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Trump in Georgia, sfida per il Senato e il futuro

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Donald Trump vola in Georgia insieme alla first lady Melania e, continuando ad ignorare la pandemia, tiene il suo primo rally elettorale dopo le elezioni, a sostegno dei due senatori repubblicani uscenti impegnati nel ballottaggio del 5 gennaio. Duelli che decideranno non solo le sorti della Camera Alta del Congresso ma anche dei primi due anni dell’amministrazione Biden e forse il futuro dello stesso Trump. Se vinceranno i dem, il partito potra’ contare sul controllo completo di Capitol Hill e l’agenda di Joe Biden potra’ marciare senza intoppi. Anche sulla regolarizzazione dei dreamer, dove il presidente uscente ha ricevuto un altro schiaffo da un giudice che ha ripristinano pienamente il programma di protezione, obbligando l’amministrazione ad accettare centinaia di migliaia di nuove domande. Nella sfida del sud scendono in campo tutti i pezzi da novanta, mentre si mobilitano anche grandi donatori repubblicani come Rupert Murdoch e Stephen Schwarzman. Venerdi’ si e’ mosso Barack Obama, che ha tenuto un primo comizio virtuale alla presenza di Stacey Abrams, l’emergente star democratica afroamericana artefice della rinascita del partito in Georgia. Nelle stesse ore il vicepresidente Mike Pence compariva a Savanna a fianco dei due candidati repubblicani. Resta da vedere se si mobilitera’ personalmente anche Biden, che ha riconquistato questo Stato 28 anni dopo Bill Clinton, strappandolo a Trump per soli 12 mila voti, come ha confermato pure il secondo riconteggio. Ma il presidente uscente continua a contestare l’esito del voto anche qui e prima di partire per Valdosta, al confine con la Florida, ha lanciato un nuovo attacco ai vertici repubblicani dello Stato. “Vincero’ facilmente e velocemente se il governatore della Georgia Brian Kemp o il segretario dello Stato permetteranno una semplice verifica delle firme”, ha twittato, sostenendo che il controllo “dimostrera’ discrepanze su larga scala”. “Perche’ questi due ‘repubblicani’ dicono no? Se vinciamo la Georgia, tutto il resto va a posto!”, ha aggiunto Trump, che in precedenza aveva chiamato Kemp “sfigato”, “imbecille” e “squilibrato”. Molti repubblicani pero’ ritengono che questi attacchi alimentino i rischi di spaccature nel partito, indebolendolo in vista dei ballottaggi. Inoltre temono che le accuse di brogli da parte del presidente possano minare l’afflusso dei loro sostenitori convincendoli che le elezioni sono comunque truccate. Ma nessuno ha il coraggio di uscire allo scoperto perche’ Trump tiene ancora in pugno il partito, come conferma un’indagine del Washington Post: 222 parlamentari repubblicani si rifiutano di dire chi ha vinto le elezioni e solo 25 riconoscono il successo di Biden. “25, wow! Sono sorpreso che siano cosi’ tanti… per favore mandatemi la lista dei 25 Rinos”, ha commentato il presidente con tono intimidatorio usando l’abbreviazione spregiativa per i ‘repubblicani solo di nome’. Inizialmente The Donald era riluttante a scendere in campo in Georgia ma il suo entourage lo ha convinto spiegandogli che la sua presenza e’ vitale per aumentare la partecipazione dei fan e che una vittoria dei repubblicani rafforzerebbe le sue accuse di elezioni fraudolente. Ma e’ un’arma a doppio taglio: in caso di sconfitta potrebbe valere il discorso inverso e molti repubblicani potrebbero cominciare a rompere le righe. Intanto i dem sembrano avviati a rafforzare la diversita’ non solo nella nuova amministrazione Biden ma anche al vertice del partito. In pole per la presidenza c’e’ il 44enne afroamericano Jaime Harrison, sponsorizzato dal deputato ‘black’ Jim Clyburn, capogruppo alla Camera e uno dei piu’ influenti alleati di Joe.

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‘Chora è una moschea’, scintille Erdogan-Mitsotakis

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La moschea di Kariye a Istanbul, un tempo chiesa ortodossa di San Salvatore in Chora e tesoro del patrimonio bizantino, diventa tempio della discordia tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il premier greco Kyriakos Mitsotakis, nel giorno della visita del leader ellenico ad Ankara proprio per confermare la stagione di buon vicinato tra i due Paesi dopo decenni di tensioni. Le divergenze sulla moschea si sono riaccese nei giorni scorsi, dopo che il 6 maggio scorso San Salvatore in Chora, chiesa risalente al V secolo e tra i più importanti esempi dell’architettura bizantina di Istanbul, è stata riaperta dopo lavori di restauro durati quattro anni.

