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Sprint di Draghi sulla giustizia, 5S e Lega sulle barricate

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Il governo vuole chiudere sulla riforma della giustizia. Per la mattina e’ previsto il cdm che avra’ sul tavolo il nuovo pacchetto di proposte messo a punto da Marta Cartabia e sul quale molti sono ancora i dubbi di alcune forze di maggioranza, soprattutto del M5s e della Lega. Non ci dovrebbe essere una cabina di regia. Ma fonti dell’Esecutivo assicurano che le proposte saranno illustrate nei dettagli dal premier Draghi e dalla responsabile del dicastero della Giustizia. Proposte – rimacano – caratterizzate da un forte equilibrio. Con tre piani distinti: i magistrati eletti, per i quali non si transige sul ritorno indietro; i cosiddetti ‘tecnici’ cioe’ i pm che lasciano la toga per ricoprire cariche non elettive (un esempio recente e’ il prefetto Luciana Lamorgese scelta per il Viminale) e i magistrati prestati al servizio dello Stato nell’apparato pubblico. Si tratta, dunque, di esigenze diverse da garantire e soprattutto prevedendo periodi di ‘decantazione’ o “raffreddamento” per chi, assolto l’incarico pubblico o politico, possa successivamente tornare alla magistratura, si spiega ancora in ambienti dell’Esecutivo. In attesa di dettagli e chiarimenti, resta lo scontento di fondo di alcuni partiti. 5 Stelle e Lega sono in tensione per la nuova proposta che rimodella le cosiddette ‘porte girevoli’ che fino ad ora hanno consentito ai magistrati di tornare al loro posto in tribunale, dopo un’avventura politica (da candidati, eletti o non eletti). Il tema – insieme al sistema con cui vengono eletti i componenti dell’organo di autogoverno della magistratura – rischia di diventare un pomo della discordia serio all’interno della maggioranza “Una volta che un magistrato decide di entrare in politica non puo’ piu’ ritornare a vestire la toga”, scandisce la responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. Il partito di Salvini martella chiedendo una riforma che “non investa singoli segmenti, ma che incida profondamente e in modo incisivo su tutto il sistema”. E insiste anche per marcare il terreno su un tema che, dopo il caro bollette, e’ molto sentito, vista la battaglia fatta con i referendum promossi insieme ai Radicali e su cui il 15 febbraio la Consulta dovra’ esprimersi. Vanno oltre i pentastellati, che bocciano l’ipotesi di un distinguo per i pm che assumono ruoli tecnici, ad esempio entrando in governi o giunte senza essersi candidati. “Sono norme ad personam e ne abbiamo gia’ avute abbastanza in passato”, taglia corto la pentastellata Giulia Sarti. Considerazione che non vede d’accordo il governo: “nessuna norma ad personam”, ribattono fonti accreditate dell’Esecutivo. Non fa sconti nemmeno Forza Italia, nonostante il si’ all’impostazione di base della riforma: “I nostri ministri non potranno votare se non ci sara’ un testo scritto che potra’ essere esaminato e studiato in maniera approfondita”, insiste Antonio Tajani da Bruxelles in vista del Consiglio di ministri di domani. Una bozza scritta era in effetti stata chiesta dai partiti – in primis FI e Azione – dopo gli incontri avuti nei giorni scorsi con la Guardasigilli. E finora mai ricevuta, riferiscono piu’ fonti. Era un modo per valutare, nero su bianco, gli orientamenti del governo rispetto al Csm, uno dei pilastri della riforma della giustizia che ha gia’ modificato il processo penale e civile e che l’Italia si e’ impegnata ad approvare per ottenere i fondi del Recovery. Una riforma sollecitata da tempo anche per combattere il potere delle ‘correnti’ politiche interne alla magistratura, specie dopo gli scandali degli ultimi anni. Su questa base si articolera’ la discussione di domani. Sul tavolo, il pacchetto di emendamenti alla riforma che l’esecutivo proporra’ al Parlamento. Del resto mercoledi’ prossimo la commissione Giustizia dovrebbe avviare il voto proprio sulle modifiche. In ballo oltre alle prove girevoli, c’e’ il sistema di elezione del Csm tra uno maggioritario binominale, senza nessuna lista e uno proporzionale.

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Esteri

‘Chora è una moschea’, scintille Erdogan-Mitsotakis

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La moschea di Kariye a Istanbul, un tempo chiesa ortodossa di San Salvatore in Chora e tesoro del patrimonio bizantino, diventa tempio della discordia tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier greco Kyriakos Mitsotakis, nel giorno della visita del leader ellenico ad Ankara proprio per confermare la stagione di buon vicinato tra i due Paesi dopo decenni di tensioni. Le divergenze sulla moschea si sono riaccese nei giorni scorsi, dopo che il 6 maggio scorso San Salvatore in Chora, chiesa risalente al V secolo e tra i più importanti esempi dell’architettura bizantina di Istanbul, è stata riaperta dopo lavori di restauro durati quattro anni.

