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“Ora priorità a prime dosi”, Draghi spinge su vaccini

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“Dare la priorita’ alle prime dosi” per accelerare ed imprimere definitivamente una svolta al Piano vaccini. Il premier Mario Draghi indica la strada per un cambiamento di strategia per uscire presto dall’emergenza Covid in Italia: l’obiettivo e’ di inoculare il siero al numero piu’ alto di persone il prima possibile attraverso una prima dose, ritardando la somministrazione della seconda. La proposta, che seguirebbe le orme di quanto gia’ accade in Gran Bretagna, e’ arrivata durante il vertice europeo a cui il Presidente del Consiglio partecipa. E la sua osservazione, che arriva “alla luce della recente letteratura scientifica”, potrebbe presto essere tradotta positivamente dall’Agenzia italiana del farmaco. A fare da sponda al premier e’ stato lo stesso ministro della Salute, Roberto Speranza, che ha gia’ avanzato all’Aifa la richiesta sulla possibilita’ di una sola somministrazione a chi ha contratto il virus: “a seguito del parere che ci aspettiamo a breve – annuncia Speranza – verra’ diramata una circolare”. Il nuovo corso indicato velocizzerebbe la macchina delle inoculazioni in Italia, che intanto ha raggiunto il ritmo di centomila vaccinazioni al giorno: un trend in netto aumento fin da lunedi’ scorso, che registra un +20% rispetto alla scorsa settimana. Il “confortante incremento” e’ annunciato dallo stesso Commissario per l’Emergenza, Domenico Arcuri, dopo il raggiungimento della quota di 102.433 somministrazioni nelle ultime 24 ore. E la campagna – aggiunge il ministro Speranza alla luce dalla richiesta all’Aifa sulla priorita’ alla prime dosi – “puo’ ancora accelerare”. Non si tratta infatti delle cifre piu’ alte in assoluto finora: nel periodo che va dal 25 gennaio al 6 febbraio i numeri erano maggiori, seppure di poco. Il picco quotidiano raggiunto dall’inizio delle vaccinazioni risale al 4 e 5 febbraio scorsi (rispettivamente 105.524 e 104.508 somministrazioni). Dalla seconda settimana del mese, invece, i numeri erano calati per poi risalire. Ora c’e’ attesa per il turno dei 70enni, finora non ancora immunizzati, aspettando che il Piano possa procedere anche per le altre categorie, mentre a Napoli la Asl ha sospeso le nuove vaccinazioni per gli over 80 perche’ la disponibilita’ delle fiale Pfizer “e’ al limite” e ripartira’ solo il 3 marzo, con le nuove scorte. In attesa di nuove disposizioni e dell’arrivo di nuove dosi, anche in vista dell’approvazione di sieri di altre case farmaceutiche come la Johnson & Johnson, si traccia gia’ un primo bilancio delle fasce d’eta’ piu’ vaccinate. Pfizer e Moderna restano riservati al momento solo ad operatori sanitari, ospiti di Rsa e over 80 e gli ultraottantenni sono quelli che finora hanno ricevuto piu’ dosi (18% rispetto ad altre fasce di eta’). Con l’utilizzo di AstraZeneca per i prof, forze dell’ordine e altre categorie, anche gli adulti piu’ giovani entrano nelle statistiche a doppia cifra: il 22% dei vaccinati ha tra i 50 e i 59 anni (il 13% tra i 60 e 69 anni, il 18% tra i 40 e 49) mentre le persone tra i 70 e i 79 anni rappresentano soltanto il 3% della popolazione vaccinabile che ha ricevuto la dose. Finora sono stati distribuiti in Italia 5.198.860 dosi: 3.905.460 da Pfizer, 1.048.800 da AstraZeneca e 244.600 da Moderna. Ma restano significative differenze nella campagna vaccinale a seconda dei territori. Lombardia (con il primato del maggior numero di persone che hanno ricevuto anche la seconda dose: 237mila), Lazio, Emilia Romagna, Campania, Piemonte, Veneto e Toscana sono tra quelle che hanno somministrato di piu’. Il deputato di Forza Italia, Sestino Giacomoni, invece attacca Arcuri sui numeri: “Per vaccinare i restanti 58 milioni di italiani, alla media di 100 mila al giorno, impiegheremmo 580 giorni, ovvero quasi due anni – ha detto, chiedendo una rimodulazione del Piano. Secondo i contratti, nel secondo trimestre del 2021, e’ previsto l’arrivo di 54 milioni di dosi: 24,8 da Pfizer, 10 da AstraZeneca, 4,6 da Moderna, 7,3 da Johnson & Johnson e altrettanti da Curevac, se questi ultimi due saranno approvati da Ema e Aifa.

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Covid-19 e genetica: uno studio italiano spiega perché il virus ha colpito più il Nord che il Sud

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Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.

Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.

Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.

Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria

Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.

“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.

Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.

Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica

Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.

Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.

Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”

Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania

La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.

I risultati hanno evidenziato che:

  • Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
  • Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
  • L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.

Uno studio rivoluzionario con implicazioni future

Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.

Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.

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Covid-19, cinque anni dopo: cosa è cambiato e quali lezioni abbiamo imparato

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Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.

L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.

Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.

Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.

Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie

Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.

Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.

La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza

Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.

A cinque anni di distanza: quali lezioni?

La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.

Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.

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Covid: tra Natale e Capodanno scendono casi, stabili le morti (31)

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In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.

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