Se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna. Il vecchio adagio cambia perché questa volta Maometto, ovvero l’Arabia Saudita, ha deciso di comprarsi direttamente la montagna portando calciatori ed allenatori in patria a suon di petrodollari, diventando sempre più attraente per gli sponsor. Nella stagione al via tra meno di un mese, il 10 agosto, nella Saudi Pro League giocheranno alcuni tra i più forti e famosi calciatori al mondo: tra i tanti che hanno seguito Cristiano Ronaldo ci sono l’ultimo Pallone d’oro Karim Benzema, Kalodou Koulibaly, Ngolo Kanté, Marcelo Brozovic e Sergej Milinkovic-Savic.
I nuovi arrivati troveranno un torneo diverso rispetto all’ultimo vinto dall’Al-Ittihad, con l’allargamento da 16 a 18 squadre di 13 città diverse e 17 stadi, che vanno dagli impianti da oltre 60mila posti di Riad e Gedda ai modesti catini dei centri più piccoli, da meno di 10mila spettatori, ma si prevedono massicci investimenti massicci per accogliere gli appassionati in strutture più moderne. I palcoscenici più moderni sono il ‘King Fahd’ della capitale e il ‘King Abdullah’ di Gedda, che per quanto avveniristici non possono vantare lussi come l’aria condizionata di alcuni stadi dei Mondiali in Qatar, soluzione peraltro molto contestata dagli ambientalisti.
Le partite si giocano di sera, quando peraltro tra agosto e settembre le temperature sono superiori ai 30 gradi, come peraltro spesso avviene anche in Europa, e per ridurre lo stress in trasferta si va in aereo, per evitare lunghi viaggi in bus nel deserto. Il problema trasferimenti si riduce per le quattro squadre di Riad (le corazzate Al Hilal e Al Nassr di CR7 e poi Al Riyadh e Al Shabab), mentre altre due (Al Ittihad ed Al Ahli, neo promosso) sono di Gedda, sul Mar Rosso, distante poco meno di mille chilometri dalla capitale. Il pronostico vede tre squadre favorite, Al Ittihad, Al Nassr e Al Hilal (finite nell’ordine nell’ultima stagione), che insieme all’Al Ahli sono state tutte privatizzate e prese in carico dal Fondo sovrano Pif, che ha immesso milioni nel sistema per rafforzarli facendo acquisti in tutto il mondo. Difficile quindi che altri club possano insidiarli. L’obiettivo dei sauditi è far crescere l’appeal del proprio campionato e provare ad ospitare i Mondiali di calcio entro i prossimi 15 anni. L’esperienza del Qatar, da questo punto di vista, insegna.
E sbagliano i puristi a snobbare tali operazioni: le risorse sono le stesse che da anni hanno rilanciato la Premier League. Anche il Newcastle, che ha preso Sandro Tonali per 80 milioni di euro, è di proprietà del Pif. Ma l’obiettivo non è solo sportivo, perchè il governo di Riad ha anche il fine non dichiarato di ripulire la propria immagine, spesso macchiata dalle polemiche per la limitazione dei diritti delle minoranze e delle donne. E qualcosa, dal punto di vista mediatico, si muove: le principali catene tv si stanno interessando ai diritti per la diffusione in Europa delle partite della Saudi League, tanti colossi mondiali si propongono come sponsor e una nota catana di abbigliamento sta lavorando per legare il proprio logo al campionato.
Molti osservatori paragonano il fenomeno saudita a quello cinese, che nonostante i milioni profusi è al momento risultato un fallimento. L’esperienza saudita appare però più rivolta ad interessi di natura geopolitica: l’investimento non è sul campionato – sebbene ci sia un limite massimo di otto stranieri per squadra – ma sull’immagine dello stesso e quindi della nazione. Non a caso la Saudi League ha dato mandato ad una società specializzata nel marketing sportivo di rilanciare il proprio brand. E non a caso è stato ampliato il numero delle squadre, in modo da avere più partite da trasmettere.
Hamas mette sul piatto dei negoziati una nuova proposta: la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle sue mani in cambio del ritiro dell’Idf e di un cessate il fuoco della durata di 5 anni. Ma le notizie che arrivano dal Cairo, dove è arrivata una delegazione del movimento integralista palestinese per discutere con i mediatori egiziani, non fermano raid e combattimenti, con un bilancio che nelle ultime 24 ore è costato la vita a quasi 50 palestinesi e alcuni soldati israeliani. Un funzionario di Hamas, che ha chiesto l’anonimato, ha detto all’Afp che il gruppo “è pronto a uno scambio di prigionieri in un’unica soluzione e a una tregua di cinque anni”.
La proposta arriva dopo il no all’offerta di Tel Aviv, 45 giorni di tregua e 10 ostaggi liberati, motivata dal fatto che Hamas punta alla fine della guerra, e al ritiro di Israele dalla Striscia, e non vuole “accordi parziali” con il governo di Benyamin Netanyahu. Altri responsabili di Hamas, sempre in forma anonima, hanno sottolineato a diversi media arabi anche la disponibilità a “lasciare il governo della Striscia all’Autorità nazionale palestinese, oppure a un comitato di tecnocrati indipendenti scelti dall’Egitto”.
E, pur rifiutando di abbandonare le armi, a “far uscire da Gaza combattenti in cambio della loro incolumità”. Tesi e proposte a cui si è aggiunta la pubblicazione di un video che mostrerebbe i miliziani delle brigate Qassam che scavano sotto le macerie di un tunnel bombardato dall’Idf, per trarre in salvo con successo un ostaggio israeliano. Da Tel Aviv per il momento non arrivano commenti, ma a quanto si apprende il capo del Mossad David Barnea sarebbe arrivato già giovedì in Qatar per incontrare il premier Mohammed bin Abdulrahman al-Thani e discutere nuovamente di una base di accordo per il rilascio degli ostaggi. Fonti militari citate dai media hanno però ammonito che l’esercito si prepara a “incrementare la pressione e stringere il cappio su Hamas”.
