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Economia

In manovra arrivano i primi progetti del Recovery Fund e i primi 15 miliardi di sussidi

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Il Recovery plan italiano muoverà i primi passi gia’ con la prossima manovra. In attesa che si concluda il negoziato europeo e che il piano Next Generation Eu diventi effettivo, l’Italia prepara le misure per circa 40 miliardi che prenderanno forma tra meno di un mese con

la legge di Bilancio, sfruttando fin da subito 15 miliardi di ‘grant’, cioe’ di sussidi europei a fondo perduto, per garantire una crescita sostenuta e che sara’ “duratura” grazie alla spinta di Bruxrelles. Il Recovery migliorera’ in modo strutturale i trend di crescita “tra 0,2 e 0.5 punti di Pil”, spiega il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri in Parlamento, sottolineando che la mole “senza precedenti” di risorse in arrivo consentira’ anche di raddoppiare gli investimenti, portandoli per alcuni anni sopra il 4% del Pil”. Il ministro ribadisce l’intenzione di coinvolgere il Parlamento a ogni step (il primo voto di indirizzo sul Recovery sara’ alla Camera martedi’ 6 ottobre) e snocciola davanti alle commissioni del Senato tutti i numeri che saranno contenuti nella Nadef, solo illustrati al governo che approvera’ il documento nel Consiglio dei ministri di lunedi’ prossimo. Grazie al mix tra extradeficit e risorse europee l’esecutivo punta a due manovre espansive per il 2021-22 per tornare a un indebitamento del 3% a partire dal 2023. Il Pil crescera’ di conseguenza del 6% il prossimo anno (dal 5,1% tendenziale), al 3,8% nel 2022 al 2,5% nel 2023, mentre il deficit e’ programmato al 7% il prossimo anno (dal 5,7%), al 4,7% nel 2022 invece che al 4,1% tendenziale” e appunto al 3% dal 3,4% nel 2023. Questo programma consentira’ di presentare anche un percorso “graduale” e “credibile” di riduzione del debito che il prossimo anno scendera’ dal 158% del 2020 al 155,6%, poi al 153,4% nel 2022 e 151,5% nel ’23” per ridursi ancora sotto i livelli pre-covid, a meno del 130% “alla fine del decennio”. In questo nuovo quadro macroeconomico “sempre prudente”, l’esecutivo si muovera’ per scrivere la legge di Bilancio, con cui “saremo in grado di anticipare molti progetti” del Recovery plan italiano: il piano sara’ composto da una “selezione di pochi progetti” ad alto valore aggiunto, che siano “percepiti dai cittadini”, individuando precise “priorita’”, come ha chiesto anche l’Abi, sentita in Senato insieme alla Banca d’Italia che sottolinea lo “sforzo notevole di progettazione, implementazione e monitoraggio” necessario per sfruttare al meglio le risorse Ue. Tra le misure da far partire subito Gualtieri fa l’esempio di “Industria 4.0 plus”, spiegando che se si intende rafforzare questo programma tanto vale farlo da subito, “dal primo gennaio”, anziche’ aspettare di avere il via libera formale della Commissione che non arrivera’ prima della primavera. Altre misure che potrebbero trovare spazio gia’ in manovra vanno dal supporto agli investimenti privati, in particolare in chiave green, a una nuova spinta per la digitalizzazione della P.a. Di sicuro sara’ prorogato lo sconto del 30% sui contributi per tutti i dipendenti nel Mezzogiorno, scattato da oggi ma finanziato al momento solo fino alla fine dell’anno. Una misura che “potrebbe essere estesa anche ad altre aree del Paese”, dice il viceministro all’Economia Laura Castelli, e che potrebbe essere affiancata da un nuovo piano di sgravi contributivi per i nuovi contratti a tempo indeterminato, in particolari per incentivare l’assunzione di giovani e il lavoro femminile. Per la famiglia potrebbe anche arrivare la rivoluzione dell’assegno unico per i figli fino a 18 anni (il governo starebbe pensando di finanziarlo con 6 miliardi aggiuntivi), tassello di una riforma del fisco che “si caratterizzera’ principalmente per il taglio cuneo fiscale sul lavoro, la revisione complessiva della tassazione verso una maggiore equita’” oltre alla “revisione del sistema degli incentivi ambientali”. Accanto alle tax expenditures il governo potrebbe rispolverare anche la spending review, per indirizzare le risorse, come ha detto Gualtieri, “verso un utilizzo coerente, riqualificando la spesa e riducendo quella improduttiva”.

