Il conflitto ucraino può trovare una soluzione diplomatica, ma la Russia si deve ritirare, dicono Kiev e gli occidentali. Siamo aperti a colloqui, ma non lasceremo i territori in Ucraina, risponde il Cremlino. I negoziati per mettere fine al conflitto assomigliano sempre più all’Araba Fenice: tutti si dichiarano favorevoli, ma come arrivarci non si sa. Lo schema si ripropone con Joe Biden che dice di essere “pronto a parlare con Putin se mostra segnali di volere cessare la guerra”. Poi la marcia indietro: “Il presidente non ha intenzione di parlare con Vladimir Putin ora” perché spetta all’Ucraina decidere se e quando può essere negoziato un accordo, fa sapere la Casa Bianca. “Il presidente russo era e rimane aperto a colloqui”, ma non accetterà le condizioni di Washington, ha risposto il suo portavoce Dmitry Peskov.
Mosca vuole infatti che gli Usa riconoscano “i nuovi territori russi”, cioè le regioni ucraine annesse alla Federazione. Difficile, se non impossibile, capire quanto le dichiarazioni di tutte le parti siano i segnali di una diplomazia davvero in movimento o piuttosto manifestazioni di buone intenzioni destinate alle rispettive opinioni pubbliche. “Come concludere la guerra è una domanda difficile”, ammette intervenendo ai Med Dialogues a Roma il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, rappresentante dell’unico Paese che è riuscito finora a fare incontrare i negoziatori russi e ucraini. Il quadro si dovrebbe chiarire “prima della primavera”, aggiunge, sottolineando che c’è “bisogno anche di convincere alcuni alleati occidentali a fare qualcosa per tornare al tavolo dei negoziati”. Se Mosca vuole veramente un dialogo “deve fare una marcia indietro e smettere di lanciare missili sulla popolazione”, afferma il ministro degli Esteri Antonio Tajani dopo un incontro con lo stesso Cavusoglu.
E il cancelliere tedesco Olaf Scholz, in una telefonata di un’ora con Putin, ha cercato di convincerlo della necessità di un “ritiro delle truppe russe”. Proprio la formula alla quale il Cremlino si è mostrato finora allergico. Putin non ha esitato a ribadirlo. La linea seguita dai Paesi occidentali, compresa la Germania, è “distruttiva”, ha detto il leader russo, perché continuano ad armare Kiev spingendola così a rifiutare i negoziati. Quanto agli attacchi missilistici sull’Ucraina, essi sono “una risposta forzata e inevitabile agli attacchi provocatori di Kiev contro le infrastrutture civili russe, tra cui il ponte di Crimea e impianti energetici”.
Nel frattempo sul fronte europeo il primo ministro ungherese Viktor Orban ha confermato la sua opposizione al pacchetto della Ue per l’assistenza macro-finanziaria all’Ucraina da 18 miliardi di euro per il 2023. Mentre la riunione dell’Osce a Lodz, in Polonia, si è chiusa senza una dichiarazione finale per l’opposizione di Mosca, che secondo alcune fonti avrebbe così risposto alla decisione di Varsavia di rifiutare il visto d’ingresso al ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov. Sul terreno continuano i bombardamenti da entrambe le parti. Tre persone sono state uccise e altre sette ferite dai russi nella regione meridionale di Kherson nelle ultime 24 ore, secondo fonti locali ucraine. Sull’altro fronte le autorità filorusse del Donetsk lamentano due civili uccisi e sette feriti in bombardamenti delle forze di Kiev.
Una buona notizia l’ha data il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, secondo il quale sono a buon punto le trattative per mettere in sicurezza ed evitare che sia colpita da nuovi attacchi la centrale nucleare di Zaporizhzhia. La Russia intanto non rinuncia a mostrare i muscoli. Un nuovo missile per la difesa contro i missili balistici è stato testato nel poligono kazako di Sary-Shagan, ha fatto sapere il ministero della Difesa. E Putin ha tenuto ad affermare che molti sistemi militari russi, compresi quelli nucleari, “non hanno pari” al mondo.
