Aldo Patriciello è uno di quei politici che alle parole preferiscono i fatti. Parla poco, e quando lo fa è perché ha qualcosa da dire. E le cose che ha da dire, non le manda a dire. Parlamentare europeo al suo quarto mandato, recordman di preferenze nella circoscrizione sud Italia, esponente di primo piano del Partito Popolare Europeo a Bruxelles e forzista della prima ora, Patriciello è politico per passione e imprenditore per vocazione. È a capo di uno dei più grossi gruppi sanitari d’Italia, il gruppo Neuromed che vanta cliniche sparse in quasi tutte le regioni del centro e sud Italia.
Aldo Patriciello. Esponente di primo piano del Partito Popolare Europeo a Bruxelles e amico personale di Berlusconi critica aspramente la gestione antidemocratica di Fi in Campania da parte del senatore De Siano
Onorevole Patriciello, indiscrezioni che abbiamo raccolto raccontano che le recenti nomine di Forza Italia in Campania non le siano andate tanto a genio. Ci sbagliamo?
No, non vi sbagliate. Le dico di più. Io credo sia arrivato il momento di dire con chiarezza che la gestione del partito portata avanti dal senatore De Siano in Campania non ha nulla a che vedere con la democrazia e il confronto interno.
Una critica molto severa. Lei è però un esponente importante di Forza Italia, sarà stato consultato in questi giorni a proposito delle nomine.
No, assolutamente no! In questi quindici anni in cui ho rappresentato Forza Italia al Parlamento europeo non ho mai interferito nella gestione territoriale del partito, nonostante sia sempre stato tra i primi eletti in ogni competizione elettorale grazie alle migliaia di consensi raccolti in quasi ogni comune delle cinque province della Campania.
Beh, forse avrebbe dovuto essere consultato, non crede?
Non l’ho fatto sia per rispetto nei confronti del coordinamento regionale sia perché, in tutta onestà, mi sarei aspettato di essere coinvolto di più nelle scelte organizzative del partito sul territorio, cosa che non è mai avvenuta.Ma c’è un limite a tutto. La gestione del coordinatore De Siano è oramai frutto di scelte che poco hanno a che fare con il confronto democratico all’interno di un partito che ama definirsi liberale come Forza Italia.
Coordinatore Fi in Campania. Domenico De Siano ha portato Fi dai fasti del 20 e passa per cento ad una percentuale sotto il 5 per cento del consenso
Quanto, secondo lei, queste nomine influiscono effettivamente sulla resa elettorale di un partito?
Beh, lei guardi qual è la resa elettorale! La risposta è nella sua domanda, mi sembra evidente. Non c’è da meravigliarsi se Forza Italia sia passata dal 17% delle Regionali 2015 al 5% delle ultime, continuando a perdere consensi e amministratori sul territorio a vantaggio dei nostri alleati di centro-destra.
Tutta colpa del coordinatore regionale, quindi?
De Siano dovrebbe interrogarsi su questi dati e sulla scarsa capacità attrattiva del nostro progetto politico. Non mi meraviglia il fatto che abbia perso, da candidato sindaco, persino le amministrative a Lacco Ameno, il suo Comune. Un partito non può essere un fortino chiuso e arroccato su se stesso, né deve somigliare a un club privato in cui può crescere solo chi è gradito al coordinatore regionale. Io sono abituato a confrontarmi con gli elettori giorno dopo giorno. E soprattutto sono abituato ad essere eletto con le preferenze, a differenza del senatore De Siano la cui ultima elezioni con le preferenze risale alle Regionali del 2010, ben 11 anni fa.
I nuovi coordinatori provinciali sono le persone giuste per rimettere in moto il partito, a suo avviso?
Non è una questione di merito, ci mancherebbe, ma di metodo. Nulla contro i nuovi coordinatori provinciali e cittadini, di cui ho grande stima e rispetto. Ma credo sia un dovere morale sollevare un problema che è sotto gli occhi di tutti e sulla bocca di tantissimi amministratori cittadini che non si sentono più adeguatamente rappresentati da una gestione che definire patriarcale è poco.
A distanza di anni dal suo addio alla scena pubblica, Sandro Bondi (foto Imagoeconomica in evidenza) torna a parlare. Lo fa con tono sommesso, riflessivo, in un’intervista al Corriere della Sera in cui ripercorre alcuni snodi della sua carriera politica, il rapporto con Silvio Berlusconi, l’attuale scenario politico e il senso della sua nuova vita a Novi Ligure, dove oggi ricopre — gratuitamente — il ruolo di direttore artistico del teatro Marenco.