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Obbligo polizze anche per immobili abusivi in sanatoria

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Anche gli immobili su cui è in corso una sanatoria o un condono dovranno essere assicurati contro le catastrofi. Per gli immobili in affitto, invece, l’indennizzo che spetta al proprietario andrà usato per ripristinare il bene danneggiato o distrutto. Sono alcune delle principali modifiche del decreto polizze catastrofali che, incassato il primo via libera in commissione, sarà da domani in Aula alla Camera. Nulla di fatto invece per l’ipotesi di rendere i costi delle polizze deducibili: la richiesta bipartisan non è passata, ma il governo non esclude di valutarla in manovra. Con una seduta lampo di circa un’ora, la commissione Ambiente di Montecitorio ha iniziato e concluso l’esame degli emendamenti, votando il mandato al relatore Gianpiero Zinzi (Lega).

Le modifiche approvate (due emendamenti del relatore e quattro riformulati) al decreto, che proroga l’obbligo di assicurarsi al primo ottobre 2025 per le medie imprese e al primo gennaio 2026 per le piccole e micro imprese, mirano soprattutto a chiarire alcuni dubbi sollevati dalle imprese. Uno riguarda la questione degli immobili con abusi edilizi, che la norma esclude dall’obbligo di assicurazione: la modifica stabilisce che vadano assicurati “esclusivamente” gli immobili costruiti o ampliati con “un valido titolo edilizio”, ma anche quelli “oggetto di sanatoria o per i quali sia in corso un procedimento di sanatoria o condono”. Per gli immobili non a norma, che risultano quindi non assicurabili, viene quindi specificato che non avranno diritto ad indennizzi e contributi pubblici. Per gli immobili di proprietà di terzi, che vanno assicurati dall’imprenditore, si stabilisce che l’indennizzo spettante al proprietario vada utilizzato “per il ripristino dei beni danneggiati”.

In caso di inadempimento il proprietario ha comunque diritto a “una somma”, per compensare il mancato profitto nel periodo di inattività dell’impresa, “nei limiti del 40% dell’indennizzo percepito”. Un emendamento del relatore chiarisce poi che il valore dei beni da assicurare venga determinato considerando “il valore di ricostruzione a nuovo dell’immobile” o “il costo di rimpiazzo dei beni mobili” o il costo “di ripristino delle condizioni del terreno interessato dall’evento calamitoso”. Vengono inoltre esclusi dallo scoperto o franchigia fino al 15% del danno le grandi imprese che “stipulano un programma assicurativo globale valido per tutto il gruppo”. E’ infine previsto il coinvolgimento del Garante per la sorveglianza dei prezzi che, insieme all’Ivass, svolgerà “la funzione di controllo e verifica”, per evitare speculazioni sui premi assicurativi.

Nulla di fatto invece per la richiesta avanzata sia dalla maggioranza che dall’opposizione di prevedere una deducibilità dei costi. Un tema che non può essere trattato in un provvedimento di proroga, spiega il sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che però non chiude: il tempo c’è, “magari troverà spazio nella prossima legge di bilancio”.

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Corte Conti Ue dura su Pnrr: scollegato dai risultati

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Duro bilancio della Corte dei conti europea sul dispositivo per la Ripresa e la resilienza, soprattutto per lanciare un avvertimento sul prossimo Bilancio Ue e l’ipotesi di legare di nuovo fondi europei a riforme o risultati. “Sebbene il Pnrr abbia svolto un ruolo cruciale nella ripresa post-pandemica dell’Ue, abbiamo riscontrato diverse debolezze in termini di performance, responsabilità e trasparenza”, ha spiegato Ivana Maletić, membro della Corte. “I finanziamenti di futuri strumenti basati sulla performance dovranno essere meglio collegati ai risultati e disciplinati da regole chiare – ha aggiunto il coautore Jorg Kristijan Petrovič -: altrimenti, questo sistema non andrebbe utilizzato”.

Secondo gli auditor europei, in particolare, il Recovery “non è realmente uno strumento che eroga finanziamenti sulla base della performance”, perché “pone maggior enfasi sui progressi”. Anche se i pagamenti sono legati a traguardi e obiettivi, si riferiscono più spesso a output (come edifici ristrutturati o chilometri di ferrovie) che a risultati concreti, rendendo difficile valutare l’efficacia delle misure. La Commissione però non ci sta: pur dicendosi “lieta” che sia stato riconosciuto l’impatto positivo del Pnrr, afferma che “non sembra basato su alcun riscontro” il giudizio che il Recovery non è basato sulla performance.

Lo è “chiaramente”, rivendica. “Incentivando gli Stati membri ad affrontare le loro sfide strutturali, ha accelerato l’attuazione di riforme vitali in aree come occupazione, istruzione e ambiente imprenditoriale”, ha anche segnalato il vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto (Nella foto Imagoeconomica in evidenza). L’analisi degli auditor europei è comunque impietosa, anche se riprende giudizi già espressi dalla Corte dei Conti a Lussemburgo in più occasioni: “Le informazioni sui risultati sono modeste”, afferma, e “l’efficienza della spesa e il rapporto costi-benefici non possono essere misurati”. La Commissione “non raccoglie dati sui costi effettivi”, accusa. E di conseguenza, “non è chiaro quello che i cittadini ottengono in concreto grazie a questi fondi”.

