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Esteri

Usa, niente pena di morte per “El Mayo” Zambada e altri due narcos messicani

Il Dipartimento di Giustizia USA rinuncia alla pena capitale per Ismael Zambada, Caro Quintero e Carrillo Fuentes, storici leader del narcotraffico messicano.

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Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha deciso di non chiedere la pena di morte per Ismael “El Mayo” Zambada, storico fondatore del Cartello di Sinaloa e figura chiave del narcotraffico internazionale. Lo ha comunicato ufficialmente il procuratore generale Joseph Nocella Jr. al giudice Brian Cogan, della Eastern District Court di New York, precisando che l’ordine è stato autorizzato dal Procuratore Generale della Repubblica.

La figura di Zambada e le tensioni nel Cartello di Sinaloa

Zambada è stato arrestato il 25 luglio 2024, in un’operazione che ha innescato una guerra interna tra le fazioni del cartello, in particolare tra i suoi uomini e quelli fedeli a Joaquín “El Chapo” Guzmán, già condannato all’ergastolo proprio a New York. Terzo fondatore del cartello fu Juan José Esparragoza Moreno, detto “El Azul”, la cui morte presunta è stata dichiarata nel 2013.

L’avvocato di Zambada, Frank Perez, ha accolto con soddisfazione la decisione americana: “Questo rappresenta un passo importante verso una risoluzione giusta ed equa”, ha dichiarato alla stampa, incluso il giornalista Keegan Hamilton, che ha reso pubblico il documento.

Niente pena capitale anche per Caro Quintero e Carrillo Fuentes

La rinuncia alla pena capitale non riguarda solo Zambada. Lo stesso Nocella Jr. ha informato i giudici che non sarà richiesta nemmeno per Rafael Caro Quintero, ex boss del defunto Cartello di Guadalajara, arrestato per l’omicidio dell’agente DEA Enrique “Kiki” Camarena. Caro Quintero era uno dei criminali più ricercati al mondo.

Stessa sorte anche per Vicente Carrillo Fuentes, conosciuto come “Il Viceré”, che prese il controllo del Cartello di Juárez dopo l’arresto del fratello, Amado Carrillo Fuentes, il celebre “Signore dei Cieli”.

La decisione del governo americano rappresenta un cambio di passo nella gestione giudiziaria dei grandi capi del narcotraffico, che non saranno più sottoposti al rischio della pena di morte, pur rimanendo accusati di crimini gravissimi.

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Vucic elogia Meloni dopo la visita a Belgrado: “È una delle donne più potenti del mondo”

Il presidente serbo Vucic definisce Giorgia Meloni “una delle donne più potenti del mondo” dopo il colloquio a Belgrado. Al centro dell’incontro: Balcani, riforme e percorso europeo della Serbia.

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La presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni è stata accolta a Belgrado dal presidente serbo Aleksandar Vucic, che ha definito il colloquio “di estrema importanza” per il futuro della Serbia. Nonostante la brevità della visita, Vucic ha sottolineato il peso politico dell’incontro e il valore personale della leader italiana: “Una delle donne più potenti del mondo, uno dei capi di governo più influenti non solo in Europa, ma a livello globale”.

Al centro: Balcani, Europa e stato di diritto

In un’intervista concessa all’emittente serba Prva, Vucic ha dichiarato che con Meloni ha discusso la situazione geopolitica internazionale e regionale, soffermandosi in particolare sui Balcani occidentali, la stabilità della regione e il percorso di adesione della Serbia all’Unione Europea.

“È stato un colloquio molto utile, che ha toccato riforme, stato di diritto e sviluppo interno”, ha spiegato il presidente serbo. Vucic ha anche aggiunto di aver ascoltato i consigli e le idee di Meloni, interessato a conoscere la visione italiana sul futuro della Serbia e dell’Europa.

Riconoscimento al ruolo internazionale dell’Italia

Le parole del presidente serbo confermano l’importanza crescente della diplomazia italiana nei Balcani, dove Roma punta a rafforzare i legami politici ed economici, sostenendo la stabilità e l’europeizzazione dell’area.

La visita di Meloni si inserisce in questo quadro e viene percepita da Belgrado come un segnale di attenzione e sostegno, non solo in ottica europea ma anche nel delicato equilibrio regionale.

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Colombia, Petro: “Mercenarismo è tratta di uomini da uccidere”. Morti 40 colombiani in Sudan

Dopo l’abbattimento in Sudan di un aereo con mercenari colombiani, Petro chiede una legge urgente contro il mercenarismo: “Una tratta di uomini usati come merce per uccidere”.