«A Novi Ligure per amore e per restituire qualcosa»
«Ho accettato questo incarico per dare un contributo alla comunità in cui vivo. È un teatro bellissimo, restaurato anche grazie al Ministero dei Beni culturali», dice Bondi, senza mai ricordare che proprio lui fu, in passato, ministro della Cultura. Vive da quindici anni con Manuela Repetti, ex parlamentare come lui: «Ci siamo reinventati la vita. Di lei amo la sensibilità e la compassione per ogni essere vivente».
Lontano dalla politica, ma con uno sguardo vigile
«La politica non mi appartiene più», afferma con decisione. Nel 2018 si è ritirato a vita privata, convinto di aver partecipato a un progetto politico — Forza Italia — «di cui non è rimasto quasi nulla». Il giudizio su Matteo Renzi, con cui simpatizzò dopo l’addio al partito azzurro, è netto: «Una delusione politica e umana». E se di Elly Schlein apprezza l’onestà, ne critica l’indeterminatezza politica.
Il ricordo di Berlusconi e l’ammirazione per Meloni
Del suo lungo sodalizio con Silvio Berlusconi — iniziato grazie allo scultore Pietro Cascella — conserva «ricordi belli e meno belli». «Era un uomo complesso, indecifrabile. Avevamo un rapporto profondo». Lo affiancava ogni giorno ad Arcore, ma senza mai viaggiare con lui: «Avevo il terrore dell’aereo». Poi, con l’aiuto di Manuela, ha superato anche quella paura.
Di Giorgia Meloni dice: «Sta lavorando molto bene. L’Italia con lei è in buone mani». Apprezza anche Antonio Tajani e Raffaele Fitto: «Entrambi portano con sé un bagaglio europeo che li rende credibili. E Gianni Letta è una figura che continuo ad ammirare».
Il disincanto per il ministero e l’arte della rinascita
Della sua esperienza ministeriale non conserva nostalgia: «Non è un ricordo piacevole. Ogni cosa veniva strumentalizzata. Come il linciaggio per il crollo di un piccolo muro a Pompei». A Sgarbi, con cui condivise l’ambiente culturale, ha inviato un messaggio attraverso la sorella: «Spero possa rinascere».
«La mia fede è fragile. Come la memoria della Chiesa»
Bondi si descrive come un uomo semplice, tormentato dal pensiero della morte e dalla paura di non rivedere più chi ama. «La mia fede non è profonda. Anzi, ogni giorno che passa è sempre più fragile», confessa. E sul suo futuro dice con umiltà: «Mi piacerebbe essere ricordato come un uomo normale, con le sue paure, bisognoso di dare e ricevere amore».
E’ stata trasmessa dal governo alla Corte penale internazionale la memoria difensiva sulla mancata consegna di Njiiem Almasri, il comandante libico arrestato e rimpatriato dopo pochi giorni nel gennaio scorso. Martedì sarebbero scaduti i termini della proroga chiesta e ottenuta da Roma rispetto alla deadline inizialmente fissata per il 17 marzo, e poi spostata al 22 aprile. Lunedì, dopo l’ultima richiesta di rinvio, l’incartamento è stato inviato agli uffici dell’Aja in formato digitale. L’atto, che riassume la posizione dell’esecutivo nell’affaire, è ora all’attenzione dei giudici con base nei Paesi Bassi che, in sostanza, accusano l’Italia di non aver eseguito il mandato d’arresto, di non aver perquisito Almasri, di non aver sequestrato i dispositivi in suo possesso e di aver sperperato denaro pubblico rimpatriandolo a Tripoli a bordo di un aereo dell’intelligence.
Secondo quando si apprende, non è escluso che nell’incartamento sia stato ribadito quanto affermato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel corso dell’informativa in Parlamento a febbraio scorso. In sostanza il numero uno di via Arenula aveva sostenuto che l’arresto del generale libico, accusato di crimini contro l’umanità, era avvenuto senza una preventiva consultazione con il ministero, che il mandato della Corte penale internazionale conteneva “gravissime anomalie” e dunque era “radicalmente nullo”. In Aula Nordio ha ricordato che è il ministero della Giustizia, secondo la legge 237 del 2012, a curare “in via esclusiva” – recita la norma – i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale. Ma nel caso di specie – è la posizione ribadita dal ministro – via Arenula è stata tagliata fuori fin dall’inizio.
Una notizia informale dell’arresto, avvenuto a Torino alle 9.30 del 19 gennaio, spiegò davanti ai parlamentari, “venne trasmessa da un funzionario Interpol a un dirigente del nostro ministero alle 12,37”. Solo il giorno dopo, lunedì 20 alle 12.40, il procuratore della Corte d’appello di Roma ha inviato “il complesso carteggio”. Ed alle 13.57 l’ambasciatore italiano all’Aja ha trasmesso al ministero la richiesta di arresto. La comunicazione della questura, ha spiegato a febbraio Nordio, “era pervenuta al ministero ad arresto già effettuato e, dunque, senza la preventiva trasmissione della richiesta di arresto a fini estradizionali emessa dalla Cpi al ministro”. Sul punto la Corte aveva assicurato di aver avviato il “dialogo con le autorità italiane per garantire l’efficace esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta” di arresto.
