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Economia

Scattano i dazi Usa, Apple trova l’accordo e si salva

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Prima le lavagne celebrative del Liberation Day, poi le minacce firmate in calce. Infine, la scure. Donald Trump inaugura la nuova stagione dell’America First a colpi di dazi cosiddetti reciproci contro 92 Paesi, con il pendolo che oscillerà dal 10% al Regno Unito fino al 50% riservato a India e Brasile. Lo spartito commerciale cambia su scala globale, ridisegnando anche gli scambi con l’Europa ancora sospesa alla stretta di mano di Turnberry, senza un testo formale a blindare l’aliquota del 15%, con il rebus esenzioni ancora tutto da risolvere e i malumori interni dei Paesi membri. Per la Casa Bianca la linea è tracciata: chi non si adegua, paga. Chi investe, si salva.

Come nel caso di Apple che, con un annuncio da 100 miliardi di dollari in nuovi investimenti negli Stati Uniti (che si sommano ai 500 già programmati) è riuscita a scampare alla blacklist. Una mossa calibrata dal ceo Tim Cook, che segna un riallineamento strategico all’imperativo del tycoon sul reshoring: riportare in patria la produzione chiave di iPhone, MacBook e altri dispositivi, sottraendola alle filiere di Cina, Vietnam e India.

“Un’altra vittoria per l’industria americana”, ha esultato Washington, rivendicando una strategia tariffaria che “ha già catalizzato migliaia di miliardi di dollari in nuovi investimenti”. La nuova stretta protezionista della seconda era Trump prende forma dal 7 agosto con dazi differenziati che, al pari dell’Europa, colpiranno al 15% anche il Giappone. Il Canada si ritroverà a fare i conti con il 35% e ancora più amaro è il destino della Svizzera, raggiunta da una tariffa del 39%. Uno shock che la presidente elvetica Karin Keller-Sutter ha cercato di scongiurare in extremis con una missione diplomatica a Washington, affiancata dai vertici dell’economia svizzera, a partire dalla big pharma Roche.

Il confronto con il segretario di Stato Marco Rubio è stato definito “amichevole”, ma all’orizzonte non sembrano esserci svolte. Il colpo più duro resta tuttavia quello inferto a India e Brasile. Tanto che Brasilia – finita nel mirino per il processo giudicato “feroce” dal tycoon a carico dell’ex presidente Jair Bolsonaro per il tentato golpe del 2022 – ha deciso di portare il dossier al Wto. Delhi sconta invece il prezzo della complicità con Mosca con una scure che finirà per colpire anche le linee produttive di Apple ancora attive nel subcontinente. Alla stregua di Cupertino, dalle promesse d’investimento in energia e industria a stelle e strisce – per oltre mille miliardi di euro – passa anche la sorte del patto europeo di Turnberry.

A Bruxelles si è sperato a lungo nel via libera di Washington al documento congiunto per dare una prima forma all’intesa al 15% prima dell’entrata in vigore delle nuove tariffe, che manterranno l’aliquota del 50% su acciaio e alluminio. Ma il clima, nelle ultime ore, è apparso tutt’altro che incoraggiante, con fonti diplomatiche che hanno definito i negoziati “estenuanti”. Se per il nuovo ordine esecutivo del tycoon sulle auto Ue, che porterà i dazi giù dal 27,5 al 15%, ci sarà da aspettare probabilmente ancora “qualche giorno”, il pressing per ottenere esenzioni resta alto. Gli unici capitoli che sembrano già blindati riguardano aerei e componentistica, una selezione di farmaci generici e i macchinari ad alta tecnologia come quelli per la produzione di microchip. Ancora tutte da negoziare invece le deroghe per l’agroalimentare e il settore vinicolo e dei liquori, fiore all’occhiello dell’export europeo e italiano.

Il governo “farà il possibile per difendere i propri interessi nazionali”, è tornata ad assicurare la premier Giorgia Meloni, ricordando che molti dei prodotti italiani “non sono sostituibili da omologhi Usa, perché unici nel loro genere”. Un’argomentazione rafforzata anche dal monito di 57 organizzazioni statunitensi del comparto degli alcolici – che rappresentano anche i marchi continentali Campari, Pernod Ricard e Diageo – riunite nella Toasts Not Tariffs Coalition – rivolto direttamente a Trump: i dazi del 15% su vino e liquori europei, nelle loro stime, rischiano di mandare in fumo 2 miliardi di dollari di export e mettere a repentaglio 25mila posti di lavoro negli Stati Uniti.

