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Politica

Meloni attacca le toghe e difende il governo: «Riforma della giustizia, so cosa comporta»

Giorgia Meloni al Tg5 rilancia sulla separazione delle carriere e accusa la magistratura: «C’è un disegno politico». Difesa su caso Almasri e Open Arms, ponte e dazi.

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Giorgia Meloni, ospite al Tg5, non si limita a un commento istituzionale. Rilancia con forza sul tema giustizia, scagliandosi contro una parte della magistratura che, a suo dire, «vuole frenare l’azione del governo». A scatenare la reazione della premier è stata l’archiviazione della sua posizione nel caso Almasri, contrapposta alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Nordio, Piantedosi e Mantovano.

«Loro hanno agito nel rispetto della legge», ha dichiarato Meloni, aggiungendo: «Io non sono Alice nel Paese delle Meraviglie, sono il capo del governo e non faccio finta di non sapere, come qualcun altro…». Il riferimento velenoso è all’ex premier Giuseppe Conte e alla vicenda Open Arms, con Salvini al Viminale e l’esecutivo gialloverde alla guida del Paese.

Il disegno politico e la riforma della giustizia

«Vedo un disegno politico intorno ad alcune decisioni della magistratura», ha detto Meloni, legando tali scelte al percorso legislativo della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, attualmente in fase avanzata. Una riforma contestata dalle toghe e che, secondo il governo, vedrà la luce entro novembre. «Sapevo a cosa andavo incontro», ha aggiunto con tono fermo, lasciando intendere che le pressioni esterne non fermeranno l’azione dell’esecutivo.

Dazi USA e difesa dell’agroalimentare italiano

Sul fronte internazionale, Meloni ha rassicurato sull’impegno italiano in merito ai dazi imposti dagli Stati Uniti. «La Commissione UE sta trattando, ma l’Italia farà di tutto per difendere i suoi interessi», ha promesso. Ha poi ricordato l’intervento del governo con un miliardo di euro per le filiere agroalimentari e un nuovo pacchetto di semplificazioni.

ZES e regionali: il governo accelera

In tema economico, la premier ha difeso l’allargamento della ZES anche a Marche e Umbria, sottolineando i risultati ottenuti nel Mezzogiorno: «27 miliardi di euro e decine di migliaia di posti di lavoro. Sono dati certificati». Sulle elezioni regionali, Meloni si è detta fiduciosa: «Troveremo la quadra. Noi stiamo insieme per scelta».

Ponte sullo Stretto e Roma Capitale: «Finalmente si parte»

Il progetto definitivo per il Ponte sullo Stretto e lo status speciale per Roma Capitale sono due dossier storici che, secondo la premier, solo questo governo ha davvero sbloccato: «Sono molto fiera, finalmente si parte». Meloni rivendica così un’operatività concreta dove altri, dice, si sono limitati alle parole.

L’autunno e l’Italia che tiene

Infine, sul futuro economico e sociale, Meloni chiude con ottimismo: «Il nostro sistema produttivo è solido, il governo è stabile. I fondamentali dell’economia italiana sono migliori di molte grandi nazioni europee».

La giornata si è conclusa con un momento di leggerezza all’Ippodromo La Maura di Milano, dove la premier, in maglietta rosa e pantaloni neri, ha portato la figlia Ginevra al concerto delle Blackpink. Un’immagine pop che contrasta con i toni battaglieri dell’intervista, ma che mostra la doppia anima della leader: rigore istituzionale e maternità, fermezza e umanità.

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Vincenzo De Luca resta il dominus del Pd in Campania: così ha piegato Schlein, Fico e tutto il centrosinistra

Vincenzo De Luca si prepara a restare al comando della Regione Campania con un accordo che conferma il suo potere familistico sul Pd del Sud: una rete di controllo totale, da Piero alla Sanità.

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Non è un’indiscrezione, non è un retroscena: Vincenzo De Luca continuerà a governare la Campania. Non come presidente ufficiale, ma come regista onnipotente di un sistema di potere che tiene in pugno il Partito Democratico del Sud. L’accordo è fatto: la facciata sarà affidata, con ogni probabilità, a Roberto Fico. Ma la regia sarà tutta del leader di Salerno, che detta le condizioni e pretende l’ultima parola su ogni cosa, dalle liste agli assessorati.

Un potere costruito tra famiglia e fedelissimi

Nel mosaico politico che De Luca ha disegnato nel tempo, ogni tessera è al suo posto. Vuole Piero, suo figlio, alla guida del Pd campano. Vuole decidere chi si occuperà di sanità. Vuole mettere il timbro su chi guiderà il consiglio regionale. E vuole liste proprie, da cui far eleggere i suoi consiglieri, garanti del rispetto del suo disegno. Il potere di De Luca è anche questo: controllo ferreo, capillare, senza deleghe reali.