Il ministro ha puntualizzato che il dicastero “non ha” un ruolo da mero “passacarte”, ma è un “organo politico” che analizza e valuta bene prima di decidere. E mentre via Arenula valutava, la Corte d’appello di Roma scarcerava il libico, rilevando “irritualità” nell’arresto, perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia”, che, interessato il giorno prima dalla stessa Corte “non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito”. Nessuna negligenza, è stata quindi la posizione espressa dal Guardasigilli: nel documento della Cpi “c’erano tutta una serie di criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello”. La parola passa ora ai giudici della Corte penale che dovranno analizzare la memora trasmessa da Roma e se non dovessero essere convinti delle ragioni dell’Italia, potrebbero rinviare il dossier all’Assemblea degli Stati parte oppure al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Reintrodurre le preferenze o mantenere i listini bloccati: rischia di essere il primo dei bivi da affrontare nella discussione sulla legge elettorale che il centrodestra sta iniziando ad avviare. Finora si contano solo ipotesi, di fronte a cui le opposizioni hanno rizzato le antenne, anche alla luce dell’ultima intervista in cui Giorgia Meloni ha fatto allusioni a un bis. C’è chi come Angelo Bonelli (Avs) che davanti a questa “accelerazione” si domanda se la premier voglia “andare a elezioni anticipate”. Chi come la leader del Pd Elly Schlein si limita a dire che “non c’è stato nessun contatto” con la maggioranza. E chi come il presidente del M5s Giuseppe Conte resta attendista: “Non c’è nessuna proposta. Quando sarà e se ci sarà, questa disponibilità” al confronto “noi valuteremo”.
Meloni intanto si prepara, mercoledì in Senato, a ribattere alle critiche delle opposizioni, che nel premier question time la interrogheranno sugli impegni assunti con gli Usa nell’incontro con Donald Trump, sulle strategie contro il caro-bollette, su politica industriale, spese militari e riforme da realizzare. Difficilmente la leader di FdI cambierà la linea sul premierato, la “madre di tutte le riforme”, da portare avanti. Ma i dieci mesi di stallo alla Camera fanno ritenere a molti che non sia più una priorità. “È stata ridotta – l’affondo di Davide Faraone, di Iv – ad un accordicchio old style per una modifica alla legge elettorale”.
“Non c’è nessun cantiere aperto sulla legge elettorale, figurarsi se vogliamo destabilizzare il Parlamento con due anni davanti…”, prova a frenare un big di FdI. I ragionamenti, però, sono avviati. Se ne sta discutendo “tra noi all’interno del partito e anche con gli alleati, e il confronto si allargherà necessariamente anche alle opposizioni”, ammette Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama dove sta per essere incardinato il ddl che interviene sui ballottaggi per i comuni sopra i 15 mila abitanti. Una modifica vista negativamente dalle opposizioni. Balboni è anche “favorevole” alle preferenze, pur riconoscendo che “non sono così necessarie” se “le liste sono corte, quattro, cinque o massimo sei candidati”.
Meloni si è sempre dichiarata contro i listini bloccati, ma secondo gli umori che emergono per ora in Parlamento l’idea di reintrodurre le preferenze proprio non alletta FI e Lega. Una novità in cantiere è l’eliminazione dei collegi uninominali, all’interno di una cornice proporzionale con premio di maggioranza. “A noi – dice il capogruppo di FI alla Camera Paolo Barelli – il proporzionale, sempre su base maggioritaria, non dispiace. Sempre maggioritario, quindi, non un proporzionale assoluto. Ma è ancora prematuro”. I tempi non sono stretti se si guarda all’orizzonte della primavera 2027. Se invece dovesse realizzarsi uno scenario di voto anticipato di un anno, non sono escluse accelerazioni non troppo lontane. Intanto nel centrodestra proseguono le riflessioni sul terzo mandato dei governatori.
Il prossimo bivio è entro il 18 maggio, quando scadono i termini del governo per impugnare la legge trentina che introduce il terzo mandato per il presidente della Provincia autonoma. Dopo la sentenza della Consulta che ha fissato a due il limite nelle Regioni ordinarie, le varie anime dell’esecutivo (da una parte la Lega, dall’altra FdI e FI) cercano un punto di caduta. Il tema è stato affrontato nell’ultimo Consiglio dei ministri, mercoledì scorso, e potrebbe tornare sul tavolo il prossimo venerdì. Intanto c’è attesa anche per il parere del Consiglio di Stato sulla finestra elettorale per il Veneto: autunno 2025 o primavera 2026, i due scenari.