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Economia

Desertificazione commerciale in Italia: 140mila negozi chiusi in dodici anni, l’allarme di Confcommercio

In dodici anni l’Italia ha perso 140mila negozi. Confcommercio lancia l’allarme: città sempre più svuotate, boom di B&B e ristorazione, rischio di altre 114mila chiusure entro il 2035.

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Il contrario di città, spiegava Renzo Piano (foto Imagoeconomica), «non è campagna, è deserto». È l’immagine che oggi descrive molti centri urbani italiani: periferie spogliate di negozi, botteghe e servizi, sostituite solo in parte da fast food, mini-market, ristoranti e bed and breakfast. Città sempre più simili a luoghi fantasma o a grandi contenitori di case vacanza.

Il crollo del commercio tradizionale

Secondo Confcommercio, negli ultimi dodici anni ha chiuso il 21% dei negozi fisici. Dal 2012 mancano all’appello 140mila attività: 118mila negozi e 23mila imprese ambulanti o artigiane migrate online. Senza interventi urgenti, un negozio su cinque rischia la chiusura, con un saldo negativo previsto del 20% nei prossimi dieci anni.

I cambiamenti nelle abitudini dei consumi

Il boom degli acquisti online — da Amazon a Temu fino a Shein — e il poco sostegno a borghi e periferie hanno modificato la struttura urbana. Cresce la ristorazione (+17,1%) e crollano i bar (-19,1%). Calano anche gli alberghi (-9,5%), mentre bed and breakfast e case vacanza esplodono con un +92,1%, destinato ad aumentare dell’81,9% entro il 2035. Le attività che lavorano prevalentemente via internet sono cresciute del 115%.

I settori più colpiti

Crollano i distributori di carburante (-42,2%), gli articoli culturali e ricreativi (-34,5%), mobili e ferramenta (-26,7%), abbigliamento e calzature (-25%). Anche il commercio non specializzato (supermercati, discount, grandi magazzini) arretra del 34,2%. Crescono invece farmacie (+16,9%) e negozi di informatica e telefonia (+4,9%).

Le città più a rischio

I capoluoghi con la più bassa densità commerciale — e con i cali potenzialmente peggiori entro dieci anni, fino al 38% — si concentrano soprattutto al Nord: Ancona, Ravenna, Trieste, Novara, Reggio Emilia. Nel Centro la situazione più critica è Fiumicino. Tra le città con maggiore densità commerciale figurano Frosinone, Trapani, Cosenza, Nuoro e Cagliari, tutte però esposte a possibili crolli oltre il 25%.

Il rischio 2035

Confcommercio stima che entro il 2035 potrebbero sparire altre 114mila imprese, oltre un quinto di quelle attive oggi. Una perdita che avrebbe «gravi conseguenze per economia urbana, qualità della vita e coesione sociale».

Le proposte per fermare il declino

L’associazione del commercio chiede una strategia nazionale di rigenerazione urbana coordinata con fondi europei, Pnrr e risorse di Comuni e Regioni. Tra le ricette indicate: potenziare i Distretti urbani dello sviluppo economico, siglare patti tra Stato e aziende per rivitalizzare i quartieri, rendere più accessibili gli spazi commerciali sfitti. Sono oltre 105mila i locali utilizzabili ma vuoti, un quarto dei quali inutilizzati da oltre un anno. Per rimetterli in circolo Confcommercio propone canoni calmierati e incentivi pubblici e privati.

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Economia

Debito pubblico, boom dei “Bot People”: famiglie italiane tornano a investire mentre il credito rallenta

Crescono i “Bot People” e gli acquisti di Btp da parte delle famiglie, segnale di fiducia nel debito italiano. Rallenta invece il credito a famiglie e imprese: prestiti fermi a +1,5% a ottobre.

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Raddoppiano i “Bot People”, le famiglie italiane che tornano a investire con decisione nei titoli di Stato. Un fenomeno che segna un’importante manifestazione di fiducia nella solidità del debito pubblico nazionale, rafforzata dalle recenti promozioni dei rating e dai rendimenti ancora competitivi.

Secondo i dati aggiornati, famiglie e imprese detengono oggi 442,4 miliardi di euro di debito pubblico, pari al 14,4% del totale, il doppio rispetto al minimo storico del 2021. Un cambio di rotta significativo.

