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Mattarella: Parlamento non è un contropotere giudiziario

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“Ciascuno faccia il proprio mestiere e cerchi di farlo bene. Auspico che questa stessa consapevolezza venga anzitutto avvertita da chi ha responsabilità istituzionali”. Sergio Mattarella prende la Costituzione in mano – metaforicamente visto che la conosce a memoria – e la dispiega ai giornalisti radunati al Quirinale per la consueta consegna del ventaglio, una cerimonia nata nel lontano 1893 per fare un bilancio dell’anno con la stampa parlamentare. Ma è il classico messaggio a “nuora perchè suocera intenda” visto che il presidente della Repubblica ha sentito l’esigenza di rimettere alcune caselle istituzionali al loro posto. E lo fa con la consueta attenzione lessicale che questa volta non riesce a celare la durezza dei suoi richiami. Così parte subito forte: “c’è l’esigenza ineludibile che i vari organismi rispettino i confini delle proprie competenze e che, a livello istituzionale, ciascun potere dello Stato rispetti l’ambito di attribuzioni affidate agli altri poteri”. Il rischio di una serie di sconfinamenti gli è evidente da tempo ma prima della pausa estiva sente l’esigenza di almanaccarli. Il primo sono le Commissioni d’inchiesta parlamentari e il pensiero va subito a quella sul Covid che di fatto indaga sull’azione di due ex presidenti del Consiglio e sugli atti approvati dallo stesso Parlamento. Nella legge che istituisce la Commissione si esplica peraltro la volontà di verificare la costituzionalità degli atti di governo adottati durante la pandemia: “iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della Magistratura si collocano al di fuori del recinto della Costituzione e non possono essere praticate. Non esiste – sottolinea il presidente – un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura. Così come non sono le Camere a poter verificare, valutare, giudicare se norme di legge – che il Parlamento stesso ha approvato – siano o meno conformi alla Costituzione, perché questo compito è riservato, dall’art.134, in maniera esclusiva, alla Corte Costituzionale”.

“Non può esistere una giustizia costituzionale politica”, è la sintesi del ragionamento. E di rimbalzo il capo dello Stato passa ai rapporti tesissimi tra toghe e governo: c’è “la necessità che la Magistratura sia consapevole di esser chiamata – in piena autonomia e indipendenza – a operare e a giudicare secondo le norme di legge” ma sempre non dimenticando “che le leggi le elabora e le delibera il Parlamento, perché soltanto al Parlamento – nella sua sovranità legislativa – è riservato questo compito dalla Costituzione”. E il pensiero corre al disegno di legge Nordio sulla riforma della Giustizia. Ma ce n’è per tutti e Mattarella non nasconde la sua preoccupazione sui ritardi sul Pnrr, chiamando il governo a non perdere ritmo e l’opposizione alla responsabilità: “non si tratta di una questione del Governo, di questo o dei due governi precedenti, ma dell’Italia. L’invito a mettersi alla stanga è rivolto a tutti: quale che sia il livello istituzionale, quale che sia il ruolo politico, di maggioranza o di opposizione”.

Più morbide, per il governo, le parole del presidente sul tema dei migranti: Mattarella ha riconosciuto l’importanza dell’evento promosso da Chigi domenica scorsa. Chiuse invece con una certa ironia le polemiche sul sapore negazionista di certi ambienti della destra sui cambiamenti climatici: “tante discussioni sulla fondatezza dei rischi, sul livello dell’allarme appaiono sorprendenti. Occorre assumere la piena consapevolezza che siamo in ritardo”. Infine la libertà di stampa, tema caro al presidente e al quale ha dedicato l’apertura del suo discorso, anche qui stigmatizzando le invasioni di campo: “è compito dei giornalisti essere certificatori della corrispondenza tra i fatti e la loro rappresentazione. L’autenticità dell’informazione è affidata, dalle leggi, alla professionalità e alla deontologia di ciascun giornalista. Sarebbe fuorviante – e contraddittorio con le stesse disposizioni costituzionali – immaginare che organismi terzi possano ricevere incarico di certificatori della liceità dei flussi informativi”. Con chi ce l’ha? Probabilmente con un recentissimo decreto della presidenza del Consiglio che inserisce nel mondo delle agenzie di stampa una figura terza di controllo. Ecco il passaggio del decreto che potrebbe aver attirato l’attenzione del Colle: si prevede l’istituzione della figura del Garante avente la funzione di assicurare la qualità delle informazioni ed impedire la diffusione di fake news, avente provata professionalità, esperienza, imparzialità e senza una pregressa appartenenza all’Agenzia presso cui opera. Tante le perplessità: “l’idea del garante in ogni agenzia di stampa non è esente da perplessità e deve essere forse ripensata”, chiedono Fratoianni e Bonetti di Avs.

