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Cronache

Eredità Agnelli: Gamna, Margherita era contenta dell’accordo

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Margherita Agnelli “manifestò soddisfazione” per l’accordo raggiunto nel 2004 che “le consentiva di acquisire una parte significativa” del patrimonio paterno, ma poi “tornò sui propri passi” e ora tenta di entrare in possesso di Dicembre, “la cassaforte di famiglia che consente di avere il controllo del Gruppo intero”. E’ quanto ricorda uno dei suoi avvocati dell’epoca, Luigi Emanuele Gamna, nella querela per diffamazione che lo scorso anno ha presentato contro la donna e che a maggio verrà discussa davanti a un gip di Rimini (che deve decidere se archiviare o meno il fascicolo). Margherita, anni dopo, rinnegò l’accordo del 2004 e prese una serie di iniziative in sede giudiziaria sostenendo di essere vittima di un raggiro.

“Il senso del discorso – scrive Gamna – è chiaro: io e il mio collega ci saremmo ‘venduti’ alla controparte, cedendo alle lusinghe e patrocinando la nostra cliente in modo infedele all’interno di un sistema mafioso governato da una setta”. Margherita però “sa che non esiste un solo elemento di prova – prosegue l’avvocato – che possa suffragare la sua tesi, strumentalmente e artatamente costruita per sostenere le iniziative per entrare in possesso (‘re melius perpensa’, verrebbe da dire) della società Dicembre”. Quanto all’esistenza di un patrimonio offshore dell’Avvocato, sottratto all’imposizione fiscale italiana e anche a Margherita, Gamna afferma che all’epoca non se ne avevano prove.

“Forse – scrive – oggi le cose sono diverse e quella che allora poteva essere solo un’ipotesi ha maggiore consistenza. Ma noi non eravamo al corrente di nulla né avevamo strumenti per accedere a conti e società di ‘Outremer’, come si dice”. In ogni caso, conclude il legale, “fu grazie a noi che Margherita poté ottenere una cifra molto cospicua di denaro e opere d’arte di enorme valore”.

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Auto blu per fini privati, divieto dimora per Miccichè

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L’ex presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, deputato regionale di Forza Italia, è indagato di pm di Palermo per peculato, truffa e false attestazioni. Al politico è stata notificata oggi la misura cautelare del divieto di dimora a Cefalù. Il parlamentare avrebbe usato per fini personali l’auto che gli era stata assegnata per svolgere le funzioni istituzionali. A Miccichè, inoltre, i magistrati contestano di aver confermato le false missioni di servizio dichiarate da Maurizio Messina, dipendente Ars che gli faceva da autista. Una truffa che avrebbe portato nelle tasche di Messina indennità non dovute per 10.736 euro.

Con l’Audi della Regione, sistematicamente parcheggiata a casa dell’autista, per 33 volte, tra marzo e novembre del 2023, Miccichè avrebbe fatto viaggi privati, sarebbe andato a fare visite mediche, avrebbe dato passaggi, nel tragitto Palermo – Cefalù e viceversa, a componenti della sua segreteria, a familiari e a persone assunte nello staff politico e in realtà impiegate nelle più disparate mansioni: dalla pulizia, alla manutenzione della piscina, alla derattizzazione.

Il veicolo sarebbe stato utilizzato, secondo l’accusa, anche per portare al politico la cocaina e per fargli recapitare il cibo acquistato al ristorante dell’amico Mario Ferro, lo chef poi indagato per spaccio di droga nell’ambito di una inchiesta che svelò che il deputato più volte si era rivolto a lui per acquistare sostanze stupefacenti. L’Audi faceva la spola tra Palermo e Cefalù anche per fare avere a Miccichè medicine e oggetti vari.

Ovviamente siamo nel campo delle contestazioni della Procura. Miccichè è come ogni indagato da considerare innocente fino al terzo grado di giudizio.