Credito a rilento: prestiti in crescita, ma più deboli

Sul fronte del credito, i segnali sono invece contrastanti.
L’Abi nel suo rapporto mensile certifica che:

  • la crescita complessiva dei prestiti a ottobre si ferma a +1,5%,

  • in rallentamento rispetto al +1,7% di settembre,

  • nonostante il decimo mese consecutivo di crescita per le famiglie e il quarto per le imprese.

L’ostacolo principale resta la domanda debole, soprattutto da parte delle imprese reduci da due anni difficili per la produzione industriale e frenate dall’incertezza internazionale, dai dazi e da una crescita economica che nel secondo trimestre è stata negativa e nel terzo è rimasta ferma.

Effetto Bce: tassi giù ma domanda ancora tiepida

Il taglio dei tassi avviato dalla Bce nell’estate del 2024 ha ridotto il costo del denaro:

  • i tassi bancari sono scesi al 3,95% dal picco del 4,71% del 2023.

Non basta però a riportare la crescita del credito ai livelli pre-crisi energetica, quando i prestiti aumentavano tra il 2% e il 3% annuo.
La domanda resta “complessivamente debole”, rileva la stessa Bce.

Per capire la direzione dei prossimi mesi — spiega l’Abi — serviranno i dati di novembre e fine anno.

Btp sempre più attrattivi: famiglie, banche ed esteri comprano

Mentre il credito rallenta, la domanda di Btp continua a correre.
Complici:

  • stabilità politica,

  • rendimenti elevati,

  • politiche di bilancio prudenti,

  • strumenti su misura per i piccoli risparmiatori (Btp Italia, Btp Valore, Btp Più).

Il portafoglio delle banche italiane mantiene una quota stabile di circa 620 miliardi di euro in titoli di Stato.

In parallelo cresce anche la presenza degli investitori esteri, arrivati al 33,8% del totale, contro il 26,8% del 2022. Una dinamica che aiuta a compensare il calo delle detenzioni della Bce e di Bankitalia, scese da 721 a 592 miliardi.

Fiducia crescente e ruolo centrale delle banche

Per Lando Sileoni, segretario generale Fabi:

“Le famiglie non mettono i loro risparmi nei Btp se non percepiscono stabilità e una prospettiva credibile”.

E sottolinea il ruolo del settore bancario come pilastro della stabilità finanziaria italiana, grazie a una presenza strutturale nel debito pubblico.

Mentre la crescita economica resta incerta, è proprio la risposta dei risparmiatori — i nuovi “Bot People” — a mostrare il volto più stabile e fiducioso dell’Italia.

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Economia

Scioperi nei trasporti, i sindacati contro l’emendamento FdI: “Misura pericolosa e incostituzionale”

Filt Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti contestano l’emendamento FdI che impone preavviso scritto di 7 giorni per aderire a uno sciopero: “Snatura un diritto costituzionale”.

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Filt Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti contestano con fermezza l’emendamento alla Manovra proposto da Fratelli d’Italia che introdurrebbe l’obbligo per i lavoratori dei trasporti di dichiarare per iscritto, con sette giorni di anticipo e in modo irrevocabile, la propria adesione a uno sciopero.

“Limita un diritto costituzionale”

Secondo le tre sigle, la misura “snatura il diritto stesso di sciopero garantito dalla Costituzione”, aprendo la strada alla creazione di liste di scioperanti e a possibili pressioni o discriminazioni nei confronti dei lavoratori.

I sindacati ricordano che la normativa vigente, dalla legge 146/90 alle regole di settore, garantisce già pienamente i servizi minimi e il diritto alla mobilità dei cittadini. Per questo definiscono il nuovo obbligo “inutile e pericoloso”.

Pronti alla mobilitazione

Filt Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti chiedono il ritiro immediato dell’emendamento e annunciano che, se necessario, verranno messe in campo tutte le iniziative a tutela dei lavoratori dei trasporti e del loro diritto di sciopero.

Le vere criticità del settore

Le sigle individuano altrove le cause del disagio nel trasporto pubblico: infrastrutture insufficienti, carenza di personale, mancato rispetto dei contratti collettivi, ritardi nei pagamenti e inefficienze aziendali considerate “croniche”.

A tutto questo si aggiunge l’escalation di aggressioni a operatori e utenti, spesso alla base della proclamazione di scioperi.

“La strada non è comprimere i diritti”

Per i sindacati, comprimere ulteriormente un diritto costituzionale già fortemente limitato non migliorerà la mobilità italiana. Servono investimenti, organizzazione e un confronto reale sulle condizioni di lavoro, non una stretta sulle libertà fondamentali dei lavoratori.

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