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Accolto ricorso, Ilaria Salis va ai domiciliari a Budapest

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E’ stato accolto dal tribunale di seconda istanza ungherese il ricorso presentato dai legali di Ilaria Salis che può quindi uscire dal carcere e andare ai domiciliari a Budapest. Il ricorso era stato presentato dai legali di Ilaria Salis contro la decisione del giudice Jozsef Sós che nell’ultima udienza del 28 marzo le aveva negato i domiciliari sia in Italia che in Ungheria. In appello, la richiesta è stata invece accolta e quindi la 39enne attivista milanese, candidata con Avs alle prossime Europee, potrà lasciare il carcere a Budapest dove si trova da oltre 15 mesi con l’accusa di aver aggredito dei militanti di estrema destra. Il provvedimento, che prevede il braccialetto elettronico, diventerà esecutivo non appena verrà pagata la cauzione prevista dal tribunale.

“Ilaria è entusiasta di poter finalmente uscire dal carcere e noi siamo felicissimi di poterla finalmente riabbracciare”: così Roberto Salis ha commentato la decisione del tribunale ungherese di concedere i domiciliari a sua figlia Ilaria che, dopo oltre 15 mesi, potrà lasciare il carcere dove è detenuta con l’accusa di aver aggredito dei militanti di estrema destra. “Non è ancora fuori dal pozzo – ha aggiunto ma sarà sicuramente molto bello poterla riabbracciare dopo 15 mesi, anche se finché è in Ungheria io non mi sento del tutto tranquillo”.

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Duello in tv Meloni-Schlein, le opposizioni e Fi contro la par condicio

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Il M5s ha gettato sul tavolo il carico, alzando un muro davanti al confronto tv fra la presidente del consiglio Giorgia Meloni e la segretaria Pd Elly Schlein. In campo è scesa l’esponente Cinque stelle in prima fila per le questioni Rai, la presidente della commissione di Vigilanza Barbara Floridia, che ha inviato una lettera al presidente di AgCom e ai vertici del tv pubblica: bisogna garantire parità di condizioni e di trattamento a tutti – è il senso del richiamo – ed evitare di avvantaggiare alcune forze politiche rispetto ad altre. “Mi aspetto di fare il confronto – ha confessato Meloni – ma vedo molti movimenti contro questa iniziativa, vedo molta critica, ci sono cose che si stanno muovendo, magari con l’idea che questo confronto non si faccia: penso che sarebbe un errore”.

In chi si oppone, oltre alla preoccupazione per il rispetto delle regole, c’è anche quella per una polarizzazione dello scontro tra la leader di FdI e quella del Pd che, alla vigilia delle europee, finirebbe per mettere in ombra gli altri contendenti. Contro il duello tv si sono schierati non solo altri leader di opposizione – da Verdi-Sinistra ad Azione a più Europa – ma anche il vicepremier e segretario di Fi Antonio Tajani. In attesa della riunione dell’AgCom di domani, sia Meloni sia Schlein hanno fatto capire di non aver intenzione di dare sponde ai critici: “Il confronto mi piace – ha detto la premier – penso sia il sale della democrazia, in particolare in campagna elettorale. Mi fa molto sorridere il dibattito che sta generando l’aver dato disponibilità al confronto: denunce, lamentele… Penso sia normale, particolarmente in una campagna elettorale come quella in cui siamo, in rapporto all’Unione europea, per raccontare agli italiani che ci sono due modelli: la proposta socialista e conservatori. Mettere a confronto ricette e visioni è un modo di aiutare cittadini nella scelta, è la cosa più naturale del mondo”.

In un’intervista al Qn anche Schlein ha difeso il faccia a faccia in programma a Porta a Porta il 23 maggio: “Il confronto con la presidente del Consiglio potrebbe rappresentare un momento di chiarezza per le persone. Si vedranno in modo ancora più evidente due visioni agli antipodi dell’Italia e dell’Europa”. E la deputata Debora Serracchiani, della segreteria Pd, ha rincarato: “il duello è opportuno ed è anche bello perché è la politica che si confronta nel merito”. Tajani ha ribadito cosa si aspetta dalla Rai: al confronto tv da Vespa “bisogna che tutte le forze politiche partecipino – ha spiegato – perché qua non siamo in un sistema maggioritario ma proporzionale. Si faccia un confronto con tutti i leader assieme come si fa negli Stati Uniti. La par condicio deve essere tale: il confronto si fa con chi si vuole, non è che deve essere imposto. È una violazione, non è giusto”. Un’ipotesi in campo è quella di un faccia a faccia con Matteo Renzi: “Ho già risposto di no”, ha tagliato corto Tajani. Offrendo il fianco all’ironia del leader Iv: “Bruno Vespa mi ha chiesto di partecipare a un faccia a faccia con Antonio Tajani. Ho accettato. Tajani no. Chissà perché… Forza Italia scappa dal confronto, peccato”. Le prossime ore portebbero essere decisive. La riunione dell’AgCom – sulla carta convocata per il consueto monitoraggio settimanale sulla par condicio nelle emittenti televisive -potrebbe essere l’occasione per chiarezza sul confronto Meloni-Schlein e il rispetto delle regole.

