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Raid russi senza tregua, un terzo dell’Ucraina al buio

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Un terzo delle centrali elettriche fuori uso per i raid russi, con più di 1.100 località in tutta l’Ucraina ancora senza corrente. La capitale Kiev, per ore al buio, sotto una pioggia di droni kamikaze. E l’esercito di Mosca che, dopo più un mese sulla difensiva, minaccia di tornare all’attacco a partire dalla regione di Kharkiv, simbolo della disfatta di fine estate. A dieci giorni dalla nomina a comandante unico dell’offensiva da parte del Cremlino, la strategia della terra bruciata imposta dal ‘generale Armageddon’ Serghei Surovikin colpisce sempre più duro i civili ucraini: un’impronta spietata ormai evidente, con l’obiettivo di fiaccare la resistenza della popolazione, mentre le truppe russe si riorganizzano. “Un altro tipo di attacchi terroristici russi: prendere di mira le infrastrutture energetiche e critiche. Dal 10 ottobre, il 30% delle centrali elettriche ucraine è stato distrutto, causando massicci blackout in tutto il Paese” – da Kiev a Kryvyj Rih, da Kharkiv a Dnipro, circa quattromila insediamenti colpiti da blackout in 10 giorni – è il bilancio diffuso dal presidente Volodymyr Zelensky, secondo cui “non c’è più spazio per i negoziati con il regime di Putin”. Il margine per una trattativa tra i leader russo e ucraino, sempre ridottissimo, al momento è azzerato anche secondo il mediatore di punta della crisi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, reduce dall’incontro della scorsa settimana ad Astana con lo zar, che ha definito un dialogo diretto “ora impossibile”. Intanto, il nuovo corso del conflitto ha definitivamente fatto ripiombare nel terrore anche la regione di Kiev, teatro della maggior parte dei 190 raid che in una settimana hanno provocato oltre 70 vittime e 240 feriti. Gli ultimi due morti nella capitale solo poche ore fa, quando è stato attaccato l’ennesimo impianto energetico della capitale ucraina, rimasta per ore al buio in diversi quartieri. Le infrastrutture critiche restano l’obiettivo principale del martellamento di Mosca con missili, droni e artiglieria, facendo risuonare continui allarmi aerei in tutto il Paese. Raid che sono stati duramente condannati dalla comunità internazionale, con i leader di Francia e Gran Bretagna, Emmanuel Macron e Liz Truss, che denunciano “attacchi barbari contro aree civili dell’Ucraina”.

 

Sotto nuova pressione, l’Ucraina torna a invocare la consegna di armi a lungo raggio dall’Occidente e incassa dalla Nato la promessa di una consegna a giorni di sistemi di difesa contro i temibili droni iraniani Shahed. Kiev intensifica il pressing anche su Israele, cui ha inviato una richiesta ufficiale per la fornitura di un sistema di difesa aereo. “Se la politica di Israele consiste davvero nel contrastare costantemente le azioni distruttive dell’Iran, allora è tempo che si schieri apertamente con l’Ucraina”, ha detto il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, che al contempo ha proposto a Zelensky di interrompere le relazioni diplomatiche con Teheran, che vende armi a Mosca, missili compresi, ma ha sempre negato che vengano usate per l’offensiva. Sul terreno, intanto, le forze di Putin si preparano a rilanciare le operazioni militari nell’oblast di Kharkiv. La Difesa di Mosca ha rivendicato di aver ripreso il controllo del villaggio di Gorobyevka, che sarebbe il primo a tornare in mani russe dopo la clamorosa ritirata di settembre. Nella regione, ha denunciato Kiev, continuano i bombardamenti di infrastrutture energetiche, mentre missili lanciati dalla zona frontaliera di Belgorod hanno colpito un magazzino per gli aiuti umanitari. Nessun movimento offensivo risulta invece al momento dalla Bielorussia, dove sono state dispiegate truppe congiunte di Mosca e Minsk. Queste forze, ha assicurato il ministro della Difesa bielorusso Viktor Khrenin, “non attaccheranno nessuno” perché la loro missione “è strettamente difensiva”.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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