Convertita in moschea mezzo secolo dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani del 1453, Chora è stata trasformata in un museo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Turchia cercò di creare una repubblica laica dalle ceneri dell’Impero Ottomano. Ma nel 2020 è nuovamente diventata una moschea su impulso di Erdogan, poco dopo la decisione del presidente di riconvertire in moschea anche Santa Sofia, che come Chora era stata trasformata in un museo. La riapertura aveva suscitato malcontento ad Atene, con Mitsotakis che aveva definito la conversione della chiesa come “un messaggio negativo” e promesso alla vigilia del suo viaggio ad Ankara di chiedere a Erdogan di tornare sui suoi passi in merito. Una richiesta respinta al mittente: “La moschea Kariye nella sua nuova identità resta aperta a tutti”, ha confermato Erdogan in conferenza stampa accanto a Mitsotakis.

“Come ho detto al premier greco, abbiamo aperto al culto e alle visite la nostra moschea dopo un attento lavoro di restauro in conformità con la decisione che abbiamo preso nel 2020”, ha sottolineato. “Ho discusso con Erdogan della conversione della chiesa di San Salvatore in Chora e gli ho espresso la mia insoddisfazione”, ha indicato in risposta il leader greco, aggiungendo che questo “tesoro culturale” deve “rimanere accessibile a tutti i visitatori”. Nulla di fatto dunque sul tentativo di Atene di riscrivere il destino del luogo di culto. Ma nonostante le divergenze in merito, la visita di Mitsotakis ad Ankara segna un nuovo passo nel cammino di normalizzazione intrapreso dai due Paesi, contrapposti sulla questione cipriota e rivali nel Mediterraneo orientale. A dicembre i due leader hanno firmato una dichiarazione di “buon vicinato” per sancire una fase di calma nei rapporti iniziata dopo il terremoto che ha ucciso più di 50.000 persone nel sud-est della Turchia, all’inizio del 2023. “Oggi abbiamo dimostrato che accanto ai nostri disaccordi possiamo scrivere una pagina parallela su ciò che ci trova d’accordo”, ha sottolineato Mitsotakis accanto a Erdogan, confermando la volontà di “intensificare i contatti bilaterali”. Perché “l’oggi non deve rimanere prigioniero del passato”.

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Kiev, più di 30 località sotto il fuoco russo nel Kharkiv

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Sono ancora in corso i combattimenti nella regione di Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, dove più di 30 località sono sotto il fuoco russo e quasi 6.000 residenti sono stati evacuati, secondo il governatore regionale. “Più di 30 località nella regione di Kharkiv sono state colpite dall’artiglieria nemica e dai colpi di mortaio”, ha scritto Oleg Synegoubov sui social network.

Il governatore ha aggiunto che dall’inizio dei combattimenti sono stati evacuati da queste zone un totale di 5.762 residenti. Le forze russe hanno attraversato il confine da venerdì per condurre un’offensiva in direzione di Lyptsi e Vovchansk, due città situate rispettivamente a circa venti e cinquanta chilometri a nord-est di Kharkiv, la seconda città del Paese.

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Insulti sui social tra Netanyahu e il leader colombiano Petro

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Scambio di insulti, sui social, tra il presidente colombiano, Gustavo Petro, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo ha detto che il suo Paese non avrebbe preso “lezioni da un antisemita che sostiene Hamas”, dopo che Petro, pochi giorni fa, aveva chiesto alla Corte penale internazionale dell’Aja di emettere un ordine d’arresto nei confronti di Netanyahu. “Signor Netanyahu, passerai alla storia come un genocida”, ha risposto a sua volta il leader progressista colombiano, smentendo di appoggiare Hamas in quanto “sostenitore della democrazia repubblicana, plebea e laica”. “Sganciare bombe su migliaia di bambini, donne e anziani innocenti non fa di te un eroe. Ti poni al fianco di coloro che hanno ucciso milioni di ebrei in Europa. Un genocida è un genocida, non importa se ha una religione o no. Cerca almeno di fermare il massacro”, ha postato Petro.

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