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Risiko Ue, l’Italia punta a un commissario di peso

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L’Italia punta a un commissario europeo di peso, e nei piani di Giorgia Meloni potrebbe non essere un ministro del suo governo. La premier ha escluso di pensare a un rimpasto dopo le Europee, “a maggior ragione non per fare il commissario europeo”. Finora si era parlato molto di Raffaele Fitto e Giancarlo Giorgetti, ma dietro la postilla della leader di FdI, secondo ragionamenti che in ambienti di maggioranza vengono accostati alle sue strategie, ci sarebbero non solo l’ambizione di chiudere il quinquennio con la stessa squadra, e l’obiettivo di non toccare gli equilibri interni dopo le elezioni. Ma soprattutto l’intenzione di puntare su una delega importante come quella economica, oggi divisa fra Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis, o la concorrenza, mirando su un profilo che a Bruxelles non avrebbe problemi a far pesare la proprio autorevolezza.

Sono ragionamenti preventivi, manca ancora parecchio tempo, il risiko della governance europea è decisamente articolato e imprevedibile, ma già qualche nome circola. Fra questi, viene sussurrato con cautela anche quello di Daniele Franco, a cui la premier aveva pensato anche come ministro dell’Economia e che il governo ha poi sostenuto per la poltrona di presidente della Banca europea per gli investimenti, corsa in cui alla fine l’ha spuntata la spagnola Nadia Calvino. È una partita complessa, gli incastri dipenderanno anche dal destino di Mario Draghi, considerato in più cancellerie un papabile per la guida della Commissione europea ma anche per il Consiglio Ue.

Il risultato di questo gioco di incastri potrebbe arrivare mentre a Roma si entrerà in sessione di bilancio. Una missione che si annuncia delicata più che in altri anni. In primo luogo perché bisogna fare i conti con il nuovo Patto di stabilità, un compromesso da “migliorare”, si legge nel programma di FdI per le Europee, “nell’ottica di una maggiore flessibilità, tenendo conto delle esigenze finanziarie degli Stati membri”. Le preoccupazioni sorgono già nella stessa maggioranza anche alla luce del braccio di ferro ad alta tensione andato in scena in questi giorni sulla stretta al superbonus e sul nodo sugar tax, con il blitz per inserire un nuovo componente in commissione Finanze al Senato, dove il voto rischiava di essere pericolosamente in bilico. La manovra “sarà un inferno”, prevede un membro del governo che ne ha viste tante in Parlamento. Servirà massima attenzione per evitare cortocircuiti, quando si tratterà di impostare una legge di bilancio con risorse tutt’altro che abbondanti. E con equilibri di forza che potrebbero variare dopo le Europee.

Molte delle fibrillazioni primaverili sono direttamente riconducibili alle strategie elettorali diverse di FdI, FI e Lega. Meloni assicura di non temere questa campagna elettorale “divisiva”, ma i suoi fedelissimi non fanno mistero dell’irritazione con cui ha seguito la rivolta degli azzurri, guidati da Antonio Tajani, contro l’emendamento messo a punto da Giorgetti, con le norme retroattive sul superbonus. Una soluzione pensata dal Mef per frenare quello che Meloni ha più volte definito “dramma” o “macigno” per le casse dello Stato. E nella battaglia contro questo macigno, a tutela dei conti pubblici, bisognerebbe stare uniti, sarebbe il pensiero della premier, come raccontato nei capannelli dei meloniani in Transatlantico. Non a caso, in questi giorni lei e gli esponenti del suo partito, pubblicamente, si sono tenuti alla larga dalla disputa, probabilmente allineati con la stretta messa nero su bianco dal ministro dell’Economia. Nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, ed è un altro dei ragionamenti che rimbalzano fra i parlamentari di maggioranza, si capirà quanto effettivamente la pazienza del ministro dell’Economia sia messa a dura prova dagli alleati.

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