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Politica

Si apre partita Recovery fund, ma c’è il nodo Mes

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Sui 209 miliardi del Recovery fund la partita e’ aperta. Il governo e’ impegnato a predisporre i progetti che saranno finanziati da una mole di denaro proveniente da Bruxelles superiore a quella del Piano Marshall nel dopoguerra. Progetti che, assicura il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, saranno perfezionati per il 15 ottobre. Gia’ mercoledi’ e’ in proposito convocata una riunione del Ciae, il Comitato interministeriale per gli affari europei, una sorta di ‘cabina di regia’ in cui tutti i ministeri si confronteranno. Insomma, avanti tutta, anche sulla scia della esortazione a fare presto sulla progettazione lanciata a Cernobbio dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma l’opposizione marca stretto l’Esecutivo, con Matteo Salvini che va allo scontro ed ammonisce: “Questo Paese rischia di morire di non decisione. Non puoi avere al governo uno che dice si’ e uno che dice no. Mi auguro che L’Italia torni a decidere”. Con un intervento sul Sole 24 ore nel giorno della sua partecipazione al Forum Ambrosetti,il leader della Lega attacca a testa bassa il governo sui verbali del Cts. “Il governo deve spiegare perche’ ha taciuto i rischi del virus e ha affrontato l’emergenza con drammatica superficialita’”, scrive accusando l’esecutivo di non aver condiviso informazioni su “elementi allarmanti” opponendo una secretazione dei verbali. Gli risponde a stretto giro il ministro della Sanita’ Roberto Speranza, secondo cui il governo non ha opposto alcun segreto; per cui, sostiene, “la lettera di Salvini e’ sbagliata perche’ divide l’Italia e da’ l’idea di un leader piccolo che mette dinanzi gli interessi di parte rispetto a quelli del paese”. Sul tema, pero’, nella maggioranza restano divisioni: soprattutto sull’attivazione del Mes, il prestito posto a disposizione dalla Ue a finanziamento delle spese per il comparto Sanita’. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva detto che il ministro della Salute non ha “bisogno di piu’ soldi per la sanita’”. Ma Speranza in persona alla festa del Fatto quotidiano pare pensarla diversamente: “penso – rileva – che le risorse siano fondamentali e abbiamo bisogno di prenderle con tutto il coraggio di cui c’e’ bisogno: io le chiedo per il Recovery Fund e non ho paura a chiederle per il Mes e non ho paura a chiederle per il bilancio dello Stato e il debito pubblico. Per me – prosegue Speranza – da dovunque vengono i soldi, se sono spesi per la salute e per il nostro Servizio sanitario nazionale e’ una spesa giusta. Quindi dobbiamo muoverci in questa direzione”. Conte, dunque, deve muoversi tra il M5S che oppone un no deciso all’uso del Mes, condiviso nell’opposizione con Giorgia Meloni, ed il Partito democratico che mai ha nascosto la propria apertura all’uso di qualsiasi risorsa possa arrivare a qualisiasi titolo per un vero rilancio del Paese dopo la pandemia del Coronavirus. In ogni caso, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri assicura che il Governo non attendera’ la scadenza di aprile ma presentera’ “ufficialmente” i progetti per il Recovery Fund gia’ a gennaio “nel primo giorno in cui saranno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale”. Si punta a “investimenti che dovranno avere una organicita’ per evitare che siano fra loro scollegati”. Diverse le aree di intervento citate dal ministro fra cui la “digitalizzazione, l’innovazione, le infrastrutture, la formazione, la salute, la ricerca e la decarbonizzazione”.

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Parlamento vuoto, tasche dei parlamentari piene: ecco perché gli assenteisti incassano i soldi anche se assenti

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In un Parlamento spesso desolatamente vuoto, l’assenteismo dei parlamentari italiani è un problema cronico. Nonostante siano ben retribuiti per occuparsi esclusivamente dell’interesse del Paese, molti deputati e senatori non partecipano attivamente ai lavori parlamentari. I dati di Dataroom del Corriere della Sera, curati da Milena Gabbanelli, illustrano una situazione preoccupante che mette in discussione l’efficacia del sistema.