Convertita in moschea mezzo secolo dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani del 1453, Chora è stata trasformata in un museo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Turchia cercò di creare una repubblica laica dalle ceneri dell’Impero Ottomano. Ma nel 2020 è nuovamente diventata una moschea su impulso di Erdogan, poco dopo la decisione del presidente di riconvertire in moschea anche Santa Sofia, che come Chora era stata trasformata in un museo. La riapertura aveva suscitato malcontento ad Atene, con Mitsotakis che aveva definito la conversione della chiesa come “un messaggio negativo” e promesso alla vigilia del suo viaggio ad Ankara di chiedere a Erdogan di tornare sui suoi passi in merito. Una richiesta respinta al mittente: “La moschea Kariye nella sua nuova identità resta aperta a tutti”, ha confermato Erdogan in conferenza stampa accanto a Mitsotakis.

“Come ho detto al premier greco, abbiamo aperto al culto e alle visite la nostra moschea dopo un attento lavoro di restauro in conformità con la decisione che abbiamo preso nel 2020”, ha sottolineato. “Ho discusso con Erdogan della conversione della chiesa di San Salvatore in Chora e gli ho espresso la mia insoddisfazione”, ha indicato in risposta il leader greco, aggiungendo che questo “tesoro culturale” deve “rimanere accessibile a tutti i visitatori”. Nulla di fatto dunque sul tentativo di Atene di riscrivere il destino del luogo di culto. Ma nonostante le divergenze in merito, la visita di Mitsotakis ad Ankara segna un nuovo passo nel cammino di normalizzazione intrapreso dai due Paesi, contrapposti sulla questione cipriota e rivali nel Mediterraneo orientale. A dicembre i due leader hanno firmato una dichiarazione di “buon vicinato” per sancire una fase di calma nei rapporti iniziata dopo il terremoto che ha ucciso più di 50.000 persone nel sud-est della Turchia, all’inizio del 2023. “Oggi abbiamo dimostrato che accanto ai nostri disaccordi possiamo scrivere una pagina parallela su ciò che ci trova d’accordo”, ha sottolineato Mitsotakis accanto a Erdogan, confermando la volontà di “intensificare i contatti bilaterali”. Perché “l’oggi non deve rimanere prigioniero del passato”.

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Un video per raccontare la lotta al tumore ovarico

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Le donne colpite dal tumore ovarico raccontano, condividono le loro paure, le loro speranza e allo stesso tempo chiedono maggiore attenzione verso questa grave patologia. L’iniziativa è realizzata dalle donne dell’associazione ALTo attraverso un video che da oggi, in occasione della Giornata mondiale contro il tumore ovarico, è disponibile su You Tube.

Il tumore ovarico è il settimo tumore più comune tra le donne a livello mondiale e costituisce l’ottava causa di morte per cancro femminile. Solo in Italia sono circa 6mila le donne che ogni anno ricevono una diagnosi di tumore ovarico. “Ogni donna che combatte contro il cancro ovarico ha una storia unica da raccontare e attraverso questo video vogliamo dare loro voce – spiega Maria Teresa Cafasso, presidente dell’Associazione ALTo – vogliamo mostrare al mondo intero la loro forza e determinazione e allo stesso tempo sensibilizzare sull’importanza della conoscenza precoce, dell’accesso ai trattamenti e della necessità di approvare nuovi farmaci per la cura delle frequenti recidive che spesso colpiscono le donne affette da questa malattia”.

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Nell’inchiesta su Toti l’ombra di una talpa

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Nell’inchiesta sul presunto comitato d’affari e corruzione che ha portato all’arresto (ai domiciliari) del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti spunta l’ombra di una talpa. E’ un aspetto su cui lavorano gli investigatori della guardia di finanza, coordinati dai pm Federico Manotti e Luca Monteverde, alla luce di quanto emerso dalle intercettazioni ambientali.

E’ il 30 settembre 2020. I fratelli Arturo Angelo Testa e Italo Maurizio Testa, iscritti a Forza Italia in Lombardia e da ieri sospesi dal partito, vengono a Genova per incontrarsi con alcune persone della comunità riesina. A quell’incontro si avvicina un uomo con la felpa e il cappellino.

“Viene riconosciuto in Umberto Lo Grasso (consigliere comunale totiano). Che dice a Italo Testa: “Vedi che stanno indagando, non fate nomi e non parlate al telefono …. Stanno indagando”. In tutta risposta Italo Maurizio Testa afferma: “si lo so, non ti preoccupare …. L’ho stutato (“spento” in dialetto siciliano, ndr)”. Questa condotta, scrive il giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni, “appare in tal modo integrare il delitto di favoreggiamento personale, avendo il predetto – avvisando i fratelli Testa a non parlare al telefono essendo in corso indagini (“stanno indagando”) – fornito un aiuto in favore dei predetti ad eludere le investigazioni a loro carico”.

Ma chi ha avvisato Lo Grasso? Una ipotesi è che vi sia appunto una talpa visto che Stefano Anzalone, totiano anche lui e indagato nell’inchiesta, è un ex poliziotto che ha dunque agganci tra le forze dell’ordine. L’altra ipotesi è che si possa trattare di una sorta di millanteria dello stesso Anzalone che dopo le elezioni voleva togliersi di torno i fratelli Testa e non onorare le promesse fatte in cambio dei voti.

Tutti gli indagati citati in questo articolo sono da considerare presunti innocenti.

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