Le forze della sicurezza pachistane hanno ucciso 15 combattenti appartenenti al Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp) in tre distinte operazioni nella provincia nord-occidentale del Khyber Pakhtunkhwa (Kp). Lo rendono noto i militari, precisando che le operazioni sono state condotte nel distretto di Karak, nel Waziristan settentrionale ed in quello meridionale. Armi e munizioni sono state recuperate dai combattenti uccisi, che, secondo le stesse fonti, erano coinvolti in numerose attività terroristiche.
Il ministero dell’Interno iraniano ha confermato che il bilancio dell’esplosione avvenuta al porto di Bandar Abbas, città strategica sullo Stretto di Hormuz, è salito a otto morti e 740 feriti. Un evento gravissimo che scuote una delle aree più delicate per gli equilibri geopolitici globali.
Le cause restano misteriose
Le autorità iraniane parlano ufficialmente di un generico incidente, senza però fornire dettagli precisi. Questa vaghezza ha acceso numerosi interrogativi a livello internazionale: fonti estere suggeriscono che potrebbe trattarsi non di un incidente, ma di un attacco deliberato attribuibile a un Paese nemico, con il sospetto principale che ricade su Israele.
L’ipotesi dell’attacco mirato: la pista del combustibile per missili
Secondo analisi parallele, le esplosioni di Bandar Rajaei — uno dei principali terminali del porto di Bandar Abbas — non sarebbero casuali. La natura delle detonazioni, l’intensità dell’onda d’urto e l’estensione dei danni lascerebbero supporre la presenza di materiale altamente infiammabile e volatile, come il combustibile solido per razzi.
Fonti non ufficiali rivelano che Bandar Rajaei fosse recentemente diventato il deposito strategico del combustibile solido per missili balistici della Repubblica Islamica, importato dalla Cina tramite navi cargo. Non un semplice magazzino, dunque, ma un elemento chiave nelle strategie militari regionali di Teheran.
Israele nel mirino dei sospetti
Non sarebbe la prima volta che Israele compie operazioni mirate per neutralizzare le capacità missilistiche iraniane: già in passato, con massicce incursioni aeree, ha distrutto impianti critici, ritardando di anni la produzione bellica del regime. Secondo questa ricostruzione, l’Iran, nel tentativo disperato di ricostituire le sue scorte, avrebbe nascosto i materiali in infrastrutture civili, trasformando i cittadini in scudi umani.
L’attacco — se confermato — avrebbe incenerito gran parte del deposito e colpito anche la catena logistica dei rifornimenti missilistici destinati agli Houthi nello Yemen, infliggendo un danno catastrofico alla rete militare iraniana nella regione.
Un’accusa morale pesante contro il regime iraniano
L’episodio di Bandar Rajaei non sarebbe soltanto un durissimo colpo militare, ma rappresenterebbe anche un’accusa morale contro un regime accusato di sacrificare la propria popolazione pur di mantenere le proprie ambizioni imperiali. Come già avvenuto nell’esplosione del porto di Beirut nel 2020, il prezzo più alto lo pagano i civili.
La tragedia di Bandar Abbas, secondo questa lettura, segna un passo ulteriore verso la resa dei conti finale con un regime ormai gravemente indebolito, sia sul piano militare sia su quello della legittimità internazionale.
Le autorità portuali estoni hanno rilasciato oggi la petroliera Kiwala appartenente alla cosiddetta flotta ombra russa sequestrata due settimane fa nel golfo di Finlandia dopo aver constatato la presenza di oltre 40 infrazioni alla normativa sulla navigazione dell’Estonia. Lo comunica il ministero dei Trasporti estone. Secondo quanto comunicato dalle autorità estoni, la nave è stata dissequestrata in seguito alla risoluzione di tutte le infrazioni rilevate. La petroliera era già stata sottoposta a sanzioni da parte dell’Unione europea, del Canada, della Svizzera e del Regno unito.