Ogni parlamentare incassa tra i 13 e i 15 mila euro al mese, con un’indennità stabilita dalla Costituzione di circa 5 mila euro netti. Il resto sono rimborsi per l’attività parlamentare: diaria (3.500 euro), rimborso spese (3.690 euro per i deputati, 5.830 per i senatori), spese di viaggio e telefono. I parlamentari godono anche di pensioni dopo 5 anni di legislatura e di benefit come interessi bancari vantaggiosi. Questo sistema di compensi dovrebbe garantire un impegno totale verso il Paese, ma la realtà è spesso diversa.

I regolamenti di Camera e Senato prevedono penalizzazioni per assenze non giustificate. Tuttavia, la presenza minima richiesta è del 30% delle votazioni giornaliere o mensili, e le assenze possono essere giustificate per missioni, congedi o altri impegni istituzionali. Questo lascia ampi margini di discrezionalità e scarsa trasparenza, permettendo ai parlamentari di evitare decurtazioni anche con alte percentuali di assenze.

Compensi dei parlamentari italiani

I parlamentari italiani godono di compensi elevati e di una serie di benefit che rendono il loro incarico ben remunerato. Ecco una panoramica dei compensi:

  • Indennità netta: 5.000 euro
  • Diaria: 3.500 euro
  • Rimborso spese per i deputati: 3.690 euro
  • Rimborso spese per i senatori: 5.830 euro
  • Spese di viaggio (trimestrali): 3.359 euro
  • Telefono (annuale): 1.200 euro

Questi importi evidenziano come il ruolo di parlamentare sia supportato da un consistente pacchetto retributivo e di rimborsi, destinato a garantire l’impegno esclusivo nell’attività parlamentare.

I Parlamentari più assenteisti

  1. Antonio Angelucci (Lega): Presente allo 0,17% delle votazioni, con un’assenza del 99,83%.
  2. Marta Fascina (Forza Italia): Presente al 7,17% delle votazioni, con un’assenza del 92,83%.
  3. Antonino Minardo (Gruppo Misto): Presente allo 0,63% delle votazioni, con un’assenza del 99,37%.
  4. Giulio Tremonti (Fratelli d’Italia): Presente al 3,54% delle votazioni, con un’assenza del 96,46%.
  5. Claudio Borghi (Lega): Presente al 35,10% delle votazioni, con un’assenza del 64,90%.
  6. Elly Schlein (Pd): Presente al 24,2% delle votazioni, con un’assenza del 75,8%.
  7. Giuseppe Conte (M5S): Presente al 26,74% delle votazioni, con un’assenza del 73,26%.
  8. Matteo Renzi (Italia Viva): Presente al 53,59% delle votazioni, con un’assenza del 46,41%.
  9. Carlo Calenda (Azione): Presente al 51,86% delle votazioni, con un’assenza del 48,14%.

L’assenteismo parlamentare non solo danneggia l’immagine delle istituzioni, ma mina anche la fiducia dei cittadini. Le penalizzazioni previste dalle attuali norme sono insufficienti, e le giustificazioni per le assenze troppo generose. Come sottolineato da Angelo Bonelli di Alleanza Verdi Sinistra, è necessario un intervento più incisivo, con un tetto massimo alle assenze e la possibile decadenza dal mandato per i più assenteisti.

La mancanza di trasparenza nelle commissioni parlamentari è un problema critico. Come evidenziato da Luca Dal Poggetto di Openpolis, non è possibile verificare le presenze dei parlamentari in missione. Questo margine di discrezionalità permette ai parlamentari di risultare presenti anche quando non partecipano effettivamente ai lavori.

Il problema dell’assenteismo parlamentare richiede un intervento urgente e deciso. I cittadini devono poter contare su rappresentanti che si dedicano pienamente al loro ruolo e che rispettano l’impegno preso. Solo così si potrà ricostruire la fiducia nelle istituzioni e garantire un Parlamento efficace e funzionante.