Il Pd nazionale, pur di evitare il disastro elettorale in Campania, cede. Marco Sarracino, uno dei fedelissimi di Elly Schlein, lo ha detto chiaramente: “O lo facciamo contento o perdiamo la Regione dopo dieci anni”. Una resa, politica e simbolica, davanti al più potente dei cacicchi.

Una storia personale intrecciata alla conquista del potere

La carriera di Vincenzo De Luca è un racconto di determinazione e controllo. Ex dirigente comunista, sindaco di Salerno trasformato in sceriffo, uomo del manganello “commovente strumento di persuasione”, ha saputo coniugare ordine e consenso. Le fontane nelle piazze e la mitologia dell’uomo che conosce “uno per uno” i suoi elettori sono parte di una narrazione costruita negli anni. Da Salerno a Palazzo Santa Lucia, dove oggi detta legge.

Dietro di lui, la famiglia come asse del potere: il figlio Piero in Parlamento, ora l’ambizione a prenderne la guida politica regionale. Un modello familistico, affondato nella tradizione meridionale del potere personale, ben radicato in un Pd del Sud che, di fatto, non è mai cambiato.

Un Pd piegato, una Schlein costretta a cedere

Elly Schlein, che aveva promesso di cambiare il partito, si ritrova oggi costretta a piegarsi davanti a ciò che più detestava: l’uomo simbolo del vecchio Pd. De Luca, che non ha mai nascosto il disprezzo per la segretaria — “la ragazza” — oggi la tiene in scacco. Anche Conte, suo alleato nella coalizione, tace o balbetta. Il vero lavoro sporco lo fa il Nazareno, che annulla se stesso pur di non consegnare la Campania al centrodestra.

Persino una parte del mondo culturale progressista — da Isaia Sales a Giulio Sapelli — si è ribellata, firmando una lettera di denuncia contro questa scelta. Ma tutto si tiene: il potere di De Luca, l’inerzia del Pd, l’illusione del rinnovamento.

Un sistema che incide su tutto

La forza di De Luca non è solo elettorale. È un sistema di relazioni, promesse, tessere, ricatti, finanziamenti. Muove persone, risorse, candidature. Persino la vicenda del Teatro San Carlo lo vede protagonista, schierato contro il sindaco Manfredi, accusato di stare troppo vicino a Fico. Un piccolo segnale, ma carico di significati.

Il “rumore” di fondo di questa storia — come quello delle api impazzite — è il suono dei neuroni di De Luca che lavorano instancabilmente per conservare tutto il potere conquistato. Non presidente, forse. Ma fantasma potente dentro il Palazzo.

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Caso Almasri, i Servizi segreti sapevano ma l’Italia scelse la Rada: il retroscena sulle pressioni e l’interesse nazionale

Il direttore dell’Aise Caravelli conferma i legami con la Rada Force e l’interesse a evitare ripercussioni. Ma il Tribunale dei ministri smentisce la minaccia concreta e solleva dubbi sulla gestione politica del caso Almasri.

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La collaborazione con la Rada Force, la milizia libica antiterrorismo di cui Osama Najee Almasri era una figura di vertice, è uno degli elementi centrali che emergono dalle dichiarazioni rese dal direttore dell’Aise Giovanni Caravelli davanti al Tribunale dei ministri. Secondo quanto riferito, la Rada operava in aree cruciali di Tripoli, comprese le zone dove erano presenti ambasciata e residenza dell’ambasciatore italiano.

Caravelli ha spiegato che la Rada era un alleato utile nel contrasto a traffici illegali, compresi quelli di esseri umani e stupefacenti. Ma il punto più controverso è che i Servizi italiani avrebbero ignorato l’indagine della Corte penale internazionale (Cpi) sull’uomo, nonostante la collaborazione già avviata da tre anni tra l’Italia e l’Aia nell’ambito di una task force congiunta.

Il nodo dell’interesse nazionale e l’invocazione dello “stato di necessità”

Alla base delle decisioni prese a Palazzo Chigi, dopo l’arresto di Almasri il 19 gennaio, ci sarebbe stato il timore — mai documentato — di possibili ritorsioni contro il personale italiano in Libia. In quelle riunioni segrete si sarebbe dunque valutata la possibilità di evitare la consegna di Almasri alla Cpi, puntando al rimpatrio in Libia.

La difesa dei ministri Nordio, Piantedosi e Mantovano ha invocato lo “stato di necessità” citando un articolo della Commissione Onu che permette di non ottemperare a un obbligo internazionale se è l’unico mezzo per salvaguardare un interesse nazionale imminente. Ma secondo i giudici non c’era alcuna minaccia concreta: né atti né pressioni indebite, come confermato anche da una dichiarazione parlamentare del ministro Piantedosi.

Il segreto di Stato evocato ma mai apposto

A complicare ulteriormente il quadro, c’è la testimonianza della capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi, definita dai giudici «inattendibile, anzi mendace». La dirigente avrebbe sostenuto che la richiesta di estradizione libica, in concorrenza con quella della Cpi, fosse coperta da segreto di Stato. Ma nessuna comunicazione ufficiale lo conferma. Né Caravelli, né altri funzionari coinvolti hanno mai apposto un simile vincolo.