 

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Killer stipendiati e legami mafiosi nel mondo della ristorazione a Napoli: i segreti nel racconto di un pentito

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Nel cuore di Napoli, una trama intricata di affari illeciti e riciclaggio di denaro si snoda all’ombra di noti ristoranti, tra cui il celebre “Dal Presidente” in zona Tribunali. Le indagini, culminate in recenti blitz, hanno messo in luce una realtà allarmante legata al clan Contini, famigerata organizzazione camorristica con interessi che si estendono ben oltre le attività criminali tradizionali.

Secondo le rivelazioni di collaboratori di giustizia e le indagini condotte dalla Procura Anticamorra di Napoli, membri del clan, tra cui presunti killer, percepiscono stipendi mensili paragonabili a quelli di un top manager, oscillanti tra i cinque e i seimila euro. Una cifra notevole, specialmente considerando il ruolo e i rischi legali che questi individui assumono all’interno dell’organizzazione.

L’inchiesta, guidata dai pm Alessandra Converso, Ida Teresi e Daniela Varone, ha svelato come il clan abbia investito in attività economiche apparentemente legittime, come pizzerie e servizi di car sharing, non solo a Napoli ma anche a Roma, per riciclare denaro sporco. Un’operazione recente ha portato all’arresto di diversi imprenditori e uomini d’affari, accusati di supportare le attività del clan.

Uno degli arrestati, l’imprenditore Massimiliano Di Caprio, è accusato di avere legami diretti con il clan e di utilizzare il suo ristorante come facciata per il riciclaggio di capitali illeciti. Di Caprio, difeso dall’avvocato Fabio Visco, nega tutte le accuse, sostenendo la sua innocenza. Anche Vincenzo Capozzoli, altro indagato, si difende dalle accuse di riciclaggio, ribadendo durante l’interrogatorio di non avere alcuna relazione con i guadagni del ristorante incriminato.

Le indagini hanno anche coinvolto professionisti come la commercialista Nappo, attualmente agli arresti domiciliari, e altri soggetti ritenuti prestanome o complici nelle operazioni di riciclaggio e gestione degli affari illeciti del clan.

Questo scenario ha acceso i rifletori sulla necessità di maggiore trasparenza e controlli nel settore della ristorazione e oltre, in un tentativo di contrastare la penetrazione della criminalità organizzata nell’economia legale. La vicenda ha scosso l’opinione pubblica e sollevato importanti questioni sulla sicurezza e l’integrità economica di Napoli, una città già segnata da un lungo e doloroso confronto con la criminalità organizzata.

 

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Giuseppe, ucciso a 17 anni da un fulmine mentre pascolava le sue bestie

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Un ragazzo di 17 anni è morto nel pomeriggio nelle campagne di Santeramo in Colle nel Barese dopo essere stato colpito da un fulmine. La vittima era impegnata, assieme al padre, in attività di pascolo quando è stato sorpreso da un violento temporale nel corso del quale è stato raggiunto dalla potente scarica elettrica che lo ha fatto cadere a terra. Pare che il ragazzo sia riuscito a rialzarsi ma è morto poco dopo, per arresto cardiocircolatorio. Sul posto, oltre ai carabinieri, è intervenuto il personale del 118 che ne ha constatato il decesso.

“Perdere la vita, a soli 17 anni, è una tragedia che nessuno potrà mai capire. Esprimo il mio sentito cordoglio alla famiglia di Giuseppe, giovane studente santermano, che frequentava l’Istituto tecnico e tecnologico “Nervi-Galilei” di Altamura. Il suo sorriso, la sua determinazione e la dedizione al lavoro resteranno nei cuori di quanti lo hanno conosciuto. Un forte abbraccio a chi gli era vicino”. Lo scrive sulla sua pagina Facebook il sindaco di Altamura, in provincia di Bari, Antonio Petronella, all’indomani della morte dii Giuseppe Cacciapaglia, colpito da un fulmine nelle campagne di Santeramo in Colle durante un temporale. Fino a all’anno scorso il sindaco Petronella era il dirigente dell’istituto scolastico superiore frequentato dal giovane scomparso.

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