La Corte lamenta anche che “non esiste un quadro completo su chi siano i destinatari finali dei fondi”. L’erogazione agli Stati membri non garantisce che il denaro abbia raggiunto l’economia reale. In alcuni casi, i fondi sono rimasti presso istituzioni intermedie, come la Banca europea per gli investimenti. Nonostante alcuni miglioramenti recenti, “i sistemi di controllo del Recovery non sono ancora abbastanza robusti”. Sono affidati ai singoli Stati, ma ci sono debolezze e la Commissione “non può imporre rettifiche finanziarie” per singole violazioni, salvo casi gravi, e “alcuni Paesi hanno ricevuto consistenti finanziamenti ancor prima di avere completato i progetti”. E ancora, “solo la metà circa delle misure ha prodotto risultati concreti”. E “l’assenza di indicatori adeguati limita in modo significativo la possibilità di valutare l’impatto delle riforme”. Ci sono metodologie su traguardi e obiettivi diverse per ogni Stato con un “rischio di disparità di trattamento”.

A fine 2024 erano state presentate 128 delle 151 richieste di pagamento previste (85%), ma con forti disparità tra Paesi. Mentre il 42% dei fondi è stato erogato, solo il 28% dei traguardi e obiettivi è stato raggiunto: “una quota significativa dei finanziamenti è stata versata senza che le misure corrispondenti fossero state completate”. Insomma, l’invito è quello di evitare di ripetere in futuro un modello che “non garantisce informazioni sui risultati, sui costi effettivi e sui beneficiari finali”. Per strumenti così è necessario che “i finanziamenti siano chiaramente collegati ai risultati” e che vi siano “regole chiare e comuni per tutti gli Stati membri”. “Una semplice copia e incolla non è un’opzione”.

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Bce accelera l’euro digitale, PostePay tra i 70 partner

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La Bce scalda i motori sull’euro digitale, con un ‘innovation hub’ che riunirà startup, aziende fintech, mondo dell’accademia, fornitori di servizi di pagamento: obiettivo, far stare al passo il progetto di valuta digitale con l’innovazione ora che dall’amministrazione Trump arriva un’offensiva che fa perno, invece, sulle stablecoin come mezzo di pagamento per puntellare il dollaro. La Banca centrale europea la chiama “piattaforma per l’innovazione”, con gruppi di lavoro che si riuniscono regolarmente, fatta di quasi 70 partner impegnati in sperimentazione, innovazioni, simulazioni e test di quello che – previa decisione finale di Francoforte a fine anno una volta avuto il via libera dell’Europarlamento – sarà l'”ecosistema” dell’euro digitale. Un segnale alle obiezioni del settore bancario e dei payment service providers, dove alcuni all’euro digitale preferirebbero un ecosistema europeo privato superando l’attuale frammentazione.

Il principio è che la Bce fornirà l’infrastruttura, con un euro digitale di base gratuito per l’inclusione finanziaria, ma i privati potranno arricchire con servizi aggiuntivi. Ma anche un’apertura all’innovazione che parla implicitamente alla politica: “l’ampiezza e creatività delle proposte sottolineano il potenziale dell’euro digitale come catalizzatore d’innovazione finanziaria in Europa”, commenta Piero Cipollone che nel board Bce cura il progetto dell’euro digitale. Sullo sfondo ci sono i timori crescenti – anche di stabilità finanziaria – di Francoforte per l’alleanza dell’amministrazione Trump col mondo crypto, in particolare le stablecoin, per puntellare il dollaro e non nasconde la propria avversità alle valute digitali di banche centrali come il progetto europeo.

I partner di questo ‘innovation hub’, divisi fra “pionieri” e “visionari”, vanno dai big dell’high tech e della consulenza come Infineon, Sap, Accenture e Kpmg, al Politecnico di Milano, Sda Bocconi e Fintech Lab Baffi Centre fino al settore bancario con per l’Italia l’Abi Lab. Dai fornitori di pagamenti elettronici come la spagnola Bizum o PostePay, col potenziale di dare accesso all’euro digitale agli anziani poco digitalizzati con la rete capillare di Poste, alle startup dell’Ia come l’italiana TechAi Lab. Fino a Coti, un ecosistema per le transazioni finanziarie con soluzioni per la privacy basato sulla tecnologia blockchain, opzione cui la Bce guarda con interesse.

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