Bartolozzi, secondo le carte, avrebbe bloccato anche la firma di un provvedimento già predisposto per mantenere in carcere Almasri, evitando di mostrarlo al ministro Nordio perché mancava — a suo dire — «l’altra parte» dell’informazione, cioè il canale informale con i Servizi. Una gestione parallela e segreta che ha generato frizioni anche con i vertici del Dipartimento affari di giustizia.

Il blocco delle comunicazioni con l’Aia

A rendere il quadro ancora più opaco è l’episodio in cui Bartolozzi avrebbe interrotto le comunicazioni con l’Aia. Domenica 19 gennaio, ore dopo l’arresto, la dirigente avrebbe chiesto ai funzionari del ministero e al magistrato di collegamento in Olanda di non trasmettere più nulla. «Basta, basta, basta. Non comunicate più», avrebbe detto, imponendo una linea di silenzio assoluto.

Eppure, la richiesta libica formale di estradizione è arrivata solo successivamente al rimpatrio di Almasri, rendendo impossibile un vero “bilanciamento” con quella della Cpi, come previsto dalle procedure.

Il caso resta aperto, almeno sul piano politico e istituzionale. Ma sul piano giudiziario, le richieste di autorizzazione a procedere segnano un passaggio delicatissimo nel rapporto tra potere esecutivo, intelligence e giustizia.

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Politica

Caso Almasri, il segretario dell’ANM Maruotti: «Nessuna vendetta delle toghe contro il governo»

Il segretario dell’ANM Rocco Maruotti respinge le accuse di Giorgia Meloni: «Il procedimento Almasri non è una vendetta, la politica non può sostituirsi ai giudici».

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Rocco Maruotti (foto Imagoeconomica), segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati ed ex pm, interviene con fermezza sul caso Almasri, rigettando con decisione l’ipotesi di una ritorsione della magistratura contro il governo. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, risponde così alle accuse lanciate da Giorgia Meloni, che aveva parlato di un presunto «disegno politico» dietro alcune decisioni giudiziarie, legandole alla riforma della giustizia in corso.

«È assolutamente falso», afferma Maruotti. «Era solo questione di tempo prima che qualcuno a Palazzo Chigi collegasse questa indagine alla riforma della magistratura. Ma non c’è nessuna vendetta. Piuttosto, sembra un’anticipazione della scelta di difendersi dal processo invece che nel processo».

La valutazione di legalità non spetta al governo

Meloni ha sostenuto che i ministri coinvolti — Nordio, Piantedosi e Mantovano — hanno agito «nel rispetto della legge». Ma per Maruotti, questa è una valutazione che spetta solo all’autorità giudiziaria: «Il Tribunale dei ministri ha esaminato il caso con rigore. I suoi componenti, per quanto sorteggiati, hanno superato un concorso in magistratura. Forse sarebbe il caso che a stabilire se ci sono state violazioni della legge sia un giudice».

A chi accusa la magistratura di aver invaso il campo della politica, Maruotti ribatte: «Alla luce delle parole della presidente del Consiglio, forse è la politica ad aver invaso il campo della giustizia».

Perché l’archiviazione di Meloni

L’archiviazione della posizione della premier è stata, secondo Maruotti, una conseguenza logica dell’indagine: «Il Tribunale ha valutato con attenzione le posizioni dei vari indagati, ritenendo che solo per alcuni fosse possibile ipotizzare una condanna. L’archiviazione è ampiamente motivata».

Quanto alla possibilità che Meloni possa essere indagata nuovamente, Maruotti è chiaro: «Non credo. Il decreto di archiviazione non è impugnabile e la responsabilità politica non equivale a quella penale».

Stato di necessità? Spetta al giudice stabilirlo

Sul possibile stato di necessità evocato dal governo come giustificazione delle proprie scelte, Maruotti precisa: «Chi invoca una scriminante ammette di aver commesso il fatto. Ma nel caso in esame, gli elementi raccolti escluderebbero che i ministri abbiano agito sotto costrizione. Anche in questo caso, deve essere un giudice a decidere, ma ritengo improbabile che il processo venga celebrato per la prevedibile mancanza dell’autorizzazione a procedere».

Il punto politico e il rispetto del diritto

Interpellato sulle parole del presidente dell’ANM Cesare Parodi e sulla possibile responsabilità della capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, Maruotti si mantiene cauto: «Non è stato fatto alcun nome. Le eventuali responsabilità politiche spettano alla politica».

Infine, respinge al mittente l’accusa di voler ostacolare il contrasto all’immigrazione illegale: «È un’accusa infondata. Le norme esistenti, nazionali ed europee, non consentono a nessun governo, nemmeno a chi ha vinto le elezioni, di agire sulla pelle degli esseri umani».

Con questa intervista, Maruotti riafferma il principio di separazione dei poteri e difende con decisione l’autonomia della magistratura, respingendo ogni tentativo di delegittimazione.

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