giochi sportivi riservati ai militari mutilati che egli patrocina sin dalla fondazione. Anche se non si sa se nell’occasione vi sarà spazio per un nuovo faccia a faccia fra padre e figlio, dopo la visita fatta di getto dal duca di Sussex al genitore a febbraio all’indomani della notizia della diagnosi di un cancro la cui natura resta per ora imprecisata.

Viaggio in cui del resto il principe cadetto – come confermato da una sua portavoce – non sarà accompagnato da Meghan, né dai figlioletti Archie e Lilibet, salvo ricongiungersi con la consorte in una successiva missione in Nigeria, Paese del Commonwealth. E che tanto meno sembra poter preludere a un disgelo col fratello maggiore William. Il tutto mentre rimane ad oggi ignota qualsiasi scadenza su un potenziale ritorno in pubblico anche della 42enne principessa di Galles, Kate, moglie dell’erede al trono, colpita a sua volta da un cancro di tipo non specificato reso noto nel toccante video alla nazione di marzo, due mesi dopo una delicata operazione all’addome. E reduce da una celebrazione privatissima, strettamente familiare, del suo 13esimo anniversario di matrimonio: il più difficile, in una favola regale divenuta dolorosa realtà.

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Netanyahu: entreremo a Rafah con o senza accordo

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Rafah resta nel mirino di Benyamin Netanyahu, con o senza accordo con Hamas per una tregua di lunga durata. Nonostante l’ottimismo per un’intesa che nelle prossime 48 ore si dovrebbe concretizzare nelle trattative al Cairo, il premier israeliano insiste – almeno a parole – nel rivendicare la necessità dell’operazione militare nella città più a sud di Gaza, piena di sfollati palestinesi. Durante un incontro con i rappresentanti delle famiglie dei circa 130 ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas dal 7 ottobre scorso, Netanyahu ha ribadito che “l’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere tutti i nostri obiettivi è inaccettabile”. “Noi – ha spiegato – entreremo a Rafah e annienteremo tutti i battaglioni di Hamas presenti lì, con o senza un accordo, per ottenere la vittoria totale”.

Una mossa tuttavia che deve fare i conti con la netta opposizione degli Stati Uniti, che non vogliono l’operazione di terra, oltre che dell’Onu (“sarebbe un’escalation intollerabile”, secondo il segretario generale Guterres), e con lo spettro di possibili mandati di arresto per crimini di guerra da parte della Corte penale internazionale dell’Aja sia per il premier sia per altri membri della leadership politico-militare di Israele. Non a caso Netanyahu ha denunciato che la Corte non ha “alcuna autorità su Israele” e che gli eventuali mandati sarebbero “un crimine d’odio antisemita”.

Spetta ora al segretario di Stato Usa Antony Blinken alla sua ennesima missione, da stasera, in Israele spingere sull’accordo che sembra in dirittura d’arrivo e fare della ventilata iniziativa della Cpi il grimaldello con Netanyahu per rimuovere dal tavolo l’operazione militare a Rafah, per la quale l’Idf ha già i piani pronti. Le indiscrezioni sull’intesa riportate dal Wall Street Journal prevedono due fasi: la prima con il rilascio di almeno 20 ostaggi in 3 settimane per un numero imprecisato di prigionieri palestinesi; la seconda include un cessate il fuoco di 10 settimane durante le quali Hamas e Israele si accorderebbero su un rilascio più ampio di ostaggi e su una pausa prolungata nei combattimenti che potrebbe durare fino a un anno. Un obiettivo così importante, a quasi 7 mesi dall’inizio della guerra, che ha spinto Blinken a rivolgersi direttamente ad Hamas per chiedere alla fazione palestinese di accettare “senza ulteriori ritardi” la proposta.

Lo spettro dell’Aja per Israele sta assumendo intanto contorni sempre più netti visto che gli investigatori della Cpi, secondo la Reuters, hanno raccolto testimonianze tra il personale dei due maggiori ospedali di Gaza. “Le fonti, che hanno chiesto di non essere identificate per la delicatezza dell’argomento, hanno riferito che gli investigatori della Cpi hanno raccolto testimonianze dal personale che ha lavorato nel principale ospedale di Gaza City, l’Al Shifa, e nel Nasser, il maggior nosocomio di Khan Younis”. “La possibilità che la Cpi emetta mandati di arresto per crimini di guerra contro comandanti dell’Idf e leader di Stato, è uno scandalo su scala storica”, ha ribattuto Netanyahu.

“Sarà la prima volta che un Paese democratico, che lotta per la propria esistenza secondo tutte le regole del diritto internazionale, verrà accusato di crimini di guerra. Se dovesse accadere – ha tuonato il primo ministro israeliano – sarebbe una macchia indelebile per tutta l’umanità. Un crimine d’odio antisemita, che aggiungerebbe benzina all’antisemitismo”. Al 207esimo giorno di conflitto intanto, si comincia a intravedere la concretezza della continuità degli aiuti umanitari a Gaza. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza americana John Kirby ha fatto sapere che “il molo temporaneo per l’ingresso di aiuti a Gaza sarà completato nei prossimi giorni” dato che i lavori di costruzione stanno procedendo “molto velocemente”. Il Centcom ha anche diffuso le immagini del molo costruito al largo della costa della Striscia. Le foto mostrano l’equipaggio di diverse navi militari impegnato nella costruzione della piattaforma, che avrà un costo di circa 320 milioni di dollari.

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