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Il presidente della Colombia Gustavo Petro ha confermato la probabile morte di 40 cittadini colombiani in Sudan, dopo l’abbattimento di un aereo degli Emirati Arabi Uniti da parte dell’aviazione sudanese. L’aereo trasportava presunti mercenari colombiani, e la notizia ha scosso profondamente il governo di Bogotá.

“Ho ordinato alla nostra ambasciatrice in Egitto di verificare il numero esatto di vittime”, ha scritto Petro sul suo account X. “Si parla di 40 connazionali uccisi”.

Un appello urgente per vietare il mercenarismo

Nel suo messaggio, il presidente ha ribadito la necessità di approvare una legge contro il mercenarismo, già passata alla seconda Commissione della Camera. “Si tratta di una tratta di uomini, trasformati in merci da uccidere”, ha denunciato, criticando aspramente chi recluta giovani colombiani per combattere guerre in Paesi dove “nessuno ci ha fatto del male”.

“Volevano così tanta guerra in Colombia”, ha aggiunto Petro, “che, man mano che la guerra qui si spegneva, la cercavano fuori. I ‘capi’ che mandano i giovani a uccidere e a morire sono spettri della morte. Hanno tradito il giuramento a Bolívar”.

Un business internazionale della guerra

Il fenomeno dei mercenari colombiani reclutati per conflitti all’estero non è nuovo. Ex militari o giovani disoccupati vengono arruolati con promesse di guadagni elevati per partecipare a guerre lontane — spesso in Medio Oriente o in Africa — fuori da ogni cornice legale e morale.

L’episodio in Sudan, che coinvolge direttamente gli Emirati Arabi Uniti, getta nuova luce su un sistema opaco e pericoloso, in cui uomini diventano merce bellica su scala globale.

Una ferita diplomatica e politica

L’incidente rischia di avere ripercussioni internazionali: oltre al bilancio tragico, il coinvolgimento degli Emirati e del Sudan potrebbe aprire un caso diplomatico. Intanto, la Colombia si prepara a discutere in via urgente la legge per vietare il mercenarismo, nella speranza che tragedie simili non si ripetano.

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Lula: “Chi non accetta la legge brasiliana può lasciare il Paese”. Il presidente rilancia la regolamentazione delle Big Tech

Lula attacca le pressioni internazionali contro la regolamentazione delle Big Tech: “In Brasile valgono le nostre leggi. Se non vi sta bene, uscite dal Paese”.

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Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva è tornato con forza a porre la questione della regolamentazione delle piattaforme digitali, denunciando l’esistenza di pressioni esterne per ostacolare l’approvazione di leggi che disciplinino il potere delle Big Tech in Brasile.

Nel corso di una lunga intervista rilasciata a Reuters, Lula ha detto chiaramente: “Se non vuoi la regolamentazione brasiliana delle Big Tech, esci dal Brasile”. Una frase che ha immediatamente fatto il giro dei principali media del Paese.

“Anche le aziende straniere devono rispettare le leggi brasiliane”

Lula ha ribadito che le piattaforme digitali devono rispondere alla legislazione locale, come accade in qualsiasi altro Stato sovrano: “Negli Stati Uniti, un’azienda brasiliana è obbligata a seguire la legge americana, in Francia segue quella francese. E in Brasile deve rispettare la nostra”.

Il presidente ha poi chiarito che non si tratta di una forzatura ideologica, ma di un principio basilare di sovranità nazionale e rispetto della Costituzione: “Questo Paese ha una legislazione ed è nostro dovere regolare ciò che riteniamo opportuno in base agli interessi e alla cultura del popolo brasiliano”.

Il riferimento a Trump e alle resistenze degli Stati Uniti

Nel suo intervento Lula ha alluso direttamente al presidente statunitense Donald Trump, sottolineando che l’ingerenza di interessi stranieri nel dibattito interno brasiliano è inaccettabile. “Aspetta un attimo — ha detto —. Qui siamo in Brasile. Qui decidiamo noi. Non ammettiamo che qualcuno dall’esterno venga a dire cosa possiamo o non possiamo fare”.

Il nodo della regolamentazione digitale

Il dibattito sulle Big Tech è da mesi al centro dell’agenda politica brasiliana, tra iniziative parlamentari e accuse di scarsa trasparenza, diffusione di disinformazione e mancato rispetto delle norme fiscali e civili. Lula ha più volte chiesto un modello normativo solido per piattaforme come Google, Meta, X (ex Twitter) e TikTok.

Il messaggio del presidente è chiaro: nessuna piattaforma è al di sopra della legge. E il Brasile, ha detto Lula, intende difendere la propria sovranità anche nello spazio digitale.

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