Giuseppe Saronni (foto Imagoeconomica in evidenza), uno dei più grandi campioni della storia del ciclismo italiano, si racconta in una lunga e toccante intervista al Corriere della Sera. Un viaggio nei ricordi personali e sportivi, che parte da un’immagine d’altri tempi e attraversa un’epoca gloriosa dello sport su due ruote, tra trionfi, aneddoti familiari e rivalità leggendarie.
Una vecchia foto e un’eredità ciclistica
«Guardi questa foto, ha cent’anni: è rovinata, ma i volti si leggono bene», esordisce Saronni. «Il ragazzo alto e serio a destra, con lo scudetto sul petto, è Libero Ferrario, il primo italiano a vincere un Mondiale di ciclismo nel 1923. Forte come un toro, duellava con Binda e Girardengo. Morì di tisi, giovanissimo. A sinistra, con il copertone annodato al petto, c’è Tito Brambilla».
Chi era Tito Brambilla? «Mio nonno. Nato a Parabiago nel 1897, tornò zoppo dalla Grande Guerra con una scheggia nel ginocchio, ma pedalava forte. Analfabeta, amico fraterno di Ferrario, era un ciclista indipendente. Lo seguiva alle corse e gli faceva da gregario. Il pagamento? In natura: bistecche, vestiti, pranzi in trattoria».
I racconti attorno al focolare
«I racconti di nonno Tito e Libero sono stati la nostra linfa da bambini», continua Saronni. «Io, Alberto e Antonio, i miei fratelli, anche loro ciclisti, li ascoltavamo incantati. Allenamenti interminabili fino al Lago Maggiore, notti passate nei campi, banane mai viste prima mangiate intere, bucce comprese. “Mangiabili ma meglio la polpa”, diceva nonno».
Dai panini al Giro d’Italia
Il talento si manifesta presto: «A 13 anni consegnavo il pane in bici, poi a 17 lavoravo alla Olivetti e mi allenavo all’alba. Mamma metteva i biscotti nella borraccia con il latte caldo. Ero già nel giro della Nazionale su pista. A 16 vincevo così spesso che, quando mi vedevano, molti ragazzi abbandonavano la gara. Vincevo a braccia alzate, ma da regolamento era vietato: due domeniche di squalifica e trattative con i giudici».
L’esordio olimpico e la scoperta del mondo
Nel 1976 arriva la convocazione per le Olimpiadi di Montreal, ma non fu un’esperienza memorabile: «Una gita più che una gara. Noi ciclisti non avevamo il culto olimpico. Il mio sogno era solo uno: correre il Giro d’Italia».
Nel 1978, a soli vent’anni, con una deroga speciale, debutta al Giro d’Italia: tre tappe vinte, quinto in classifica generale. L’anno dopo, a 21 anni, conquista la maglia rosa a San Marino e non la lascia più fino al traguardo. Solo Fausto Coppivinse un Giro da più giovane.
La rivalità con Moser, guerra senza esclusione di colpi
«Con Francesco Moser fu una rivalità feroce. Lui più vecchio, già fuoriclasse; io, il ragazzino venuto dal nulla a rubargli fama. Lui contadino idolatrato, io di città, con pochi ma fedeli tifosi. Lui impulsivo, io riflessivo ma non meno cattivo. In Nazionale? Prima o poi racconterò tutto. Ma non ora. Ci siamo presi una tregua».
E il rapporto oggi? «Con Francesco non si parla. Parla solo lui, esiste solo lui. Al massimo puoi ascoltarlo».
Il tentativo di avvelenamento al Giro
Durante il Giro del 1983, la rivelazione shock: «Tre uomini ci seguivano da giorni. Alla fine un maresciallo dei Carabinieri ci disse che volevano avvelenarmi. Un piccolo industriale, sponsor di Visentini, cercò di corrompere i camerieri per mettere Guttalax nel mio piatto. I camerieri lo denunciarono. Arrestato, confessò tutto. Ma il mio sponsor, Del Tongo, non sporse denuncia».
Il ciclista sottovalutato dai media
Saronni si sfoga su come veniva raccontato: «Al Giro del 1982 battei Hinault nella storica Cuneo-Pinerolo. La Gazzetta aveva pronto il titolo “Hinault come Coppi”. Ma vinco io e titolano: “A Pinerolo vince un velocista”. Mi arrabbiai. Non ero solo uno sprinter: andavo forte anche in salita».
L’addio alle corse e l’aneddoto sul “passaggio di consegne”
Si ritira nel 1990 con 193 vittorie, due Giri, un Mondiale, una Milano-Sanremo e un Lombardia. «Dopo il 1983 non trovai più continuità. Ero usurato, ma anche appagato. I miei polmoni non funzionavano più bene».
E infine, una confessione su Moser: «Alla penultima tappa del Giro ‘83, lui si avvicina, mi dà una pacca sulla spalla e dice: “Vai a prenderti la maglia, te la meriti. Io ho chiuso, mi ritiro”. Mi commossi. Ma alla fine della stagione annunciò il Record dell’Ora e l’anno dopo vinse il suo primo Giro. Mi rifilò 22 minuti. Ripensandoci, quella frase… non era da Moser. Ci sono cascato con tutte le scarpe».