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Politica

Sprint Parlamento sulle riforme, opposizioni in piazza

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Di nuovo al lavoro, dopo la tempesta. Il Parlamento riprende dalle tensioni e risse che l’hanno infiammato nei giorni scorsi e punta a stringere sulle due ‘riforme madri’. L’elezione diretta del premier che martedì pomeriggio al Senato dovrebbe incassare il primo ok (ne serviranno altri tre, essendo una riforma costituzionale). E l’autonomia differenziata, che giovedì a Montecitorio potrebbe diventare legge. Contro entrambi i provvedimenti le opposizioni continuano a fare muro: Pd, M5s, Avs e Più Europa saranno in piazza a Roma alle 17.30 per difendere la Costituzione e l’unità nazionale, minacciate a loro avviso dalle riforme. E chissà che non spunti anche una delegazione di Azione e degli ex alleati renziani, in piazza santi Apostoli.

Insomma, dopo le “provocazioni” (copyright Meloni) a colpi di Tricolore e ‘Bella ciao’ sfociate nella scazzottata a Montecitorio, martedì potrebbe essere un’altra giornata calda per maggioranza e opposizione. La Camera si riunirà con 11 deputati in meno, assenti forzati perché coinvolti nella bagarre di mercoledì e quindi sanzionati con la sospensione di qualche giorno. Non ci sarà ad esempio Igor Iezzi, numero due della Lega a Montecitorio e nemmeno Federico Mollicone di FdI, presidente della commissione Cultura. A casa pure Leonardo Donno dei 5S accerchiato e caduto in aula, e Nico Stumpo del Pd che ha scagliato una sedia contro gli scranni del governo a fine serata.

Nel calendario della Camera, dalle 14 c’è il decreto sulle associazioni sindacali nel mondo militare, ma di sicuro si farà in fretta. Obiettivo della maggioranza – è voce insistente nel centrodestra – è accelerare per tornare sull’Autonomia e recuperare il tempo perso. Lo farà la Lega, che così potrà vantare la conquista più ambita dal popolo del nord e invocata ogni anno a Pontida srotolando sul palco il vessillo del leone di San marco di Venezia. Più dubbiosa, invece, una parte di Forza Italia che all’interno cova riserve e distinguo. Preoccupano soprattutto le sorti del Sud.

A esporsi su questo è stato il governatore calabrese Roberto Occhiuto denunciando al Corriere la “brusca accelerazione” data finora alla proposta del ministro Calderoli, e rimarcando la necessità di migliorare il testo di legge sulle materie dove sono previsti i Lep (i livelli essenziali di prestazione). Nel ragionamento di Occhiuto, prima di fare intese con le Regioni, “è necessario definirli e finanziarli, ma i soldi ancora non ci sono”, oltre ai dubbi sulle materie dove i Lep non ci sono. Istanze condivise da una fetta di amministratori meridionali di FI, forti anche del contributo dato dal Mezzogiorno alle ultime Europee. Ma che sarebbero state respinte anche all’interno del partito nella consapevolezza, tra l’altro, che si allungherebbero i tempi per il varo del provvedimento perchè servirebbe una nuova lettura da parte di palazzo Madama.

Lo spazio per malumori e riserve verrà confinato negli ordini del giorno che saranno presentati da FI (si vocifera che potrebbero essere quasi 20). Martedì, più o meno in contemporanea, al Senato dovrebbe chiudersi la battaglia sul premierato, avviata a novembre in commissione e patrocinata dalla ministra Elisabetta Casellati. Pochi i dubbi sul finale, tranne da parte del gruppo di Matteo Renzi che deciderà fino all’ultimo tra astensione o voto contrario. FdI va dritta per la sua strada, non esclude che qualche tensione potrà ancora esserci ma confida nella diretta tv dei lavori d’Aula (che impone tempi definiti) e assicura sobrietà, a maggior ragione dopo la strigliata della premier perché i ‘suoi’ non cadano più in “provocazioni” delle opposizioni. Resta da vedere, nell’incrocio delle riforme e nell’ambito dei rapporti di forza del centrodestra, chi la spunterà, sui tempi, tra premierato e riforma della giustizia, quest’ultima bandiera dei berlusconiani. Entrambe sono destinate all’esame della Camera, a partire dalla commissione Affari costituzionali che è guidata dal forzista Nazario Pagano.