A Gaza intanto il bilancio dell’ultima giornata di raid è di almeno 49 morti, afferma il ministero della Salute mentre i soccorritori “scavano ancora sotto le macerie”.
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha detto che nei combattimenti di terra “il prezzo è alto”, dopo l’uccisione nelle ultime ore di un riservista e il ferimento di altri quattro soldati in un attacco con esplosivi e armi automatiche. Nel nord di Israele sono invece risuonate le sirene per il lancio di un “missile ipersonico” rivendicato dagli Houthi che aveva come obiettivo Haifa. E’ la prima volta che i ribelli yemeniti tentano di colpire così lontano, il missile è stato intercettato e distrutto.
“Oggi a Roma ho incontrato la Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni. Abbiamo discusso dell’importanza delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina e degli sforzi per ripristinare la pace e proteggere le vite umane”. Lo ha scritto su X Volodymyr Zelensky. “46 giorni fa l’Ucraina – scrive – ha accettato un cessate il fuoco completo e incondizionato e per 46 giorni la Russia ha continuato a uccidere il nostro popolo. Pertanto, è stata prestata particolare attenzione all’importanza di esercitare pressioni sulla Russia”. Ed ha aggiunto: “Apprezzo la posizione chiara e di principio di Giorgia Meloni”.
Il leader ucraino ha aggiunto di aver “informato” la premier italiana “degli incontri costruttivi tenuti dalla delegazione ucraina con i rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania a Parigi e Londra. C’è una posizione comune: un cessate il fuoco incondizionato deve essere il primo passo verso il raggiungimento di una pace sostenibile in Ucraina”.
Una stretta di mano sul sagrato della Basilica di San Pietro, poche parole scambiate tra il via vai di leader e porporati, e una promessa: Donald Trump e Ursula von der Leyen si vedranno presto. Messa per mesi all’angolo dalla nuova amministrazione statunitense, la presidente della Commissione europea è riuscita a strappare un breve scambio – auspicato anche dalla premier Giorgia Meloni a Washington – per aprire la strada al primo incontro ufficiale tra i vertici Ue e il tycoon dal suo ritorno alla Casa Bianca.
Forse già nelle prossime settimane, a Bruxelles. Sul tavolo, le partite più urgenti per l’Europa: i dazi e la pace in Ucraina. L’agenda e le modalità del vertice tra i leader Ue-Usa restano da definire, ma le finestre possibili entro il 14 luglio – data ultima per chiudere la partita sui dazi – sono diverse: se il negoziato su Kiev dovesse accelerare, già i giorni successivi al 16 maggio – quando il presidente americano concluderà la visita in Arabia Saudita e potrebbe fissare anche un faccia a faccia con Vladimir Putin – potrebbero rappresentare il momento propizio per un primo confronto con von der Leyen e un nuovo colloquio con Volodymyr Zelensky.
Giugno, poi, offrirà due nuove occasioni: il summit del G7 in Canada e il vertice Nato a L’Aja. Von der Leyen ha rotto il silenzio subito dopo la fine dei funerali del Papa pubblicando su X la foto della tanto attesa stretta di mano con Trump e un altro scatto che la ritraeva con Emmanuel Macron. Tutti etichettati come “scambi positivi”. Ma il messaggio più forte in direzione Casa Bianca era già arrivato pochi minuti prima, sull’onda dell’omaggio a Papa Francesco: il Pontefice “ha costruito ponti, ora percorriamoli”, ha scritto la presidente Ue, consapevole che la distanza da colmare con l’altra sponda dell’Atlantico è ancora ampia. A riprova, da Washington, Valdis Dombrovskis ha descritto un lavoro sui dazi ancora tutto in salita. Le trattative “proseguono, ma c’è molto da fare”, ha ammesso a più riprese il responsabile Ue per l’Economia che, davanti ai 90 giorni per evitare la guerra commerciale, ha posto l’accento sul tempo che “corre” e sulla necessità di fare presto. L’ultimo incontro con il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, non ha fatto registrare progressi e per ora, ha sottolineato Dombrovskis, “la situazione è asimmetrica”: i dazi Usa si sono già abbattuti su alluminio, acciaio e auto europee mentre il continente tiene ancora il suo colpo in canna.
Le carte di Bruxelles sono note: dazi zero sui beni industriali, più acquisti di gnl e armi dagli Stati Uniti e un fronte comune contro le pratiche di mercato sleali della Cina. Ma nelle ultime ore è trapelata un’altra richiesta da Washington che potrebbe complicare le discussione: rallentare la corsa Ue alla regolamentazione dell’intelligenza artificiale. I canali diplomatici e tecnici sono aperti ma i colloqui politici, è la linea prudente di Palazzo Berlaymont, riprenderanno “solo quando opportuno”: quando un’intesa di principio ci sarà, o quando i leader saranno pronti a confrontarsi su obiettivi comuni. I colloqui Ue-Usa però si spingono ben oltre i numeri del commercio. Al centro c’è anche il piano di pace disegnato da Washington e Mosca per Kiev, con Bruxelles che ha già respinto la proposta di cessione della Crimea alla Russia e di revocare le sanzioni contro il Cremlino, schierandosi invece a difesa dell’integrità territoriale ucraina. Kiev può contare sul sostegno Ue “al tavolo delle trattative per raggiungere una pace giusta e duratura”, ha assicurato von der Leyen. Prima di consegnare ancora una volta a Zelensky un messaggio sul futuro ucraino “nella famiglia” europea.