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Meloni alla sfida di Bruxelles,vuole commissario di peso

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Dalla pizzica in Puglia al gran ballo delle nomine europee. Archiviato un G7 che per lei è stato “un successo”, Giorgia Meloni si prepara all’altra sfida, altrettanto e forse più importante, quella di riuscire a pesare a Bruxelles anche se i numeri posto voto, nonostante la netta vittoria di Fdi in Italia, non le sono favorevoli. L’Italia, è il ragionamento che fa in privato e che ha esplicitato anche nella conferenza stampa di Borgo Egnazia, merita che le venga riconosciuto un ruolo di primo piano. E se sui vertici, almeno ad oggi, non c’è spazio, l’attenzione di Roma è tutta sul commissario.

E sull’obiettivo di conquistare per Roma anche una vicepresidenza. La cena informale dei leader non è che il primo step, ripetono i suoi fedelissimi. Meloni, che pure preferirebbe aspettare l’esito delle elezioni francesi ma non si dovrebbe però mettere di traverso se ci fosse una spinta per accelerare, puntando a chiudere già al Consiglio di fine mese. “Da martedì il quadro sarà un po’ più chiaro”, dicono i suoi. E si potrà entrare nel vivo della trattativa sulle deleghe dei commissari. Una partita che si gioca su più piani. La premier, di rientro da Lucerna con il ministro degli Esteri Antonio Tajani (che sarà alla riunione del Ppe), potrebbe avere iniziato ad esaminare con l’alleato le varie opzioni, che andranno comunque condivise nel governo.

La scelta andrà però fatta incrociando i portafogli più interessanti e profili più adatti a gestirli. “Di nomi ancora non si è parlato”, assicurano nella maggioranza. Ma Il candidato naturale per l’ingresso nella nuova Commissione sarebbe Raffale Fitto, conosciuto negli ambienti europei e che oggi gestisce, per conto del governo, i rapporti e i principali dossier sulla linea Roma-Bruxelles. Le sue chance però si scontrano con il fatto che spostare un ministro vorrebbe dire aprire al rimpasto di governo, una ipotesi che Meloni ha escluso pubblicamente già da diverse settimane. E a maggior ragione ora che l’esito delle elezioni europee vede “il governo che è andato benissimo”, ragiona un dirigente di prima fila della maggioranza, aprire il vaso di pandora del rimpasto rischierebbe di avere più costi che benefici.

Semmai ci sarebbero da riempire le due caselle dei sottosegretari rimaste scoperte (per l’uscita di Augusta Montaruli prima e di Vittorio Sgarbi in primavera), ma questo capitolo non si dovrebbe riaprire prima dell’estate. Evitare di scoprire l’esecutivo è argomento che vale anche per Giancarlo Giorgetti, che peraltro si è chiamato fuori, e pure per Antonio Tajani, il cui nome è circolato nelle ipotesi di grande impasse dei popolari sul nome di von der Leyen, che al momento non è però all’orizzonte. Il tam tam delle ultime settimane vede anche l’ipotesi di Elisabetta Belloni, capo dei servizi e sherpa del G7 (“si fa il mio nome ogni volta che c’è una casella vuota”, avrebbe scherzato la stessa ambasciatrice negli ultimi giorni).

Il suo sarebbe un profilo che bene si abbinerebbe all’Alto rappresentante per gli affari esteri, che non sarebbe, però, in cima alla lista dei desiderata. I più ambiti rimarrebbero infatti i portafogli economici a partire dalla Concorrenza e dal Mercato interno, caselle oggi coperte da Danimarca e Francia. Insieme a una vicepresidenza, meglio ancora se esecutiva. Sarebbe “un miracolo di Giorgia”, dice un alto esponente del suo partito, dato che i tre attuali sono tutti espressione della maggioranza Ursula. Soprattutto per la Concorrenza servirebbe però un profilo tecnico (l’ultima volta che l’Italia ha avuto questa delega c’era Mario Monti) che ancora non sarebbe stato individuato. Vittorio Colao, che pure era entrato nel totonomi, non sarebbe in corsa. Così come incerte sono le chance di altri tecnici. Si è parlato dell’ex ministro Daniele Franco (che era il nome italiano per la Bei), ma qualche possibilità in più potrebbe averla Roberto Cingolani, che dovrebbe però lasciare la guida di Leonardo.

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